A più voci Bologna 1988: biennale giovani Formenti, Bifo, Caronia Simulazione e arte Leonetti Calvino americano Barilli Design ed etica, oggi Pacchetti La guerra assente Sessi Islam e Occidente Blasone Neo-Japonesque Pomi/io Saggi Ulisse: il ritorno dell'abietto Tagliaferri Uninedito Cfr Pagine da Poesia Mostre Lettere Recensioni diAndreaPaziema ,· . ,· \ • . . • . .. ,, ,._. . . -;: . ., - ..... -: r - •. • •. ' . • ---.~:·.·:··:'\:- .. .'· • ·-.:...-.:·.:-! ;, ... ;. . --.~-~- ~-~- •. :,--4-;.·;- • -·• • . . , ·:.l·· .• • : ! .. . . . . . : .. ··• -· •• ' Nuova serie Dicembre 1988 Numero 114 I Anno 10 Lire 6.000 Edizioni Nuova Intrapresa Via Caposile, 2 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in Italy Prove d'artista Ramous Ottonieri Porta Loriana Castano ······-"' .! •
pagina 2 Le immagini di questo numero senzapaura I I linguaggio di una rivista è il • risultato di una progettualità complessa dove parole e immagini, intenzionalità e capacità realizzative, tensioni intellettuali e momenti di id(!.ntitàpropositiva s'intersecano e si completano all'interno di un artefatto che, proprio per tutte queste polarità, dovrebbe essere unico nel panorama della produzione editoriale. In particolare le immagini costituiscono un percorso saggistico che, nella sua autonomia linguistica, non deve mai sovrapporsi all'itinerario verbale, anche se, ovviamente, non è possibile negare aprioristicamente una serie di relazioni tra il testo e le figure, in quanto la regia di un prodotto del genere è sempre nelle mani e nella testa di un responsabile, il progettista grafico. Il rapporto contenuto e forma deve permettere a un numero sempre più elevato di interpreti di "godere e di usufruire di un prodotto che è il messaggio visivo. Che cosa vuol dire contenuto e forma in questo caso? Il contenuto è la conoscenza specifica del- /' oggetto che deve essere visualizzato sino ad una sintesi così evidente che, ridotta nei termini del segno speciale, quindi termini minimi, sia immediatamente percepibile e chiara. C'è una notevole quantità di segni, ma c'è sempre un bassissimo livello estetico". Così si esprimeva nel 1973 Albe Steiner a proposito della grafica editoriale italiana; lo Steiner so- • prattutto del Politecnico di Elio Vittorini, cioè una figura di designer che ha sempre cercato di tradurre razionalmente i grandi contenuti della storia e della progettualità degli uomini concreti. Alfabeta ha sempre privilegiato una sintesi di parole e immagini, di testo e spazio tipografico: ogni suo elemento di scrittura è pensato nel segno di una teoria e di una pratica attenta sia alla ricerca artistica-visiva sia al dibattito delle idee. Non è facile coniugare due culture che hanno, spesse volte, due diversi canali di comunicazione e di interpretazione. I significati rimbalzano all'interno di una serie di codici, tra loro raramente in relazione; da qui la difficoltà di realizzare un prodotto editoriale che mantenga una sua unitarietà, ma nello stesso tempo sia aperto a lettori che provengono da esperienze culturali disomogenee. Gli undici anni di vita di Alfabeta dimostrano che questo è possibile a condizione che esistano tre autori: un'art director della rivista che sia un intellettuale militante, Gianni Sassi, una direzione che ne condivida l'impostazione progettuale, e soprattutto un pubblico che si senta direttamente coinvolto, pur dialetticamente, dalle proposte culturali. Gli ipotetici segni di una crisi progettuale possono derivare anche da una certa disaffezione di uno dei tre autori: ma la vitalità di un'impresa è dimostrata esclusivamente dalla forza delle sue idee propositive, anche quando questi stimoli sembrano provenire da settori marginali, comunque non accademici, del sistema culturale. Sommario Alfabeta 114 Dicembre 1988 Francesco Leonetti Simulazione e arte pagina 6 Pino Blasone La scelta delle immagini di Alfabeta vuole significare questo: un'apertura verso il futuro attraverso una serie di tavole inedite di Andrea Pazienza, realizzate undici anni fa per illustrare il catalogo della etichetta discografica CRAMPS, di cui la CGD sta ora curando una riedizione. Il fumetto è un linguaggio dinamico, flessibile e molto permeabile e attento alle trasformazioni dei comportamenti, dei linguaggi, delle tensioni sociali; Pazienza, in particolare, è stato un autore che ha mescolato la sua ricerca visiva con le modificazioni dei valori e dei modelli sociali, senza farsi mai condizionare dal già letto, dal già descritto. "Per fare il fumetto bisogna partire dal segno, il segno è una metafora meravigliosa. Noi siamo circondati da oggetti tangibili depositari di un segno o di una serie di segni; dallo studio di questa serie di segni nasce la matematica del segno, cioè il disegno. Da piccolo, infatti, Leggevo pochissimi fumetti; Paperino è L'unico che mi viene in mente subito". Andrea Pazienza era dentro il mondo giovanile, e la sua fonte d'ispirazione non era tanto un'idea astratta di realtà quanto il percorso reale della ricerca conoscitiva, con tutte le sue contraddizioni e anche i suoi balbettii, Lesue indecisioni, le sue imperfezioni. Istintivamente Pazienza si avvicinava ai temi da visualizzare, sempre pronto a cogliere i tratti fondamentali dei protagonisti, delle situazioni; la cronaca non apparteneva alle sue tavole, se non come Saggi Aldo Tagliaferri sfondo e occasione teatrale dove far emergere i protagonisti, la storia. I ritrattipresenti in alcune delle tavole di questo numero di Alfabeta sono indicativi del modo in cui questo scrittore scomparso, purtroppo prematuramente, si rapportava alla realtà da rappresentare: Walter Marchetti, Juan Hidalgo, gli Area, Demetrio Stratos, Nanni Balestrini, Steve Lacy, Arrigo Lora-Torino, John Cage, e altri ancora, sono sempre interpretati sia in termini «espressionistici», isolati l'uno da~'altro, sia come parte di una lunga storia cinematografica nella quale ciascuno è presente con i suoi gesti, i suoi strumenti di Lavoro, La sua concezione del mondo. Ai lettori Per difficoltà intervenute nella gestione della Caposile s.r.l. ci troviamo nella condizione di dover sospendere momentaneamente la pubblicazione della rivista. Alfabeta si propone di tornare a uscire nei prossimi mesi in veste migliorata e con un nuovo assetto editoriale. Umberto Eco definì Andrea Pazienza un postmoderno, non tanto, credo, per Lapresenza di più stili, quanto per la sua capacità di parlarci del mondo in termini frammentari, citazionistici, senza però, con questo, abbandonarsi alla descrizione decorativa della realtà. Il suo realismo era radicato fortemente nelld storia dei suoi anni, della sua immaginazione Ulisse: il ritorno