pagina 6 oppositori della decostruzione hanno dimostrato di non voler fare i conti seriamente con i testi di de Man: se ciò è comprensibile - leggere de Man comporta uno sforzo non indifferente - non è peraltro giustificabile. La scoperta degli ambigui e deplorevoli articoli del periodo belga rappresenta dunque una provvidenziale scorciatoia per coloro che quello sforzo non volevano farlo: sostenere che il decostruzionismo è fascista (e che de Man era fascista da giovane e tale sarebbe rimasto) sarebbe sufficiente per metterlo fuori gioco. Ma diversamente stanno le cose per quanti vogliono leggere de Man. Già a partire dal 1955 (cfr. Les exégèses de Holderlin par Martin Heidegger) de Man metteva in luce la pericolosità di certe interpretazioni del linguaggio dell' «autenticità» dalle quali lui stesso non era stato immune nel suo triste periodo belga. È vero che in quel periodo il discorso di de Man sembra dettato da un certo scetticismo politico. Ma va anche riconosciuto che fin da quegli anni de Man si distingue al tempo stesso per una critica radicale alle premature conclusioni del discorso critico. Ciò lo porta ad analisi sempre più rigorose delle tendenze organicistiche e totalizzanti (e potenzialmente to- • talitaristiche) legate a un 'interpretazione abbastanza corrente del romanticismo letterario e filosofico. E questa inesorabile vigilanza (e autovigilanza) si sviluppa attraverso l'analisi della retorica della critica ,/ ,/ Non c'è affatto bisogno né di ave- '' re successo.né di sperare il successo per seguitare a perseverare nella lotta»: questo motto dice subito la mia parte. Né mi fa retrocedere il sardonico e non immotivato commento di chi, per aver dissolto la dicotomia amico-nemico, non sa più contro chi e contro che cosa indirizzare la «lotta». Al contrario, la radicata consapevolezza che nelle fattezze nemiche si prende visione del proprio lato oscuro, raddoppia soltanto le direzioni di speranza fattive di trasformazione. Il nemico non è tolto se indossa, per lo sguardo attento, metà della nostra faccia. E ciò deriva anche dall'aver ritrovato, oltre i linguaggi politologici e psicologici che intendono rinnovare il modo di atteggiarsi, il fondamento del dominio capitalistico nella «concorrenza degli operai fra loro»: su questa concorrenza il dominio «assolutamente riposa». Lo scriveva Marx nel Manifesto, 1848: il nemico era dunque, fin d'allora, interno all'amico. Ogni volta che un barlume di questa verità si fa intuire, inizia l'assalto al cielo: ogni volta, e necessariamente, che la concorrenza dei salariati è più forte della loro capacità di vederla tolta, il cielo precipita. Capacità di vedere, di guardare attraverso la realtà e l'apparenza della concorrenza: osare questo progetto slabbrandolo fino a cancellare le divisioni gerarchico-professionali del lavoro e dello studio, le relazioni l autoritarie fra i sessi e le generazioni, l'imbalsamazione (dietro i pirotecnici cambiamenti di superficie) dei ruoli e delle abitudini: questo è stato il cielo piegato all'immaginazione prefigurante del 68. In continuità con la tradizione che cerca l'unità - e quindi la diminuzione della concorrenza interna - come condizione di lotta, e in rottura con la tradizione che blocca il superamento delle divisioni davanti all' «ordinamento tecnico-scientifico» della produzione e dell'apprendimento o, nella piega privata dall'esistenza, che rincula intimorita di fronte al totem dei buoni costumi consacrati da abiti millenari. A più voci (Blindness & Jnsight) il rigoroso c/ose-reading di testi di Proust, Nietzsche, Rilke e Rousseau (Allegories of Reading), fino alle più recenti decostruzioni dell'«ideologia estetica»5 che egli imputa a una interpretazione organicistica dell'estetica postkantiana. Qui lo storicismo radicale di de Man viene interpretato come astoricismo solo da coloro che intendono la storicità in modo limitato, lineare o determinato. Non