Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

Alfabeta 113 A nversa si è «riappropriata» del suo ex-cittadino Paul de Man in un momento particolarmente delicato. Il convegno internazionale Paul de Man (Antwerpen - New Haven), tenutosi all'università di Anversa il 24 e 25 giugno, è stato inevitabilmente dominato dalla recente scoperta della giovanile attività giornalistica del celebre studioso. Non sono mancati interventi che prescindevano, almeno tematicamente, dal contenuto di tale scoperta (tra gli altri vanno almeno segnalati quelli lucidissimi, come sempre, di Rodolphe Gasché e di Carole Jacobs); tuttavia le energie delle discussioni erano prevalentemente assorbite dall'urgenza di interpretare quegli scritti, dalla riflessione sul modo in cui la stampa (soprattutto negli USA e nella Germania Federale) ha trattato la questione, e dalle possibili conseguenze di tale scoperta. Brevemente i «fatti». Tra la fine del 1986 e l'inizio del 1987, Ortwin de Graef, un giovanissimo studioso di Anversa, impegnato in una tesi di dottorato sull'opera di de Man, scoperse che il critico belga - nato ad Anversa nel 1919, emigrato negli USA nel 1947, là affermatosi verso la fine degli anni Sessanta e morto prematuramente a New Haven nel 1983 - aveva svolto in gioventù un'intensa attività giornalistica. Fino ad allora si era solo a conoscenza dell'attività di traduttore da lui svolta nel periodo bellico, e di suoi contributi (alcuni editoriali non firmati e due articoli) apparsi nei primi mesi del 1940 su «Les Cahiers du Libre Examen» (giornale del cercle d' étude dell'Université Libre di Bruxelles di cui de Man fu direttore per un breve periodo prima della cessazione delle pubblicazioni a causa dell'occupazione nazista): nessuno vi avev~ ovviamente prestato molta attenzione. Ma il contenuto della scoperta di de Graef è di ben altra entità, sia quantitativa sia qualitativa: a) 169 articoli (o forse più) apparsi tra il dicembre del 1940 e il novembre del 1942 sul noto quotidiano di Bruxelles «Le Soir»; b) 10 articoli per «Het Vlaamsche Land» (La terra fiamminga), apparsi tra il marzo e l'ottobre del 1942; c) 102 articoli (quasi tutti brevissime recensioni) per la «Bibliographie de l' Agence Dechenne» (febbraio 1942-marzo 1943). A tutto ciò vanno aggiunti 7 articoli pubblicati sulla rivista studentesca «Jeudi» tra il novembre del 1939 e il marzo del 1940, rinvenuti recentissimamente da Neil Hertz e Tom Keenan. I contributi più «significativi» sono quelli usciti su «Le Soir», un quotidiano di Bruxelles definito dallo storico del Belgio Jean Stengers «moderatamente collaborazionista» (il che vale anche per «Het Flaamsche Land» e l'«Agence Dechenne», mentre «Jeudi» e i «Cahiers» si ponevano in un'area confusamente antitotalitaristica e antitedesca). Si tratta per la maggior parte di recensioni di testi letterari o di studi di critica, di resoconti di mostre e spettacoli teatrali o musicali, dove i temi politici vengon prevalentemente affrontati in modo indiretto. In numerose occasioni de Man dimostra una cultura sorprendente per l'età e un approccio critico piuttosto anticonformista (in ambito letterario). Il suo linguaggio, tuttavia, non è affatto immune da una retorica a quell'epoca assai A più voci diffusa: metafore organicistiche incentrate sulla nozione di identità culturale, sentimenti nazionalistici e un eurocentrismo per noi oggi insopportabili. Nella loro globalità (ne ho letti solo 37 e mi baso in parte su informazioni fornitemi da de Graef) tali articoli sono difficilmente riconducibili a una coerente ideologia politica: ad esempio sembrano accettare come una necessità o addirittura caldeggiare il predominio culturale (e non solo culturale) della Germania, altri sembrano andare in direzione oppoin questione (anzi, lo cita per esteso) ma fa notare, tra l'altro: 1. che la scrittura di de Man non ha nulla a che vedere con la virulenza e odiosa retorica razzista che caratterizza gli altri articoli apparsi sul quel numero infausto di «Le Soir» e che fanno da cornice al pezzo di de Man; 2. che la tesi centrale dell'articolo non ha nulla a che vedere con gli ebrei e l'antisemitismo, anzi sembra opporsi all'«antisemitismo volgare». e paranoico in base al quale si sosteneva che gli ebrei avessero influenzato in modo I Primavera - Estate 1984 sta, mettendo in luce i grandi contributi