dell'abietto pagine 34-35 Alf abetà 1T4 mai astratta rispetto alle trame dei fatti, delle tensioni e delle speranze nelle quali era immerso. In questo senso le immagini di Andrea Pazienza non rappresentano soltanto un giusto omaggio a uno dei più grandi autori di storie visive di questi ultimi anni; costituiscono, secondo noi, anche un giusto segno di complementarietà culturale per LaBiennale dei Giovani che si tiene a Bologna nel mese di dicembre, tema a cui Alfabeta dedica Lasua apertura. Gli anni '90 si presentano per ora all'insegna di una sorta di cui- . tura multivisiva ed eclettica, dove l'attività creativa, o pretesa tale, sembra circolare con maggior forza, rispetto al periodo precedente. Senza però dimenticare, come scriveva Elio Vittorini, in una Lettera indirizzata ad Albe Steiner, che la vera cultura, la vera progettualità etica e politica deve sempre respingere "una sfera idealistica di vita, una specie di universo hegeliano, in cui L'uomo, l'unità concreta di misura, vive nella spaventosa solitudine di un rapporto con L'ideae unicamente con l'idea, anziché nella comunione sperata della realtà, dei rapporti effettivi, razionali e non razionali, con i compagni uomini: senza paura". Questo è il significato, secondo noi, delle immagini di Andrea Pazienza, ma è anche il significato più vero del progetto, nel passato ma soprattutto nel futuro, di una rivista come Alfabeta. Senza paura. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Renato Barilli Calvino americano pagina 7 Tra l'Islam e l'Occidente (Racconti indiani, di Hesse; Studi sull'induismo, di Guénon; La poésie arabe moderne entre l'Islam et l'Occident, di Zeghidour; Divano occidentale, a cura di Scorcia) Prove d'artista Mensile di informazione culturale Pubbliche relazioni: Monica Palla A più voci Antonio Caronia Fantascienza pagina 3 Franco Berardi Bifo Innocenza pagina 4 Carlo Formenti Mitologia pagina 5 Martin Kelm Le alternative del design pagina 8 Giancarlo Iliprandi Un vagone pieno di domande pagina 9 Roberto Ubaldi Il valore simbolico degli oggetti pagina 9 Carla Venosta Il design e l'ambiente pagina 10 I pacchetti di Alfabeta Frediano Sessi La guerra assente (La specie umana, di Ante/me; Dii/on Bay, un racconto militare, di Del Giudice; Il dolore, di Duras; La cena delle ceneri, di Fortini; Ognuno muore solo, di Fallada; Gioventù senza Dio, di Horvat; Transito, di Segher; L'inverno nucleare, di Moravia; Opere, di Levi; Lettera da Kupiansk, di Spinella; Scuola di empietà, di Tisma) pagina 11 pagina 12 Tommaso Pomilio Neo-Japonesque (Exotisme et altérité. Essai sur /es fondements d'une critique de l'anthropologie, di Affergan; Le Japonisme; Furyo, di Oshima; Japon Fiction, "Traverses") pagina 12 Cfr Cfr/dall' Arizona pagina 17 Cfr/da Berlino pagina 18 Cfr!Poesia pagine i8-19 Cfr/Mostre pagina 21 Cfr/Lettere pagina 22 Cfr/Recensioni pagine 23-33 .. Mario Ramous L'ambiguità pagina 36-37 Tommaso Ottonieri Un mondo di merendine pagina 38 Antonio Porta Il tempo della povertà pagina 38 Loriana Castano A Saffo pagina 39 Le immagini di qu_estonumero Il progetto di una rivista senza paura di Aldo Colonetti In copertina: disegno di Andrea Pedrazzini della cooperativa Alfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, - Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Marco Santini Antonella Baccarin Editing: Riccardo De Benedetti Edizioni Nuova Intrapresa Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 ,Stampa: Arti Grafiche Brugora Via Reggio Emilia, 27 20090 Segrate Distribuzione: Messaggerie Periodici S.p.A. V.le Famagosta 75 • 20142 Milano Telefono (02) 8467545 Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati
Alfabeta 114 La prima edizione italiana della Biennale Giovani (le precedenti edizioni si sono svolte, nell'ordine, a Barcellona nell'85,- a Salonicco nell'86, di nuovo a Barcellona nell'87) si svolgerà a Bologna dal 12 al 21 dicembre. La manifestazione, organizzata dal Comune di Bologna e dall'Arei Nova (ma fanno parte del comitato promotore anche numerose altre città e organizzazioni europee e italiane), è inserita nel calendario ufficiale delle celebrazioni per il IX centenario dell'Università. li programma si presenta particolarmente denso: 317 partecipazioni di singoli e gruppi per un totale e hissà se si può ancora «creare» qualcosa, o se invece tutto non è già stato detto, scritto, pensato, immaginato, disegnato, dipinto, cinematografato, registrato? Per certi versi, naturalmente, questo è un falso problema: qui ci sovviene la grande magia della combinatoria, e l'impossibilità pratica, intuitiva, di distinguere un numero molto grande, davvero molto grande, dall'infinito. Se anche è vero che la nostra esperienza è solo esperienza del discreto, e non del continuo, se anche è vero che i mattoni con cui costruiamo i nostri prodotti mentali sono un numero finito (lettere, fonemi, per il linguaggio parlato o scritto; colori, forme, per le imA più voci \ di 650 artisti, oltre mille opere, 7 spettacoli ogni sera, 19 discipline creative. Sono previste esposizioni di arti plastiche, fotografia, architettura, scenografia, design, ceramica, fumetto, ecc; spettacoli di teatro, danza, cinema, musica jazz, rock e contemporanea; e inoltre: meeting, dibattiti, seminari. Tre le parole chiave: giovani (gli artisti che partecipano sono tutti al di sotto dei 30 anni); creatività (più che una manifestazione d'arte la Biennale vuole essere un osservatorio dell'immaginario giovanile); Europa mediterranea (la Biennale privilegia la tradizione mediterranea in oppo- .. sizwne ali'egemonia della cultura anglosassone: partecipano Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Yugoslavia, Cipro, Grecia). Ma la creatività e l'immaginario giovanili degli anni '80 hanno precise radici: l'esperienza politica dei movimenti dal 68 ad oggi; le trasformazioni culturali degli ultimi vent'anni in campo epistemologico, estetico ed etico; l'evoluzio'}e di pratiche e componenti di massa determinata dalla transizione alla cosiddetta società post-industriale. Fattori ormai da tempo al centro di una vasta produzione saggistica e teorica. L'Arei Kids-Arci-Nova, per ricostruire Fantascienza Antonio Caronia magini) e quindi anche le loro possibili combinazioni sono in numero finito, questo numero è così alto che il nostro immaginario ha sempre delle riserve a cui attingere, delle possibilità inespresse da -attualizzare. Si può sempre inventare una parola nuova, una nuova faccia, una nuova forma di sedia. Per questo si può anche immaginare il futuro, e magari provarsi a realizzarlo così come lo si è pensato. In fondo neppure le teorie dell'eterno ritorno contraddicono