vi è qui lo spazio per una riflessione su teorie tutt'altro che facilmente parafrasabili. Ma va perlomeno detto che è frutto di cecità o di disonestà rifiutarsi di riconoscere la distanza percorsa da de Man tra i primi scritti e le opere più tarde. Con questo non voglio negare che una relazione esista: è impensabile che l'esperienza giovanile (in cui forse ebbe parte non indifferente la figura dello zio, il teorico socialista Hendrik de Man)6 non abbia lasciato tracce. Più difficile è precisare i termini di questa relazione, e forse impossibile valutarne il carattere di consapevolezza (il che vale per qualsiasi studio che affronti il biografico). Ma porsi il problema - come ha fatto de Graef - non è banale, come non lo è interrogarsi per l'ennesima volta sul fascino perverso (o sulla capacità di creare confusione) esercitato dal nazismo sugli intellettuali. Se in Italia ci si occuperà del «caso de Man» (il che non è detto visto che le sue opere sono poco note) è auspicabile che ciò comporti una riflessione più cauta di quella offertaci da certa stampa americana e tedesca. Note . (1) «Criticai Inquiry», 14 (Spring 1988), 3, pp. 590-652, in particolare le pp. 621-632; utilissimi sono anche due articoli di de Graef in corso di stampa sulla «Oxford Literary Review»: Notes on Paul de Man's Flemish Writings e Aspects of the Context of Paul de Man's Earliest Publications. In due fascicoli successivi la «Oxford Literary Review» pubblicherà tutti i testi giovanili di de Man e una cinquantina di contributi da parte di studiosi favorevoli e ostili a de Man in cui tali testi vengono analizzati. Si è obiettato sull'opportunità di ripubblicare tutti gli scritti giovanili di de Man, ma questo è l'unico modo perché chiunque possa leggerli e per allontanare il sospetto che si voglia tenerli nascosti. (2) Cfr., ad esempio, Défense de la neutralité, 9 novembre 1939e Que pensez-vous de la guerre?, 4 gennaio 1940, entrambi in «Jeudi». (3) Va forse ricordato che de Man annoverava tra i suoi migliori amici Harold Bloom, Geoffrey Hartman e Jacques Derrida, tutti notoriamente ebrei. Sul carattere esemplare del comportamento di de Man come insegnante, collega o amico, cfr. il fascicolo n. 69 (1985) di «Yale French Studies». (4) De Man cominciò a pubblicare «Critique», «Monde Nouveau» e altre riviste a partire dal 1953. Le sue opere maggiori sono raccolte nei seguenti volumi: Blindness & Insight, Oxford University Press, New York, 1971 (1983), trad. it. Cecità e visione, Liguori, Napoli, 1975; Alle-· gories of Reading, Yale University Press, New Haven, 1979, trad. it. parziale in AA.VV., AlleTemi. Nel 68 Romano Madera Meravigliarsi perché montano oggi cori di esecrazione e derisione, di coccodrillesco amarcord e di dotte spieghe sulla nostra crudele citrullaggine irresponsabile? Anzi. «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate isteriche nude ... ». Così profetava nel !ondella ripetizione gli avventati annunciatori del «giorno novissimo» che ancora non nasce, lo spirito del 68 è tanto svaporato da avere solo flebili voci che trattengono una scintilla dell'antica audacia e osino riprendere la parola e dire sé tornando a se stesse. MicroMeg3a;88 David Grossman Jogging Adriano Sofri Elogio della sinistra pentita Jurgen Habermas Il filoso{ o e il nazista La rivista della sinistra diretta da Giorgi.oRuffolo è in vendita nelle librerie e nelle principali edicole. Scritti di Grossman, Eban, Harkabi, Bahbah, Butler, Sofri, Habermas, Markovits, Rorty, Tonnies, Bolaffi, Arlacchi, Flores d'Arcais. tano 1956 Allen Ginsberg. Il poeta vedeva sui margini del tempo muoversi appena, al risveglio, le larve apocalittiche di una generazione a venire ... Oggi, dopo la rotta seguita all'inevitabile riprocedere del mondo in albe routinarie, capaci di schiacciare con la silenziosa forza Ritorno alla esegesi vivente, pratica, trasformativa, che il 68 e il suo seguito, fino