Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

Alf abeta 113 Art. 7: «[... ] È in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche [... ]». Art. 8: «[... ] Negli attuali ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano· richiesta, esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera [... ]». La legge, oltre a sanzionare la fine della specifica istituzione, si preoccupa di due prevalenti questioni: l. ridurre materialmente la permanenza del malato nelle divisioni ospedaliere specifiche - le diagnosi e cura - sia limitando il numero di posti-letto, sia riducendo al minimo necessario il tempo di permanenza; 2. avviare il malato quanto prima possibile ai presidi territoriali - quando non direttamente a casa, in famiglia - dove rimettere in moto sia lo scambio con la medicina di base per la complessità e contro la semplificazione della individuale sofferenza, sia lo scambio sociale e affettivo tramite la riconnessione territoriale, sociale e familiare; nonché ogni tipo di «commercio»: economico, giuridico, culturale e così via. La legge dunque è consapevole che la totalità dei «casi» può e deve essere presa in cura dai centri di salute mentale o presidi territoriali, lì dovendosi riferire da allora in poi malato, familiari, istituzioni. Il ricorso alla diagnosi e cura, alla guardia psichiatrica, è ricorso - appunto - a «pronto soccorso specifico», da cui l'immediato dirottamento. A Trieste, città dove i servizi funzionano e la legge - se questo è il punto - viene applicata, i medici del diagnosi e cura sono psichiatri dei Centri di Salute Mentale. Questi medici affermano che la permanenza nel diagnosi e cura del malato è questione di poche o molte ore e che i posti letto non superano il numero di otto. Lo scontro con i «posti-letto» sta in evidenza; la riduzione del malato al letto, il calo complessivo delle sue facoltà prodotto da quale che sia costrizione e azzeramento - anche farmacologico - devono essere ridotti al minimo. Ne va del rispetto dell'individuo e della verità della diagnosi. L'«allettazione» riconduce alla separazione totale che il manicomio operava, alla riduzione a nulla di soggetto vivente complesso. Portare questa «necessità» di riduzione vicino allo zero, è il punto della legge, della sua conseguente applicazione e delle pratiche conseguenti e precedenti migliori. La legge 180 è una buona legge e dà gli effetti voluti nella realtà e assunti dal legislatore nel 1978, dove si applica. Poche cifre in una città ove i servizi di salute mentale sono «forti». Abbiamo detto della «filosofia» che regola la «guardia psichiatrica», diciamo della complessità dei servizi triestini: 7 Centri di Salute Mentale con un riferimento medio di popolazione di 40.000 abitanti; 4 psichiatri in media per Centro; 2 assistenti sociali; 30 infermieri; 1 psicologo; 1 sociologo. Ai CSM si collegano appartamenti e i gruppi-appartamento di più utenti del servizio. Il CSM ha 7-8 posti letto, funziona prevalentemente da day hospital, ha mensa a mezzodì e alla sera, sale di intrattenimento e attività collettive ecc. Un CSM viene frequentato - una o più volte - da 500 cittadini in un anno, e soprattutto i Centri di Salute Mentale (CSM) a Trieste sono aperti 24 ore su 24, tutti i giorni. Volendo comparare ai dati Censis (fine 1985) già citati, leggiamo che: soltanto 1/7 dei presidi territoriali (che sono in tutto 675) vanta una presenza di personale di q'ualche completezza (psichiatra, infermiere, assistente sociale ecc.); che soltanto il 5% dei presidi territoriali è aperto tutta la settimana e che i Centri di Salute Mentale aperti 24 ore su 24 sono del tutto assenti, fatto salvo il caso-Trieste e pochi altri (Perugia, Arezzo, qualcosa in Friuli e Piemonte, il quartiere S. Basilio a Roma), qualcosa che sta nelle dita di due mani. È questa struttura del CSM radicata e diramata negli interventi nel quartiere, A più voci nonché le strutture mimetizzate nella complessità sociale e ad alto grado di autonomia - appartamenti e gruppi-appartamento - a far sì che a Trieste il lavoro venga svolto prevalentemente nei luoghi e nei teatri più naturali, a «domicilio» si direbbe. Questo comporta dinamicità, immaginazione sociale, messa in discussione sul campo, nonché strumenti adeguati, quali sono, per esempio le automobili di cui dispongono i CSM: 3 unità mobili per Centro. Tutto questo sforzo e questa strumentazione sarebbero tuttavia mutili se non completati da altre diverse strutture pratiche e concettuali assieme: i laboratori, le cooperative. Più avanti meglio di questo, proseguendo ora con i dati Censis e l'iter giuridico. La presentazione recente del disegno di legge di cui la prima firmataria è la senatrice Ongaro-Basaglia «[... ] provvedimento per la programmazione, l'attuazione e il finanziamento dei servizi di salute mentale, ad integrazione ed attuazione [... ]» (di una serie di articoli disposti dalla precedente legge 180), ha una premessa narrativa fitta di dati allarmanti e desolanti sulla situazione. Nella succinta premessa si afferma che: il 14,8% della popolazione italiana risiede in località prive di qualsiasi tipo di presidio psichiatrico; il 36,6% dei presidi psichiatrici esistenti risale agli anni precedenti l'entrata in vigore della legge, la loro creazione è andata vistosamente scemando dal 1981 in poi; risultano ancora ricoverati nelle vecchie strutture manicomiali - in stato di totale degrado e abbandono - circa 30.000 pazienti (nel 1968- anni ben lontani - erano 90.000); la spesa per queste vecchie strutture fatiscenti, assorbe 1'80% della spesa totale psichiatrica; 10.000 pazienti risultano ricoverati in istituti privati convenzionali; il 52% dei presidi psichiatrici è dislocato nelle 6 regioni del Nord; soltanto il 13,9% dei servizi istituiti dispone di un sistema organizzativo capace di soddisfare la complessità delle esigenze del malato; non è seguito alla legge del 1978, un Piano nazionale sanitario, né atti di indirizzo e coordinamento da parte del Ministero della Sanità. Il vuoto operativo è stato totale. Il peso della malattia mentale è sopportato dalle famiglie e, in queste, soprattutto dalle donne. M a perché questo abbandono dei servizi? Perché l'inadempienza di una legge così univocamente sentita e voluta? Vi è stata e vi è opposizione alla legge di quanti interessi la legge nega: la configurazione ottocentesca e neopositivista della professione psichiatrica, l'economia determinatasi attorno alla specificità manicomiale, la cultura custodialista, i prevalenti interessi «privati» delle cliniche e del mestiere. Ma tutto ciò non è sufficiente a spiegare. Certo si è che il «disagio» mentale non è improvvisamente scomparso, anzi, è in aumento nel mondo. La fatica improba e disumana delle famiglie, l'abbandono dei malati, il fiorire delle cliniche private, i supporti psicanalitici, le piccole ingegnerie delle varie tecniche psicoterapeutiche in voga, tutto lo evidenzia. L'opposizione alla legge della corporazione, gli interessi privati, hanno contato e contano. Ma è soprattutto lo scambio sociale bloccato della prima metà degli anni Ottanta - ·gli anni della «emergenza» in Italia- che ha decretato lo stop alla legge e alla accettazione e promozione sociale delle diversità, dunque della malattia, dunque insieme della malattia mentale. Uno degli effetti della «emergenza» è lo scambio sociale bloccato e il riconoscimento - in clima e prassi di rigore, chiusure e sospetto - dei gruppi sociali in se stessi e nei propri tradizionali codici. La legge 180 si basa sul progredire dello scambio delle identità e identificazioni, sullo smottamento delle codificazioni precedenti, sulla assunzione della ricerca del diverso, del complesso e del nuovo, in chiave prevalente di ricchezze prima negate e ignorate, oggi da acquisire. Tutti affermano che l'ambizione sfrenata e per tanti versi positiva della clinica, quale luogo specifico contro l'abbandono e il generico, ha fatto il suo tempo. Questa parte. di secolo è sotto il segno del rimesco_lamento delle specificità e del grande scambio planetario, ormai riconoscendo tutti - di fatto - il danno prodotto dalla separazione e dalla classificazione neopositivista. Tali affermazioni stanno alla base della scomparsa dei manicomi in Italia. Ecco, allora, che il trauma del malato uscito dal manicomio ora aperto è complesso: riguarda la sfera àffettiva, giuridica, la struttura sociale stessa, le idee culturali radicate, ivi comprese quelle storiche riguardanti il «lavoro» e la «produttività». Della ~era giuridica si sono occupati di recente (Trieste 1986, giugno: Quale diritto per il malato di mente; convegno alla stazione marittima) giuristi di tutte le università italiane, sotto la guida della facoltà di giurisprudenza dell'università triestina e in particolare del prof. Paolo Cendon. «Nuovo diritto» significa la fine totale della interdizione - sia pure parziale - del cittadino, la ridiscussione di tutta la materia giuridica penale (quando a commettere reato è il malato di mente). Qui ricordiamo la permanente infanzia dei «manicomi giudiziari», la giurisprudenza riguardante il «malato di mente» (il giudizio-perizia) che - nel bene e nel male - risalgono al codice Rocco, fondante l'epoca fascista. «Nuovo diritto» significa - per es. - la cancellazione di tutte le interdizioni precedenti per chi abbia avuto la ventura di ammalarsi e toccare - sia pure temp_oraneamente - il manicomio: il far