questa possibilità, l'eventuale struttura circolare del tempo non va pensata come quella di un cerchio sul piano, ma come una spirale su una superficie curva, un cono, un cilindro o chissà che altro: dopo un giro non si ripassa esattamente per lo stesso punto, ma un po' più in alto. Le nuove responsabilità sociali della scienza da un lato, l'irruzione nel quotidiano delle nuove tecnologie dall'altro, hanno però trasformato il nostro immaginario: in primo luogo hanno mutato radicalmente il nostro modo di immaginare il futuro. Nei primi decenni del secolo l'immaginario scientifico e tecnologico si esprime a livello popolare con una forma di narrativa che esprime in modi nuovi un vecchio atteggiamento (vecchio almeno quanto la società moderna): la fantasèienza. Il pubblico della fantascienza avventurosa degli anni Venti e Trenta in America è un pubblico adoleGli Area: Giulio Capiozzo, Patrizio Fariselli, Demetrio Stratos, Paolo Tofani, Ares Tavolazzi pagina 31 una mappa di questi riferimenti culturali, ha chiesto ad alcuni intellettuali di elaborare un breve contributo su temi di fondo del dibattito contemporaneo in forma di «voci» di dizionario. Pubblichiamo qui di seguito tre di queste voci. Gli altri contributi saranno stampati nel catalogo Arei Nova (edito dalla Cooperativa Bold Machine a cura di Stefano Cristante e Carlo Formenti) come materiale preparatorio del convegno « L'ultima parola sul 68», inserito nel programma della Biennale. scenziale e giovanile innamorato delle fantastiche prospettive che allora prometteva lo sviluppo delle nuove tecnologie: elettricità, radiocomunicazioni, ben presto la televisione, tutte tecniche che per la prima volta nella storia non erano il prodotto dell'inventività di artigiani pazienti e geniali, ma il risultato dell'applicazione delle scoperte scientifiche del secolo precedente. Ma la proiezione nel futuro di questa tecnologia così sconvolgente non era altro che la riproposizione attualizzata di un atteggiamento più antico, quello dell'utopia, del sogno di una società futura retta da leggi più giuste, in cui l'uomo possa raggiungere la felicità. Ora al progetto cosciente del-
pagina 4 l'uomo si sostituisce una forza più impersonale, la tecnica. Il bene e il male esistono ancora, e lottano fra loro, ma le grandiose possibilità della scienza applicata sembrano promettere, almeno nel sogno, la vittoria su tutti gli antichi malanni, la vecchiaia, il lavoro ripetitivo, la noia, persino la morte. Doveva arrivare la seconda guerra mondiale, la diffusione con i mass media degli orrori hitleriani (a cui sarebbero seguiti quelli staliniani), la bomba atomica, per far dubitare gli americani del loro sogno: gli europei avevano già avuto il tempo e la possibilità di disilludersi. I giovani lettori di fantascienza degli anni Venti e Trenta crescono, mettono su famiglia, da una parte e dall'altra dell'oceano l'oggetto dei loro amori giovanili si trasforma sotto i loro occhi. Negli anni Cinquanta non ci sono più i superscienziati di «Doc» Smith, gli scontri galattici di Hamilton, le legioni dello spazio di Williamson, le imprese a fumetti di Buck Rogers e Brick Bradford. Anche gli scrittori che avevano imparato negli anni Quaranta ad essere meno approssimativi e più plausibili.nelle loro estrapolazioni scientifiche, come Heinlein e Asimov, sono costretti a problematizzare i loro racconti. Le tre leggi della robotica servono naturalmente (come dichiara l'autore) a rassicurarci che le macchine non prenderanno mai il sopravvento su di noi, ma nei gialli fantascientifici degli anni Cinquanta anche Asimov mette in scena l'inquietudine dell'uomo nei confronti di un partner che ha il suo stesso aspetto e il suo stesso comportamento, ma il cuore di una macchina: l'androide, o robot umanoide. Le nuove star della fantascienza di quegli anni sono personaggi come Bradbury, a cui non frega un accidente della scienza e usa gli scenari del futuro solo per esprimere tutto il suo disagio per la società industriale di massa e la sua nostalgia per il mondo rurale: o come Sheckley, che sghignazza su tutto, viaggi interstellari e civiltà galattiche, robot e società dello spettacolo, per dirci: «guardate che questa è la nostra società, siamo noi che siamo fatti così, io ho solo aggiunto qualche particolare, ho esagerato un po' perché le nostre tragiche buffonate siano più evidenti». N ella tradizione filosofica occidentale vi è un appiattimento del concetto di verità che lo rende subalterno al sapere; il sapere, in quanto capitale accumulato di esperienza e di conoscenza del mondo esistente viene scambiato per un criterio di verità. Questo appiattimento trova origini filosofiche autorevoli, nella concezione della verità come «adequatio rei ad intellectus», come «omoiosis», o corrispondenza all'ente. Ma la verità che i greci chiamano «aletzeia» non è riducibile alla verità della corrispondenza. Heidegger insiste nel sottolineare come «aletzeia» significhi «non esser nascosto». Ma che cosa è nascosto, e soprattutto, che cosa nasconde, che cosa produce il nascondimento? Rispondiamo subito senza perifrasi: l'esperienza produce il nascondimento, ed il nascondimento è all'opera nel Sapere, nel conoscere il mondo per esperienza, nel conoscere l'inevitabilità del destino del mondo, nel conoscere il non essere dell'armonia. Questo conoscere, questo «aver saputo e dunque sapere» nasconde. È proprio di questo sapere che occorre liberarsi. Ed è l'innocenza che costituisce la via da percorrere per cogliere, o meglio porre in essere la verità. Dell'innocenza parla William Blake: «What is the price of experience? Do men buy it for a song? Or wisdom for a dance in the street?» A più voci La logica combinatoria è ancora all'opera: le società del futuro sono costruite con gli stessi elementi delle nostre, i mattoni sono solo rimescolati ma sono sempre quelli, e il rimescolamento fa apparire degli aspetti delle cose, della nostra vita, che altrimenti non sarebbero venuti alla luce. Basta cambiare la disposizione dei mattoni e le vecchie rassicuranti utopie si trasformano negli inferni più allucinati: come 1984 o Il mondo nuovo. Il lettore continua a leggere le riviste e i libri di fantascienza nelle metropolitane, al bar durante la pausa del pasto, e questo non cambia sicuramente la sua vita: fa un risolino, si appassiona alla storia di una guerra o di un viaggio, e magari non immagina che in quel racconto si sta parlando di lui o dei suoi vicini di scrivania. Ma intanto anche nella sua testa è cambiato il modo di vedere se stesso, la coscienza con cui vive la sua vita non è più quella solida, del senso comune, che gli garantisce la continuità del