ai contratti del 1973 e alla crisi del petrolio, ha svolto del passo marxiano dei Grundrisse, già compulsato dai «Quaderni Rossi»: «Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande sorgente delAlfabeta 113 j gorie della critica, a c. di M. Ajazzi Mancini e F. Bagatti, Liguori, Napoli, 1987. Opere postume: The Rhetoric of Romanticism, Columbia University Press, New York, 1984; The Resistance to Theory, Minnesota University Press, Minneapolis, 1986 (un saggio è già uscito in italiano su «Nuova Corrente», 93-94, 1984 e la traduzione integrale uscirà da Marietti nel 1989); Aesthetic Ideology in corso di stampa presso la Minnesota University Press; una traduzione italiana del testo su Kant è uscita nel volume La via al sublime, a cura di M. Brown, V. Fortunati e G. Franci, Alinea, Firenze, 1987. (5) Fondamentale in questo senso il recentissimo volume di Christopher Norris, Paul de Man: Deconstruction and the Critique of Aesthetic ldeology, (Routledge, Londra, 1988), un capitolo del quale è stato letto al convegno di Anversa. (6) Cfr. Peter Dodge, Hendrik de Man, ,Socialist Critic of Marxism (Princeton University Press, Princeton, N.J., 1979). (7) Cfr. la relazione di de .Graef al convegno di Anversa: Silence to be Observed: A Tria/ f or Paul de Man's /nexcusable Confessions. De Graef ha «rovesciato» su de Man riflessioni che de Man stesso aveva fatto sulle Confessioni di Rousseau. Infatti sembra destinato a rimanere senza risposta il perché de Man non abbia mai fatto pubblica ammenda. Forse ciò avrebbe significato «una rottura con alcuni dei suoi migliori e più intimi colleghi, la perdita della sua vivacità accademica [... ] e anche dell'unica possibilità che ora aveva di fare una qualche riparazione intellettuale» (C. Norris, Paul de Man, cit., p. 180); o forse - come ha azzardato de Graef - il silenzio di de Man deriva dal carattere incommensurabile di colpa, confessione e scusa. la ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio (la misura) del valore d'uso». L'inattuale egualitarismo del 68 e del 1969, anche nelle formulazioni più rozze - o più roventi? - batteva il chiodo brutale dell'eguale bisogno «per vivere», e della necessaria unità per lottare e superare la «concorrenza interna». Che pochissimi avessero letto Capitale e Grundrisse, che pochi avessero «capito» il Manifesto, non fa che sottolineare l'affinità profonda del movimento con il profetismo rivoluzionario di Marx, ancora non vinto dalle mille idolatrie costruite in suo nome o contro il suo nome. Resta che la pretesa utopica del 68 è più che mai vera oggi, anche se giace cadavere o s'aggira solo come uno spettro di scena - a volte di galera - per le feste di compleanno delle gazzette, delle TV e dei convegni. .Che senso ha «il tempo di lavoro» come misuratore della ricchezza, nell'interconnessione fitta dei saperi e delle tecniche in un sistema che approfondisce il grado di mondializzazione della sua economia? E per essere alla pari col momento: le fonti della ricchezza, secondo la critica al programma di Gotha, sono almeno due: insieme al lavoro, la terra. E se anch'essa, ma in nuovo e diverso senso, misurasse ricc~ezza, non potremmo, da questa prospettiva, ripetere l'adagio che la dipendenza delle zone «povere» del pianeta dai centri dello sviluppo copre una doppia «rapina», in termini di valore-lavoro e in termini di valoriterra, o valori-biosferici? La vita di uno svizzero consuma la terra 70 volte più di quella di un somalo: e non la ricostituisce in misura maggiore, anzi. E l'interdipendenza onnilaterale delle specializzazioni, quando tocca ogni frammento di sapere e poter fare, non segna il limite di irrilevanza della misurazione in forma di merce qualificata, di ogni professione? L'attualità utopica del 68 è l'attualità del comunismo in quanto «interesse ultimo», e quindi «religioso» nel senso di Paul
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