della cultura francese o invitando a un'autonomia culturale belga che potrebbe essere interpretata in senso antitedesco. Numerosi articoli sono estremamente contraddittori e politicamente confusi. Ma un articolo in particolare ha creato scandalo e desolazione: Gli ebrei nella letteratura contemporanea (4 marzo 1941). Jacques Derrida ne ha fornito un'analisi dettagliata nel suo appassionato Like the Sound of the Sea Deep within a Shell: Paul de Man's War.1 Derrida - ebreo lui stesso - non cerca di minimizzare gli aspetti antisemiti del testo nefasto la letteratura occidentale; 3. che è perlomeno ambiguo il fatto che de Man citi come sommi esempi di letterati Gide, Kaflca, Hemingway e Lawrence, cioè un autore ebreo e nemmeno uno tedesco. Nonostante tutte queste contraddizioni l'articolo rimane dolorosamente «disastroso» non solo per il fatto che de Man abbia accettato di vedere pubblicato il suo pezzo in mezzo ad articoli raccapriccianti e non abbia interrotto la sua collaborazione a «Le Soir», ma soprattutto per la chiusa deplorevole e ambigua, in cui scrive che «una soluzione del problema ebraico che porti alla creazione pagina 5 di una colonia ebraica isolata dall'Europa, non ·comporterebbe conseguenze deplorevoli per la vita letteraria dell'Occidente». Sta di fatto che de Man non scrisse in nessun altro caso qualcosa di simile, anzi alcuni articoli possono essere interpretati in senso antisemita (cfr. ad esempio quello del 6 maggio 1941 in cui elogia Charles Peguy «dreyfusard jusqu'au bout») o sono più o meno esplicitamente antitedeschi. 2 Non vi è dunque alcuna prova che de Man fosse effettivamente antisemita o filonazista: esistono invece testimonianze di amici e conoscenti di allora in cui si sostiene in modo categorico e unanime il contrario. Se così stanno le cose rimane perlomeno in piedi l'accusa di opportunismo e di cinismo (scendere a patti con la censura-pur di mantenersi il posto di lavoro), oltreché, ovviamepte quella di scarsa maturità politica. Un aspetto va tuttavia sottolineato più di quanto difensori e accusatori di de Man non abbiano fatto: il fatto che egli dimostri una notevolissima cultura non deve far dimenticare che scrisse quegli articoli tra i 20 e i 23 anni, dopodiché tacque per dieci. D i fronte al caso de Man il comportamento della stampa è stato nella maggior parte dei casi irresponsabile: il «New York Times» (1 dicembre 1987, I'«International Herald Tribune» (2 dicembre 1987), «The Nation» (9 gennaio 1988), il «Frankfurt Algemeine Zeitung» (10 e 24 febbraio 1988), «Newsweek» (15 febbraio 1988), la «Los Angeles Times Book Review» (13 marzo 1988), «Die Weltwoche» (7 aprile 1988), il «Voice Literary Supplement» (aprile 1988) ecc. (dal 1 ~ dicembre 1987 sono usciti più di 60 interventi tra articoli e lettere di risposta) hanno pubblicato, nella corsa alla notizia, articoli estremamente disinformati o addirittura calunniosi (ad esempio lasciando intendere che de Man avrebbe scritto centinaia di articoli antisemiti, che egli sarebbe stato filonazista tutta la vita ecc.). 3 Ciò che colpisce è che buona parte delle testate abbia assegnato il compito di compilare articoli a giornalisti o ad accademici incompetenti i quali dimostrano: 1. di essere assolutamente all'oscuro non solo delle opere per le quali de Man è giustamente noto,4 ma anche degli scritti sotto accusa; 2. di istituire collegamenti infondati tra il «giovane de Man» e il «de Man maturo». Perché una polemica così violenta quando i «fatti», sebbene tutt'altro che edificanti, son ben diversi da quelli che hanno innescato il «caso Heidegger» e non hanno nulla a che vedere con quelli del «caso Waldheim»? (qualche giornalista ha avuto la spudoratezza di unificare i tre casi). Al di là del sensazionalismo giornalistico, i termini della questione mi pare vadano inscritti nell'ampio scontro istituzionale all'interno del mondo universitario americano: negli ultimi 15 anni molti critici e studiosi statunitensi sono stati comprensibilmente «infastiditi» dalle critiche alle teorie alle quali si sentivano affiliati (il New Criticism dominante, lo strutturalismo ecc.) da parte della decostruzione demaniana e derridiana (critiche che ovviamente avevano un riscontro nell?andamento del mercato del lavoro accademico). Ad eccezione di pochi casi, gli

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