suo io. Queste erano già le cose che agli inizi del secolo avevano scritto i grandi protagonisti della crisi del romanzo. Alcuni scrittori di fantascienza, negli anni Sessanta e Settanta, le riprendono: e il lettore della metropolitana, che non ha mai letto e forse non leggerà mai né Proust né Joyce né Virginia Woolf né Musil, rischia di entrare in contatto con questo io fluttuante e insicuro, che deve sempre combattere per dare un senso provvisorio anche ai suoi gesti più semplici e quotidiani, sulle pagine di paperbacks con i mostri e gli eroi spaziali in copertina. Incontrerà problemi del genere nei romanzi di Philip Dick, dove i protagonisti fanno fatica a distinguere fra la realtà e la simulazione della realtà, non sanno se vivono in un universo concreto o nelle allucinazioni di qualche magnate dell'industria o manipolatore di media, e cercano sempre con poco successo di riaffermare una loro umanità di cui sono i primi a essere poco convinti. Leggerà i libri di James Ballard, e assisterà al tentativo di descrivere i depositi nella nostra mente dei nuovi miti dell'era supertecnologica, i «fossili dell'immaginario» lasciati dai flussi e riflussi rapidissimi di una tecnologia già desueta appena lanciata (leggendo L'impero del sole abbiamo poi appreso che il primo di questi fossili, in ordine cronologico e logico, è la luce accecante della bomba di Hiroschima che il piccolo Jim vede nello stadio di Shangai). La buona, vecchia fantascienza dell'anteguerra, e la nuova, aspra fantascienza del dopoguerra, avevano in realtà un paradosso in comune: usavano un vecchio medium, la parola scritta e stampata, per raccontare la storia dell'emergere di una nuova civiltà che si basava su nuovi media. I film di fantascienza degli anni Venti e Trenta sono enormemente più famosi dei libri di fantascienza degli stessi anni, perché si esprimevano con un medium già basato interamente sull'immagine: .e per questo Metropolis o King Kong hanno lasciato nel nostro immaginario dei sentimenti molto più corposi. Ma il cinema è l'ultimo grande mezzo di comunicazione della società industriale: la sua tecnologia è il punto d'approdo di una tecnica ancora ottocentesca, come la fotografia, il modello di consumo che offre fa ancora parte dei riti di una società di massa, il radunarsi in uno stesso luogo di un gran numero di persone che uniformano il proprio comportamento. Le metafore della fantascienza, il viaggio alla velocità della luce, l'annullarsi dello spazio nell'iperspazio, la contiguità e la simbiosi fra uomo e macchina, l'arrotolarsi del tempo su se stesso e l'esplodere dell'io fra mille modelli culturali di civiltà aliene, tutte queste metafore si realizzano invece più radicalmente nei nuovi media elettronici, il video, la televisione, il computer. In questa rete comunicativa che ai nostri occhi inguaribilmente moderni appare così omologante e invece è così pervasa dalla differenza, dalla potenzialità di adeguamento e di aderenza alle esigenze sempre diverse della nostra sete_di informarci e di comunicare, si realizza (o potrebbe realizzarsi) la lezione più interessante della fantascienza, e cioè che il nostro mondo non è univoco e monolitico, ma è il prodotto dell'interazione di una pluralità di universi possibili, con i quali è possibile un gioco combinatorio che può essere teso tanto alla comunicazione quanto all'isolamento. L'esplosione dei media elettronici aveva messo in crisi la fantascienza, che pareva destinata a ripiegarsi su se stesocenza Franco Berardi Bifo In Blake la conoscenza e la verità sono strettamente collegate con il male; è l'esperienza del male - perché non vi è esperienza che non sia esperienza del male, della caduta - che introduce alla verità. Ma la verità è nella forza di liberarsi dall'esperienza. La poesia di Blake è, in quanto profezia, inscindibilmente apocalisse. Ricordiamoci che apocaliss,e significa, etimologicamente, atto di togliere il velo, di scoprire e rivelare quel che è nascosto. Il gesto di svelare (apocaliptein) è da Blake attribuito alla poesia, all'attività che, simbolicamente e profeticamente, rivela la verità nascosta dall'essere apparente del mondo, la verità nascosta dall'esperienza, la verità nascosta dal conoscere: l'innocenza è questa verità, velata e nascosta dall'esperienza del Male. Bataille riscopre il senso di questa innocenza: «L'opera di Blake propon~va all'uomo non di farla finita con l'orrore del male, ma di sostituire alla fuga dello sguardo uno sguardo lucido. In tali condizioni non restava nessuna possibilità di riposo. La delizia eterna è allo stesso tempo l'eterno risveglio: forse è l'inferno, che il Cielo poté cacciare soltanto invano». (G. Bataille, La letteratura e il male, 84-5). L'energia che sta all'origine dell'eterna delizia sprigiona dall'esperienza del male. Male che assume le forme dell'erotismo e dello spreco, del sacrilegio e della violenza. Tutto ciò che Bataille chiamerà l'«eccesso» (ma già Blake aveva scritto: «The road of excess leads to the palace of wisdom», in «Marriage of Heaven •an Hell»). In Blake, Dio è identificato con la forza del Male, con l'Energia Negativa che anima la storia. La ribellione contro la caduta, manifesta nel mondo presente, nell'inferno della rivoluzione industriale, nella sofferenza psichica e materiale, è una rivolta contro Dio. E la forma più compiuta di questa ribellione contro l'inevitabilità della Caduta, contro la verità e l'inevitabilità del trionfo del Male è la regressione creativa verso l'innocenza. Questa regressione è resa possibile dal visionario, dal poeta. Il mondo storico ha le forme di un inferno dell'esperienza: il contenuto metafisico dell'esperienza sta nella priorità e nella superiorità del Male, e dunque nell'inevitabilità della Caduta, della perdita di sé, della disgregazione. Eppure è solo attraverso l'esperienza che può nascere - come apocalisse, come scoperta, come rivelazione, come esercizio della libertà - l'innocenza. L'innocenza è la capacità di ribellarsi all'inevitabile. La dialettica e la simmetria di Espe:- rienza ed innocenza sono in fondamento dell'idea di libertà in Blake. Libertà è sottrarsi all'inevitabile. La dimensione dell'immaginazione è la dimensione in cui questa libertà si rende possibile, ed in cui l'innocenza - non sempre regressione all'infanzia od all'illusione, ma consapevoAlfa beta 114 j sa, a rinchiudersi nella ripetizione di formule e di moduli che avevano avuto un senso decenni addietro, ma non ne avevano più nella situazione di esplosione combinatoria determinata dai nuovi media. Ben pochi autori negli anni Settanta, per esempio, avevano saputo scrivere qualcosa di intelligente su un tema e