commercio, adottare figli,' emettere assegni e via dicendo. Non si può dimenticare che, aprendosi i manicomi, sono tornati cittadini «fratelli separati» dalla collettività. Anche qui il ritardo è gravissimo; sovente motivato con linguaggio e culture emergenzia_li.L'inserimento - riguardo la famiglia, il quartiere, la città - propone scambio, trasparenza, disposizione allo scambio. Le culture degli anni Ottanta, sino alla metà di questo decennio, si sono basate sulla chiusura del «privato», sul disinteresse crescente verso il pubblico, sulla crisi dello «Stato _sociale», sulla carenza e decrescita del servizio pubblico e sull'etica del «contro-pubblico», del fai-da-te. Lo scambio affettivo stesso ha subito fieri colpi. Né appare luogo comune accennare alle questioni legate ali' Aids. La confusione rispetto a questa malattia che si trasmette - pare - per scambio, nonché lariduzione a margine delle grandi questioni giovanili e nuove - quali la tossicodipendenza, convergente vieppiù con il disagio mentale - hanno determinato le culture del «ghetto» e della ghettizzazione, la convinzione sociale che occorra ordine, distinzione e recinzione. Bisogna distinguersi da loro, bisogna distinguerli da noi .. L'eguaglianza sociale e l' «anonimato» terapeutico fondato sulla medicina di base su cui si sono fondate le tante speranze degli anni Settanta, sembrano colate a picco. Da ultimo - ma non certo per ordine di importanza - le problematiche del lavoro e della produzione/produttività hanno tutt'ora il gravame di una cultura di sinistra (etica di Stato e della produzione) che si è sempre ben sposata con l'ovvietà padronale, insieme affermando il valore superiore del «lavoro» (non della attività) quale dato nelle condizioni di produzione storiche e il valore massimo della efficienza e della produttività. Dall'epoca della «meccanica» a quella odierna della elettronica e della robotizzazione nei settori avanzati•sono-volta a volta - «professionalità» e «neoprofessionalità», «efficienza» e «neoefficienza» a dominare il dibattito. Chissà perché cresce verticalmente la disoccupazione giovanile? La prima risposta - e pronta - è quella della inettitudine (astrologica si direbbe) e della non-volontà produttiva delle nuove generazioni (così da padri in figli). Con tali culture, che poi reggono benissimo i disastri umani e territoriali della deregulation produttiva e della de-industrializzazione, non si fa un passo avanti verso la comprensione delle vere esigenze dei soggetti umani che entrano nel teatro e nell'arena della vita. Non volendo comprendere, e anzi pagina 91 volendo costringere, non si fa che produrre disagio mentale, psichico, nei giovani; dunque il loro tragico e suicida allontanamento dalle sfere di attività, dalle azioni di autovalorizzazione. A Trieste il grande sforzo nuovo va a scontrarsi con queste condizioni soprattutto delle fasce giovanili. Da qui la fondazione dei «laboratori» (di pittura, scrittura, teatro, musica, video ecc.) quali luoghi di possibili attività gratificanti i soggetti. Da qui la fondazione delle «cooperative» ove il progetto per singoli media con esigenze della generale produzione (dall'albergo al negozio, dalla produzione biodinamica ai computer), la protezione dell'impresa cooperante forza e ragiona sulle obiettività storiche del concetto e della pratica di impresa. È su queste avanzate frontiere che si gioca - in realtà - il nuovo, la condizione raggiunta della fine dei manicomi e l'insorgere dei nuovi rifiuti e delle nuove alienità giovanili. Questo è il capitolo inedito, qui va aperta la discussione; è qualcosa che ormai si è lasciata alle spalle ogni querelles sulla legge 180, che vive naturalmente la applicazione piena della legge e lavora sulle condizioni nuove che l'applicazione della legge determina, nonché su ciò che di veramente innovato e misterioso caratterizza i nostri anni e le ultime generazioni protagoniste. Poche righe ancora. L'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) agenzia sanitaria dell'ONU ha fatto proprio lo spirito della legge 180 e lo promuove dove può. Il Ministero degli Esteri italiano, negli aiuti sanitari e interventi nei Paesi Esteri (soprattutto i cosiddetti Paesi Terzi, in particolare nel Sahel e America Latina), afferma la decostruzione dei manicomi e la fine dell'impronta sanitaria coloniale. In Europa la CEE finanzia soltanto progetti sociali che _sirifanno allo spirito della legge e alle contemporanee pratiche e teorie europee al riguardo. In Unione Sovietica è davvero in atto un grande dibattito di trasformazione nel campo e di riforma. Noto è il taglio generale per dirne di più. Primavera Estate 1984

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