Alfabeta 113 A più voci pagina 7 Tillich, per chi, conforme a realtà, non può più neppure pensare a se stesso se non come «evento mondiale», individuazione della comune cosmo-politica che ha sorpassato le frontiere delle economie, degli stati e delle culture, e ha preso possesso di lui. Ratificare ciò che è avvenuto come possesso collettivo e farne la base per l'appropriazione - espressione individuale - e sto citando, reinterpretandola, la formula conclusiva del Capitale per il superamento del capitalismo- è l'unico compito per il quale, e insieme al quale, vivere l'oggi può prendere un senso adeguato. Per l'usura, e lo scarto, delle parole, ribattezzo nel mio lessico dell'avvenire il comunismo col nome di mondo dell'autorealizzazione, ma così facendo mi sento e mi comprendo anche nel solco dell'ispirazione originaria. Certo, questa è una ripresa di una grande narrazione. Appunto, il 68 è stata l'ultima narrazione, ma solo nell'ordine del tempo, che ha avuto il coraggio, e ha la tragicità, della grandezza. Chi non può più narrare «in grande» non può più narrare, semplicemente perché ogni minuscolo evento è stato tolto dai fatti alla sua vita idiotesca e lanciato nell'orbita planetaria della vita individuale d'importanza cosmico-storica. Naturale che se questa citazione contaminata e rovesciata di Hegel è seguita con fermezza, Napoleone diventa l'eroe di ognuno e ognuno si porta il fardello greve delle domande di Raskolnikov. N iente di tutto questo è in vista nelle celebrazioni del 68. La mia tesi, qui solo sfiorata come continuitàinnovazione del 68 rispetto alla tradizione comunista e marxista, è che il 68 rappresenta il capovolgimento dell'etica del lavoro e la protesta, diventata sociale e non più solo dei grandi intellettuali in rivolta, contro la cultura del disincantamento nella sua versione di accettazione .passiva del nonsenso del mondo. Se il disincanto del mondo infatti procede dalla lotta all'idolatria (il dio, il senso, l'interesse ultimo come realtà del mondo), conclusa nel protestantesimo per la ricostruzione weberiana, e conduce alla resa di fronte al meccanismo razionalizzato e insensato del capitalismo moderno, esso tuttavia impone la sfida del senso all'individualità capace di inventarlo, di crearlo, di immetterlo nelle «cose». Il mercato mondiale dal dopoguerra a oggi ha fatto circolare, sempre più liberamente, idee insieme a merci e forza-lavoro e capitali. Che la forza produttiva fondamentale stia diventando il generai intellect lo mostra la necessaria produzione, e sovraproduzione, tanto nei paesi del centro quanto in quelli della periferia, di masse intellettualizzate. La vuotezza atomizzata e privata della vita quotidiana reale ha trovato il detonatore della ribellione nella comunità ideale dei sogni critici e disperati dei grandi spiriti degli ultimi 150 anni. I libri in dissidio con la vita hanno fatto credere a una nuova possibilità di scalare il cielo di una esistenza animata da un senso interno e non separato, complici le aspettative accumulate dalla grande e lunga crescita economica del dopoguerra in generazioni di protratta adolescenza e lunga scolarizzazione. Al di là della consapevolezza il 68 è stato la rivoluzione culturale contro i capisaldi della cultura del disincantamento passivo ereditata nel capitalismo moderno dal mondo cristiano-borghese: l'oggettivismo della calcolabilità, il significato escluso dal mondo, l'odio dei sensi, l'impersonalità dell'agire. Ogni ribellione evoca e mette in scena i mostri tenuti al guinzaglio nelle segrete della polizia morale della forma culturale dominante. Così la rivolta ha recitato, nei suoi estremi, il rovescio esatto della cultura disincantata in tutti e quattro i suoi punti cardinali: l'anarchismo dei desideri soggettivi, l'elogio della follia, il piacere della perversione, il culto della personalità (comprese le personalità autoritarie adorate dagli antiautoritari: ma non aveva visto bene Weber quando segnalava il disprezzo protestante per il cesarismo? Il cesarismo del 68 è, oltre l'immediata sorpresa, culto della persona, forma mitologica e ambigua dell'insorgente e decisivo tema dell'individualità). Già, il pericolo dei pericoli, l'individuo: Nietzsche l'aveva indovinato all'opera, pronto al ruolo principale negli assalti del futuro. Il sogno comunista - e