un fenomeno che avrebbe dovuto essere invece molto congeniale alla fantascienza: quello del co'mputer. Alla fine degli anni Ottanta nuovi autori sembrano viceversa essere capaci di un rinnovamento che può portare la fantascienza a essere uno strumento agile per l'immaginario e la creatività: quelli che sono stati, pur con qualche forzatura, accomunati sotto l'etichetta di «cyberpunk», e che hanno il loro principale esponente in William Gibson con i suoi romanzi Neuromancer e Count Zero. Ancora una volta si gioca con i mattoni ben noti del presente per parlare di un universo possibile attraversato da tutte le contraddizioni del nostro rappresentate e evocate in modo molto lucido. Con Gibson la parola accetta la sfida delle tecnologie informatiche, e scrive del computer e come un computer: non nel senso che simula o emula il word processor, ma descrive e potenzia in modo allucinato la nuova interazione fra l'uomo e la macchina, tenta la rappresentazione di un nuovo «spazio interno», quello delle reti di computer e delle menti umane che vi sono connesse. L'immaginario della fantascienza, che sembra arrancare dietro le premesse e le realizzazioni delle nuove tecnologie, può tornare a essere uno strumento di creatività e di costruzione di un discorso su di noi, che mai come oggi è possibile solo se «si parla d'altro». «Case batté se stesso sulla tastiera penetrandovi, e trovò uno spazio azzurro infinito dov'erano allineate delle sfere dai colori in codice appese a una griglia a maglie strette di pallida luce fluorescente azzurra. Nel non-spazio della matrice l'interno del costrutto di certi dati possedeva illimitate dimensioni soggettive. Case cominciò a planare in mezzo alle sfere come se scorresse su binari invisibili... ». lezza del Male e libertà dal conosciuto - può essere conquistata, esercitata, come condizione autonoma, visionaria. «Wisdom is sold in the desolate market where none come to buy.» L'esperienza costa più di una canzone: non vi è esperienza se non attraverso il male, non vi è esperienza se non (dice Vattimo) nell'ac-cadere. Ma questo sapere dell'esperienza non è vero; questo sapere si fa talmente strutturato da divenire strutturante. L'intuizione di Blake consiste proprio nel proporre un'idea della verità come attività conoscitiva che si sottrae al conosciuto. «Innocence dwells with wisdom, never with ignorance» (Blake: Vala or the Four Zoas). L'innocenza non è condizione di ignoranza del male, di semplice illusione, bensì libertà dell'immaginazione dall'aver conosciuto l'ineluttabilità del corrompersi, del venir meno. L'innocenza non è condizione di verità se non conosce la sua premessa tragica. «lnnocence is helpless» (Bronowski: The Man without a mask). La dimensione autentica dell'innocenza è quella di una conoscenza che si sottrae al sapere. Dunque la verità di cui stiamo parlando non è adeguamento del conoscere a ciò che si dà nel mondo, bensì attività di conoscenza che pone in essere la propria libertà, che rende possibile il dispiegarsi della differen-
I Alf abeta J.14 za esistenziale del singolo. «Se ciò che si realizza è l'aprimento dell'ente in ciò che esso è e nel come è, nell'opera è all'opera l'evento della verità.» (Heidegger, Holzwege, L'origine dell'opera d'arte, 21). In cosa consiste questo non esser nascosto? Cosa rende possibile questa libertà del non dipendere dal sapere? La verità è nello stile, nella coerenza di uno stile che pone in essere il mondo, e lo pone in essere nella dimensione dell'etica e dell'estetica, non nella dimensione della conoscenza. R iflettere sulla mitologia del 68 significa, in primo luogo, riflettere sullo statuto del mito moderno. Il mito è un racconto sulle origini: del mondo di una nazione, di una cultura, di una religione, di un rito di un eroe o di un movimento. La dimensione mitica è, essenzialmente, dimensione di un passato che ritorna: non un passato particolare, un evento specifico (reale o immaginario), ma il Passato. Il mito celebra l'evento per antonomasia, ciò che è accaduto una volta per tutte, in ilio tempo re, e rispetto a cui nulla di veramente nuovo può accadere. Il tempo mitico è un eterno presente, infinita ripetizione dell'evento fondativo. Il che non implica affatto che la cultura mitica ignori il tempo: significa piuttosto che essa affronta le aporie dell'esperienza temporale (l'angoscia di fronte al divenire, alla morte, alla finitezza del nostro esistere) elaborandole in immagini simboliche che consentono di attribuire senso al tempo: per il mito, il divenire è unità dei contrari, l'infinito che si manifesta nel finito; la morte non è fine irreversibile, ma mutamento di stato, necessaria premessa di nuove nascite. A sua volta il moderno non·è, come troppo spesso si afferma, una cultura povera, o addirittura, priva di miti; è piuttosto una cultura fondata su un mito povero. Povero di immagini, o meglio: fondato essenzialmente su un'unica immagine modulata in numerose varianti. Immagine di un evento (supporto reale) da cui si diparte il tempo storico: morte e resurrezione di Cristo; origine dell'Universo materiale e delle leggi fisiche che lo governano (Big Bang); rivoluzione industriale e origine del modo di produzione capitalistico; grandi rivoluzioni borghesi e origine dello Stato moderno; rivoluzione socialista: qualsiasi sia il punto di vista - religioso, scientifico, politico - e/o l'evento «catastrofico» che viene assunto come riferimento, si tratta in ogni caso di fissare lo o gli spartiacque che separano la «preistoria» (confusa dimensione temporale che ancora risponde all'immaginario mitico) dalla Storia, di avviare un processo temporale direzionato, orientato da un fine immanente (salvezza, evoluzione, progresso). Ma la concezione moderna, «secolarizzata», del tempo non si limita a invertire la posizione dell'evento escatologico (dall'OA più voci Il sapere come mero riconoscimento del mondo, del darsi del mondo nella storia non ha nulla a che fare con questa verità anzi costituisce proprio il nascondimento. E al tempo stesso la verità è terapia dall'ottundimento che il sapere porta in sé. Questa verità è coniugazione dell'inquietudine e della serenità che rende possibile l'opera armonica - l'esistenza come armonia che si fa esempio. «Il bisogno della filosofia si determina quando lo spirito esperisce la sua laceraziorigine di un passato mitico all'Utopia di un futuro storico): la visione moderna si differenzia da quella antica e classica soprattutto perché, mentre attribuisce un carattere di realtà all'evento originario, lo «storicizza», riconosce al contrario la natura «immaginaria» dell'evento futuro: l'utopia non può mai essere veramente realizzata, il fine immanente al processo storico dev'essere continuamente procrastinato in modo che il presente possa essere esperito come uno stato di «rivoluzione permanente», salto e rottura ininterrottamente aperti sul nuovo. In altre parole: il pensiero moderno, contrariamente al pensiero tradizionale, non «crede» veramente all'evento guida, è un pensiero del «disincanto» che «sa» del carattere immaginario dei propri miti. Ma l'immagine che viene riconosciuto come tale, éome pura metafora o come principio regolativo, perde la sua potenza simbolica, diventa appunto un'immagine «povera». Qual è il ruolo che la mitologia del 68 assume in questa struttura dell'immaginario storico? L'universalità dello slogan «l'immaginazione al potere», la natura prevalentemente «giovanilistica» del movimento, la rivitalizzazione di credenze «forti» nei confronti degli eventi fondativi (la grande tradizione rivoluzionaria del movimento operaio) così come nei confronti dell'obiettivo escatologico (la rivoluzione socialista non è più un orizzonte vago e indeterminato ma il compito immediato dell'azione politica), tutti questi elementi sembrerebbero deporre nel senso di una «regressione» dell'immaginario collettivo ne assoluta» (Hegel). Bisogna riproporre il problema della verità su questo piano etico-terapeutico. Il pensiero strumentale opera una separazione della Gnosi dall'etica; in questa separazione sta certo la potenza strumentale del • conoscere, ma anche la sua destinazione nichilìsta, ed infine la sua malattia. Ma il pensiero deve allora riproporsi la questione della verità - ripartendo dalla premessa della fine della misura, della commensurabilità, in una nota dei Sentieri ... verso la struttura tradizionale del pensiero mitico. Da questo giudizio hanno effettivamente preso le mosse molti critici del 68 per denunciare !'«ambiguità» del movimento, la presenza di un'anima di destra dietro la sua facciata ultrasinistra. Secondo tale interpretazione, sono proprio le forti connotazioni mitico-escatologiche del movimento a rivelarne l'essenza «antimoderna». L'idea di un «tempo rinnovato», un tempo-ora in cui si incarnano i grandi miti del passato e nel quale diviene immediatamente realizzabile il sogno utopistico, trascinano migliaia di giovani a organizzarsi sul modello di forme politiche anacronistiche (partito leninista) e ad avviare l'avventura della lotta armata. Le interpretazioni apologetiche del 68, al contrario, si sforzano per lo più di condurre l'immaginario nel grande alveo della cultura secolarizzata, del mito moderno. Un esempio significativo di tale atteggiamento è offerto da molti inserti celebrativi dei media in occasione del ventennale del movimento. Le caratteristiche richiamate poco sopra non vengono negate, ma giudicate come elementi marginali di un ciclo di lotte che non si rivolge contro la cultura moderna bensì contro il «tradimento» che le classi dirigenti hanno consumato nei suoi confronti. È proprio perché il moderno è venuto meno alle sue promesse e promesse, perché non si è più dimostrato capace di aprirsi al nuovo in ogni campo (nella famiglia, nella scuola, nelle fabbriche, nei partiti politici, nelle istituzioni), perché il disincanto Eugenio Finardi in Diesel pagina 51 . interrotti Heidegger cita il «Protagora» di Platone: «Di tutte le cose l'uomo è misura, delle essenti-presenti in quanto sono presenti come tali e di quelle a cui è negato esser presenti in quanto non lo sono.» Verità è istituzione di una centralità; questa istituzione non è il riconoscimento di una centralità in sé sussistente, bensì una passione, una sofferenza, la coerenza di uno stile. Vera è soltanto la passione, la sofferenza, il desiderio. si è rovesciato in cinismo, in modo che i grandi ideali di progresso, democrazia, emancipazione non erano nemmeno più assunti come principi regolativi, che si è scatenata la reazione degli strati giovanili. Pur in mezzo a mille contraddizioni, errori, eccessi, il 68 ha riaperto la strada al movimento moderno; liquidati gli orpelli escatologici e le nostalgie per il passato e superato lo choc degli «anni di piombo», gli effetti di lungo periodo del 68 si sono rivelati positivi: la società terziarizzata, «post-industriale» degli anni '80 è di nuovo in corsa verso il nuovo, la prospettiva temporale torna ad essere quella di un «sano» disincanto (il quadro ottimistico è incrinato solo da qualche frecciata a un sistema politico che non si è ancora messo al passo delle nuove dinamiche sociali). Contro queste due letture - rispettivamente, «di destra» e «di sinistra» - propongo una terza interpretazione: 1) senza ombra di dubbio il 68 rappresenta un punto di crisi irreversibile della moderna cultura politica, una rivitalizzazione dell'immagine simbolica, un evento che non è in alcun modo riducibile a un episodio di pura «accelerazione» dei meccanismi di sviluppo della società moderna; 2) altrettanto certamente tuttavia, il 68 non è un movimento «antimoderno»; esso rappresenta, piuttosto, la prima riemergenza di un filone «sotterraneo» della tradizione moderna, che si è ulteriormente dispiegato nell'immaginario dei cosiddetti «nuovi movimenti» degli anni '70 e '80 (culture alternative, ecopacifismo). I nuovi movimenti rielaborano (in parte «secolarizzandoli», in parte accentuandone gli elementi mitici) alcuni nuclei tematici del 68: valorizzazione di saperi tradizionali (attenzione agli equilibri ambientali delle culture premoderne al posto della tradizione marxista), e concentrazione esclusiva sul presente (il tempo-ora dell'escatologia rivoluzionaria viene sostituito dal tempo-ora dell'impegno immediato per la salvaguardia degli equilibri ecologici, della pace e dei diritti fondamentali dell'uomo contro gli automatismi catastrofici del «progresso» capitalistico). La nuova visione del mondo pone l'accento sulla complessità delle interazioni fra differenti livelli di realtà (società-ambiente; natura-cultura; individuo-comunità) e