il più forsennato egualitarismo come stazione di lotta - nascono direttamente dal riconoscimento di un'eguale aspirazione e diritto all'individualità, all'autoaffermazione. Il momento collettivo e il suo progetto, il possesso collettivo, non sono qui affatto eredità che esprimono il vincolo sociale di partenza, anzi esso viene volutamente attaccato da subito e dall'esterno nella sua configurazione storieo-politica (i partiti e i sindacati della sinistra): dunque il collettivo è pensato come passaggio della realizzazione dell'individualità - la proprietà individuale del vecchio Marx, il saper fare e poter usare, secondo il proprio talento e le proprie capacità, il portato dello sviluppo storico precedente. E il poter riconoscere come propria ricchezza l'espressione dell'altro! Nella forma mitologica del cesarismo il culto dei nuovi eroi - persino nella forma della trinità giornalistica di Marx, Marcuse e Mao - diceva questo: l'obiettivo era l'attacco alla divisione del lavoro per l'uomo onnilaterale, il nuovo individuo capace di usare, domare e dare nuova funzione alle potenze collettive socializzate. Sono queste generalissime valutazioni, peraltro assai distanti per stile e contenuto, che mi portano a considerare il libro di Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo (edito" re Giunti), come la soluzione più adeguata e riuscita di memoria del 68 e, insieme, come una sorta di speculare conferma di quanto sia il bisogno di autorealizzazione la nascosta sorgiva della protesta nel nostro tempo. Da un lavoro collettivo di ricerca sulle storie di vita di partecipanti al movimento in nazioni diverse è venuto il primo impulso: come rendere giustizia al «materiale», e quindi, al racconto dell'altro? La forma del saggio storico, pur se spinto ai suoi estremi metodologici nell'uso delle fonti orali, non reggeva la richiesta implicita, l'interlocuzione di un desiderio di dirsi che per via di riconoscimento nell'altro urgeva sull'autrice. L'oggetto parlante esigeva un nuovo porsi e discutersi dell'io narrante. La resistenza a consegnarsi a un modulo collettivo della memoria - pur essendone ovviamente tutto intessuto - sporge dalle interviste senza pote{ compiersi. È qui, credo, il coraggio estremista, lo spirito del 68 che ritrova voce - che trova finalmente una voce! - di chi per parlare di un sommovimento di cultura deve inventarsi un nuovo genere, insieme scientifico-storiografico e letterario. Il pulsare contusivo nell'oggetto degli strati nascosti dell'anima insieme con gli avvenimenti del grande mondo, filtrati dai moduli narrativi che il linguaggio ereditato ha a disposizione - e questo in una tensione a voler essere sé, a darsi e a rappresentarsi in una biografia, o, che è lo stesso, in una storia che emerga dalla vita, formata sul calco della vita ... L'impresa lotta contro le divisioni di comodo in generi, sfida il pezzo storiografico producendolo, ma insieme disponendolo accanto alla voce narrante che si fa problema di sé, interrogandosi nel rigore analitico, e subito si distende nella memoria del racconto. Ad ogni genere il suo stile. Eppure niente tono gridato di chi spezza e giustappone: signora della scrittura e della riflessione che trasgredisce modulando, sommessamente, la nota tenuta di una quieta eleganza, di una lieve, e sovrana, malinconica ironia. Autoritratto di gruppo rende giustizia al 68 rinnovando il miracolo della invenzione - questa sì è una scrittura «nuova»! - nel gesto, sempre salvifico, di chi è capace di memoria di sé dentro la memoria di una storia collettiva. Senza volerlo questo libro - come succede all'autenticità di chi si mette in gioco nel ricordo - suggerisce un progetto che, dissimulato, ricuce ùna continuità tra l'allora e la rivisitazione di oggi: il diritto e la pratica della biografia. A ciascuno la sua biografia e un mondo che la renda possibile: sì, noi non rinunciamo alle parole d'ordine di un nuovo e grande disordine che si annunci sotto il cielo! L'ultima tentazione di Cristo e P ossiamo considerare le polemiche contro il film di Scorsese come un capitolo della bimillenaria storia dell'iconoclastia? Questa, come si sa, è la massima espressione del rifiuto eretico del «simbolo» tra natura umana e divina in Cristo. Al sinodo iconoclasta di Hieria del 753 viene anatemizzato chiunque si azzardi