I pagina 6 fra differenti ambiti sistemici (economico, politico, sociale); è una visione essenzialmente «olistica» (e anche qui il rapporto di continuità con l'«organicismo» della cultura marxista non è irrilevante), che si rifiuta di riconoscere l'esistenza di gerarchie fra livelli. Da qui deriva il pessimismo critico nei confronti delle categorie moderne di progresso e di progetto di prevedere-misurare-calcolare gli effetti dell'agire umano, mentre l'ecologia insegna che l'intenzionalità cosciente opera su segmenti limitati di più vasti sistemi di interazione, e non è quindi mai in grado di prevedere eventuali conseguenze controfattuali (Bateson). Concentrazione sul presente: il miglioraA più voci mento della qualità della vita non si ottiene scommettendo sul futuro dell'utopia, ma operando sulle cause immediate di sofferenza e disagio, intervenendo sugli equilibri sistematici per correggere gli automatismi negativi e sfruttarne le tendenze positive. Infine (e qui è forse il fattore di maggiore distanziamento dal 68) la nuova cultura alternativa è radicalmente libertaria: attenta alle differenze e alle minoranze, antidecisionista, impegnata nella conservazione del più elevato livello possibile di contingenza sociale, di possibilità di scelta fra opzioni alternative. Questo atteggiamento di considerazione (oserei dire di sacro terrore) per i rischi dell'irreversibilità, e m qualche modo la traduzione sul piano etico-politico della concezione epistemologica elaborata dalle cosiddette «scienze della complessità» (cibernetica, teoria dei sistemi, teoria dell'informazione, nuove teorie evoluzioniste in biologia e cosmologia), di un complesso di discipline scientifiche che hanno radicalmente trasformato la concezione tardomoderna del tempo. Da un lato, esse hanno introdotto l'idea di storia, di un processo temporale irreversibile, anche al livello delle teorie fondamentali della fisica (Prigogine ), dall'altro, hanno tolto alla storia ogni aura finalistica: l'irreversibilità non è direzionata, è il prodotto di eventi di natuTemi. Tradizione del nuovo Alfabeta 114 I ra casuale, probabilistica, vincolati esclusivamente da strutture generate da eventi precedenti dello stesso tipo: Non ho qui lo spazio per riassumere nemmeno le linee generali di questa tesi. Concludo ribadendo la mia convinzione: l'immaginario del 68 e la sua rielaborazione da parte dei nuovi movimenti non è anti- •moderno (regressione alla mitologia tradizionale), né moderno nel senso di un'àdesione al mito del progresso; è piuttosto lo sviluppo di una indagine del tempo e della storia che ridisegna la nozione stessa di moderno. Simulazionee arte Proponiamo quest'altro argomento, sviluppando o continuando la «Tradizione del nuovo» da cui partivamo nel n. 101 di «'Alfabeta» (leggendo Menna, Vergine, Argan, Colonetti, Grazio/i, Pignotti). È infatti giusto rilanciare dopo Venezia (e dopo una certa caduta del «post-moderno» a New York ne~'architettura stessa che è la disciplina da cui proviene) il dibattito essenziale del Novencento. Che non è questo recente e triste sulla fine della modernità o sulla sua ripresapur fluida e repressa - con formulazioni di crisi o di vecchia speranza - ma è fin da Benjamin e ancor prima relativo al rapporto fra l'arte contemporanea (con «divorzio», come disse Dorfles, dal pubblico) e la comunicazione di massa (in tempi, oggi, dove il primato è della «ricezione» secondo Jauss, o del pubblico). Sia coloro che commentiamo, sia chi voleva intervenire sul nuovo o nuovo-vecchio (con scritti pronti: Meneguzzo, Vescovo, Vincenzo, Patella) ci potrebbe aiutare con interventi molto sobri a dar seguito a questo discorso svolto dalle cose di oggi in seno ali'arte_.Deve emergere poi con simili divergenze interne la questione letteraria. I Occorre anzitutto una battuta teorica fortissima, per contraddire • Baudrillard. Io sostengo che Warhol ha giustamente fatto un bel quadro col manifesto del pomodoro Campbell: questo pomodoro è buono, con la sua materialità intrisa di ricordi d'odore, e chi si aggira solingo in un supermarket compra bene, sopravvivendo, questo e altri prodotti Campbell: io raccomando la minestra di porri e patate, c'è qui un'aura di patata e di Warhol. È vero nello stesso tempo che a sentire certi curatori dell'équipe del Moma, preparanti una gran mostra di Warhol per poi, l'effimero di Warhol, il suo fenomeno di gusto (che investe più campi e ha il capodopera nel pastello e nell'impaginato di «Interview») non tocca tanto lo «statuto» dell'arte, quanto, piuttosto, la sua propria critica e crescita - a dirne con gli epistemologi della non certezza - nei modi onnivori dell'ironia. A me pare così: in Warhol l'ironia mangia il mercato per un attimo. Ma, insieme al nostro aforisma, sentiamo direttamente il provocatore, che ha ragione anche lui con le sue tesi di «transeste-. tica» (nell'ed. Politi in apertura di collana di teoria dell'arte). «Si è convenuto di dire che non esiste più avanguardia né sessuale né politica né artistica, che questo movimento che corrispondeva all'accelerazione lineare di una storia, a una capacità dianticipazione e dunque a una possibilità di critica radicale nel nome del desidério, della rivoluzione, della liberazione delle forme, che questo movimento rivoluzionario è compiuto». In quanto, precisamente, «l'iperrealismo del nostro mondo [è) quello in cui l'evento 'reale', l'incontro reale, ha luoFrancesc Leonetti go sotto vuoto, spurgato dal suo contesto umano e visibile solb da lontano, televisivamente». Oggi secondo Baudrillard «dietro tutto il movimento convulsivo dell'arte contemporanea c'è una specie di inerzia, qualcosa che non riesce a superare se stessa e che gira su di sé in una ricorrenza sempre più rapida di tutte le forme». E addirittura: «è come per il cancro»; «si potrebbe leggere come una rottura del codice genetico, una rottura del codice segreto dell'estetico»; ed è appunto «con l'Iperrealismo e la Pop Art che tutto questo è cominciato, con l'elevazione alla potenza ironica della realtà fotografica della vita quotidiana. Oggi questa scelta comprende tutte le forme e tutti gli stili, senza distinzioni, che entrano nel campo transestetico della simulazione». Baudrillard giunge a parlare di uno «stadio frattale, o ancora stadio virale, o stadio irradiato del valore». E conclude con un ritocco della sua valutazione delle opere d'arte di oggi come feticci dicendo: «l'arte è travestita dall'idea, [... ] tutta l'arte moderna è astratta in questo senso, che è attraversata dall'idea molto più che da un'ispirazione delle forme e delle sostanze; tutta l'arte moderna è concettuale in questo senso». Ma qui la terminologia è dubbia, non di astrazione si parla né tanto meno di concettuale nel suo senso proprio o tecnico dell'arte; c'è solo ~n rilievo sfumato, non pertinente, e in ciò rivelativo. · «Che fare dopo l'orgia» si è chiesto Baudrillard, partendo da Baudelaire-Benjamin a modo suo: «non già una difesa dello statuto tradizionale dell'opera d'arte»; e bisogna invece «seguire le vie inesorabili dell'indifferenza e dell'equivalenza mercantile e fare dell'opera d'arte una merce assoluta». Ma se di certo ci interessa l'immersione di Baudelaire nel mercato, per batterlo, non di orgia si tratta, a fissare con cura il panorama, pur avendo perduto via via ogni criterio intervallare. Siamo arrivati alla conclusione, o meglio all'omologazione che è utile ad ogni atteggiamento neoconservatore, cinico o narcisista; ma c'è una stratificazione di ricerche, di cui distinguere alcuni fili con accuratezza strettissima. I I I fili sono_~istinti e ti~ati, c?n una capacita necessana e v10- • lenta di burattinaio, da Menna in un suo scritto lungo e formibabile (nella collezione Politi, piccola, graziosa e prepotente). Col titolo complessivo: «Il progetto moderno dell'arte». Partiamo dal finale: «occorre tentare altri varchi e altri sentieri, sapendo che essi non sono garantiti da una razionalità sicura di attraversare con la propria onnipotenza gli spessori e le oscurità del reale» (e il termine primo «varchi» contiene la precedente idea di un superamento, il termine «sentieri» trasporta qui - e pur laicizza - la metafora boscosa e miracolosa di Heidegger). Nella nota conclusiva Menna, riferendo la propria nozione di «costruttività» all'84, dà richiami ad altri teorici: Cacciari («la successione delle nostre operazioni costruttive permane così sempre in statu nascendi, intrecciando in sé, secondo modalità mai predeterminabili, arbitrarietà e contestualità»); e Tafuri («un intricarsi di prospettivismo e di disseminazioni»); e anche il «progetto dolce» di Bonito Oliva; e ancora Gregotti col suo concetto di «modificazione» per definire una pratica dell'architettura che non rinuncia al nuovo ma lo intende come «un costruire nel costruito». Un luogo importante della riflessione più matura di Menna si può rapportare all'analisi di Baudrillard, condividendone certi aspetti ma criticando, implicitamente, tutta la valutazione. Perché Menna approfondisce il limite storico dell'avanguardia e della sua propria «ideologia estetica» con crisi all'incontro con la società di massa: «l'arte pensava di avere come termine di riferimento una comunità di individui, di soggetti, cioè, non ancora espropriati della loro capacità di autodirezione, e invece si trovava di fronte alla moderna società di massa e alla enorme dilatazione quantitativa che la caratterizza», mentre l'arte svolge procedimenti qualificanti. La collettività di grande numero differisce non solo di grado ma di natura: e riferendosi ben giustamente alla sociologia sensibilissima di David Riesman, se ne ricorda la scoperta di un «trayasso da una struttura sociale composta da ,i1individui a 'direzione interiorizzata' o 'au- -toJ:liretti' [... ] alla 'eterodirezione' la quale :presuppone la presenza massiccia e deter-, minante dei mezzi di comunicazione di massa, i soli in grado di incanalare i gusti fluttuanti e il 'desiderio senza oggetto' del nuovo tipo di consumatore». Questa analisi tipologica è più penetrante, mi pare, della nuova nozione pura di «pubblico» che l'Autore e il testo «pigro» avrebbero ignorato... A questo punto si possono raccogliere bene le osservazioni acute di Vattimo su una «generalizzazione dell'esteticità» e sulle pratiche sociali non necessariamente artistiche (e non previste da Adorno) come il femminismo, la gay liberation, la lotta degli emarginati, che vengono a farsi «esponente della rivolta contro l'organizzazione». Menna osserva che proprio questa miscela esplosiva «formatasi nel '68 con l'apporto dei modelli alternativi dell'arte e con l'esigenza sempre più diffusa di una pratica politica che facesse perno intorno al nuovo bisogno di soggettività» ha indotto una realizzazione degli ideali caratteristici delle Avanguardie per una rivoluzione particolarmente estetica e percettiva degli individui: producendo però una esteticità diffusa, sino al «Beaubourg supermarket dell'avanguardia». E certo questo moderno è finito (e magari arriva oggi ai «feticci»). Ma nel lavoro artistico e in quello intellettuale c'è - come diceva Benjamin - «la via più lunga». E Menna contrappone nettamente «l'attraversamento analitico». Esso, presente variamente dopo il 60, «ha trovato nell'Arte Concettuale la sua definizione più coerente ed estrema, e risponde appunto a un'esigenza di autoriflessione e di verifica, prima di continuare a ritenere possibile una transitività immediata dell'artistico nell'estetico, e, quindi, nella vita quotidiana». L'Arte Concettuale si colloca dunque sul versante opposto della ideologia estetica delle avanguardie, pur ritrovando gli stessi motivi per restituire interezza al soggetto diviso di oggi. Così l'asse si sposta sul polo dell'artistico e del politico, abbandonando per il momento il polo dell'estetico e del sociale, con una forte divaricazione. E con quell'atteggiamento, già proprio dei maggiori artisti dell'avanguardia e ora ritornante in alcuni giovani artisti, di parzialità e separatezza inevitabile dell'arte verso la dimensione globale del vivente. Solo così riparte la via lunga della ricerca. Certo in tutto l'altro di oggi, e nel pubblico, permane l'ostilità agli specialismi e vagheggiamento di una cultura «auratica» che ci sta alle spalle: ma ha il carattere puramente fantasmatico di un esteticità destrutturata, ingenuamente spontaneistica. Dunque il progetto che è oggi per definizione «critico» vuol mettere in atto «una sorte di decelerazione e di scarti alla transitività veloce e unidirezionale del messaggio puramente spettacolare» (dove ha finito a inserirsi quel post-moderno che nell'analisi precedente di Menna è stato da lui riesaminato nel testo primo di Hithcock e di Johnson col loro «eclettismo» nel '32). E gli artisti nuovi oggi.e i giovani scrittori autentici «sanno di operare in un ambito settoriale, a volte marginale addirittura rispetto alle grandi correnti dell'informazione di massa, ma in questo ambito non rinunciano a pensare e a realizzare una forma che abbia anzitutto un valore per sé, non commisurata cioè alle aspettative del consumatore o pronta per la messa in scena». III Tocchiamo, per merito di Menna che ha un suo filo • (lui solo) diretto e conseguente nei cataloghi di mostre nel quinquennio, un terreno di discussione con accordi e disaccordi possibili limpidamente. Ci serve allora di sentire subito coloro che, nel versante di pratica critica del decennio scorso, si sono valsi delle nuove nozioni con un esercizio non facile. Per esempio, Grazioli e Parmesani, attivi in «Flashart» che è la rivista italiana decidente nella circolazione del gusto fra '78 e oggi; e che ora nella stessa collana Politi si raccolgono. A me pare ~he in essi sia prevalente l'uso di figure critiche o filosofiche di altre discipline, o già proprie della Retorica: e dunque essi si spostano sostanzialmente, mi pare, sia dal post-moderno in senso stretto e dall'anacronismo (eclettica assunzione di rife-
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