a rappresentare il Cristo con «colori materiali», a «circoiscrivere in effige umane l'incircoscritta essenza e sussistenza del Verbo di Dio». La carne di Cristo, viene ribadito, non è «consustanziale» alla nostra, poiché è stata assunta e deificata da Dio, e non può essere perciò concepita come un «nudo elemento» da raffigurare (Bisanzio nella sua 'letteratura, a cura di U. Albini e V. Maltese, Garzanti, Milano, 1984, pp. 272274). Di fronte a ciò la teologia ortodossa ha cercato soprattutto di tenersi ben salda sul paradosso dell'incarnazione. Paradosso che rende necessario il «tradimento» della rappresentazione: «L'invisibile - scrive Teodoro lo Studita nel suo libro Contro gli eretici (pp. 99, 332, 420) - si è reso visibile [... ] come si potrebbe dipingere l'immagine di una natura che non fosse vista in un'ipostasi? Pietro, per esempio, non è rappresentato in quanto essere ragionevole, mortale, dotato di intelligenza di comprensione, poiché ciò definisce non solo Pietro, ma anche Paolo, Giovanni e tutti coloro che appartengono alla stessa specie. Dipingiamo invece Pietro in guarito possiede, oltre la definizione comune, certe proprietà [... ] che lo distinguono da altri individui della stessa specie». Così Dio si fa uomo, ed è «quell'uomo», il Cristo, e non un essere umano in generale. Rappresentare Cristo significa rappresentare la specifica umanità di Dio, affermare, cioè, la eccezionalità e la paradossalità dell'Evento. «L'ipostasi di Cristo - cioè - è circoscritta non secondo la divinità, che nessuno ha mai vista, ma secondo l'umanità che è contemplata in essa [ipostasi] come un individuo». Il problema della chiesa è sempre stato quello di contrapporre lo «scandalo» della croce ad ogni forma di religiosità miracolistica o di pietas puramente sapienziale (/ Cor. 1-2). Un Dio che si fa simile a noi, che diventa nostro «amico», ma che cionondimeno, proprio per questa e in questa sua umanità, chiede di essere adorato: tutto • iconoclasti questo è davvero «troppo» per il comune buonsenso dei religiosi come dei sapienti, dei «giudei» come dei «greci». Cosa c'è, infatti, di più ragionevole che lo «scegliere» tra divinità o umanità di Cristo? Cosa c'è di più sensato che il sostenere che il corpo di Gesù è solo il «tempio» della sua divinità (eresia nestoriana), o che Gesù è solo un uomo che Dio ha scelto per rivolgersi all'uomo (eresia ariana)? L'iconoclasta simpatizza con l'uomo attonito di fronte al paradosso dell'incarnazione; ne avverte il bisogno di sicurezza, di netta demarcazione tra divino e umano, di «scelta» per un ambito determinato: ne condivide la ricerca di una guida sicura, di una risposta definitiva, di una perfetta consolazione. Leone III l'Isaurico, imperatore bizantino noto per la sua passione iconoclasta, approfittando di un terribile maremoto nel 726, causato a suo dire dall'ira divina contro gli idolatri, mise definitivamente al bando le immagini dalle chiese cristiane, e fece sostituire le icone con fiori e scene di caccia, e il culto di adorazione con «discorsi edificanti». L'imperatore venne incontro alle esigenze del buon senso, ma favorì di fatto un ritorno a forme pagane di culto che furono poi rifiutate dalla massa dei cristiani. Da un punto di vista strettamente ortodosso l'iconoclasta sembra fraintendere tragicamente l'antinomia, di cui l'icona testimonia, che l'icona è, con una volgare contrapposizione tra divinità ed umanità. Egli non accetta il fatto che Dio possa rivelarsi in un silenzio non di tipo mistico-contemplativo, ma in un silenzio determinato da un paradosso (impossibilità della rappresentazione-necessità cristolgica dell'icona) che in qualche modo rende possibili l'annuncio stesso e la predicazione cristiana. Posta come valida questa caratterizzazione dell'iconoclasta come di chi ha orrore della rappresentazione dell'umanità di Cristo perché innanzitutto ha in abominio l'idea di un Dio-uomo, dovremo dedurne che chi si ribella al film di Scorsese perché «blasfemo» non è necessariamente mosso da furore iconoclasta? Come si sa l'accusa cattolica al film di Scorsese non è quella di rappresentare un Cristo umano, ma di rappresentare un Cristo «troppo umano», con desideri sessuali e ambizioni domestiche, «come un qualsiasi altro uomo». Il proble-
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