Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

I _Pagina4 N on è vero che il processo di secolarizzazione, della risoluzione di ogni trascendenza entro un orizzonte interamente storico e mondano che ha investito la nostra modernità (o in cui, più precisamente, consiste l'essenza del Moderno), rappresenta una definitiva presa di congedo dal mito. Al contrario, la secolarizzazione ha senso e valore solo entro un dominio mitico, proprio perché noi possiamo sentirci moderni - emancipati dalle favole del passato e pienamente inseriti nel secolo, nella storia e nell'orizzonte puramente umano che ci costituisce - solo nella misura in cui concepiamo questa nostra modernità come una indefinita presa di congedo dal mito. Siamo secolarizzati solo in quanto ci autocomprendiamo come coloro che non credono più nel millenarismo e nelle sue apocalissi; ma questa è precisamente una apocalissi, lo svelamento di un mito velato, la modificazione determinata di un decorso favoloso e mitologico. Il secolo come variabile dipendente del millennio. In ciò si radicano le ragioni di un pensiero tragico, che non è una forma superata di riflessione, ma piuttosto si presenta come la presa di coscienza dell'inevitabile destino di secolarizzazione a cui è rimesso il mito, e al tempo stesso della sopravvivenza costitutiva del mito nell'orizzonte secolarizzato: «la contestazione del mito è interna al mito stesso e ne può di fatto rappresentare la crisi solo miticamente, come appunto accade nella tragedia, che non è se non la rappresentazione mitica di questa crisi» (p. 8). Questa, in breve, la tesi da cui prende l'avvio l'ultimo libro di Sergio Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, (11 Saggiatore, 1988). In questo punto di partenza approdano gli esiti di buona parte della filosofia tra Otto e Nocevento; da Nietzsche, che ha saputo coniugare l'impresa di uno smascheramento radicale delle credenze conoscitive e morali con un processo almeno altrettanto risoluto di Ti-mitizzazione («vengo dal tragico e vado verso il tragico», scrive Nietzsche opportunamente citato da Givone). A Heidegger, che ha visto il progetto di oltrepassamento della metafisica non come un semplice andare di là dalle persuasioni del passato, che comunque ritornano in forma tanto più tenace quanto più inconsapevole in coloro che credono di essersele scrollate di dosso con un gesto troppo semplice - bensì invece in un ripercorrimento pensante di ciò che è stato tramandato, perché solo in un simile ininterrotto confronto (che Heidegger chiama Destruktion o Abbau, e che noi ora, sulla scia di Derrida, definiamo per lo più come decostruzione) è possibile tentare qualche passo di là dalla metafisica. Ma si pensi ancora a figure come Lòwith o come Bultmann: per il primo, la filosofia della storia non è che la asintotica secolarizzazione della storia sacra, del destino di redenzione promosso all'umanità dalla religione cristiana (così che da Agostino e da Orosio un filo,continuo si stende sino a Hegel e a Marx: e, si badi bene, il processo non è a senso unico, proprio per la figura ancipite della secolarizzazione: quanto più il millennio si dissolve nel secolo, tanto più il primo si conserva tenacemente nel secondo, come suo fondaA più voci DishlCanto mento avverso e come sua ragion d'essere). Per Bultmann, addirittura, la vocazione propria della storia sacra, il kerygma, l'annuncio messianico del Dio che si fa carne e sangue, è il segno della secolarizzazione come vocazione più profonda del sacro: l'antico testamento è secolarizzato dalle cosmologie assire e babilonesi, il nuovo testamento è secolarizzato dall'antico, e il nostro mandato di interpreti della Bibbia è portare a compimento questa impresa di demitizzazione, assecondando, dunque, e non negando o tradendo, il dettato del kerygma. E il catalogo non può dirsi completo se non si include anche la Dialettica dell'Illuminismo, dove Horkheimer e Adorno tematizzano l'inconsapevole irretimento dell'Illuminismo da parte del mito - di modo che la razionalità, proprio nelle sue pretese di autonomia e di secolarizzazione, mette in opera un procedimento che è il semplice rovescio speculare delle posizioni teologiche: un orrore mitico guida la condanna illuministica del mito, la ragione mondana e pubblica erige inavvertitamente una propria mitologia, la mitologia della ragione. La ragione, nel dipartirsi dal mito e dal tragico, opera una Aufhebung: supera ma, nel superare, conserva, trattiene in sé il proprio fondamento avverso, e lo perennizza. Givone percorre sistematicamente gli ambiti di questa Aufhebung, che per comodità di esposizione potremmo riassumere nelle forme hegeliane dello spirito assoluto - l'arte, la religione, la filosofia. Così la poesia nell'età moderna non può più trovare riparo nel rapporto immediato con la favola e con il mito, e più precisamente non solo non può più essere «ingenua», secondo la caratterizzazione con cui Schiller qualificava il rapporto dei classici con l'arte - •ma nemmeno più è in grado di essere «sentimentale» (che, ancora schillerianamente, era il modo della prima modernità romantica di intendere la poesia vagheggiando una ingenuità perduta). Né ingenua né sentimentale, la grande arte del Novecento (che per Givone è anzitutto e essenzialmente quella delle avanguardie) è chiamata al silenzio e alla negatività: «Non deve essere. Il bene, la gioia, la speranza non devono essere, vengono ritirati, si devono ritirare», leggiamo nel Doctor Faustus, in un passo che a buon diritto Givone qualifica come «assolutamente cruciale [... ] per tutte le poetiche novecentesche». (p. 25): il disincanto del mondo, la perdita di ogni rapporto con il mito, anzi la volontà ostinata di precludersi una consolazione non più credibile, non si risolve affatto nel «mezzogiorno degli spiriti liberi»; o, almeno, questo mezzogiorno non è troppo euftnico, percorso com'è dal pathos nichilistico di un mondo interamente umano (col che però il tragico, escluso con lo stesso gesto che si emancipa dal mito, riappare nella constatazione delle conseguenze di questa emancipazione). Questo è anche il caso della religione, che va in un senso secolarizzante (secondo quella vocazione che abbiamo tratteggiato più sopra in Bultmann) in base a una duplice serie di argomenti, che si succedono in un ordine di crescente radicalità senza escludersi a vicenda. Il primo, di tipo storico, muove dalla constatazione per cui molto presto, entrando in contatto con l'ellenismo, il cristianesimo accede a un universo secolare di certezze storiche e filologiche, così che il paradosso della fede diviene presto doxa legittima e giustificata discorsivamente secondo le forme più canoniche del logos greco (un logo che, se seguiamo il Nietzsche della Nascita della tragedia, si afferma sulla morte del tragico e del mitico: per bocca di Euripide, uccisore della tragedia, parla Socrate, e si inaugura così quell'argomentare per arguzie e sillogismi che sostanzierà la commedia nuova). Più impressionante e intrinseco il secondo argomento: il cristianesimo, ben prima del contatto con l'ellenismo, e dunque già nelle forme più arcaiche dell'antico testamento, contiene il principio che lo consegna al secolo e al nichilismo come manipolazione del mondo per opera di una ragione soggettocentrica incurante del divino: «già nell'idea di 'creatività' (e di creaturalità) stabilisce il nesso che lega tecnica, autoimposizione e dominio» (p. 109). Non solo l'etica protestante sta alla base dello spirito del capitalismo, ma più radicalmente e anticamente il principio della trasformazione industriale del mondo trova la propria cauzione nella creazione divina. «Perciò accade sempre più spesso che il nichilista, per lo più a ragione, si senta in diritto di impartire lezioni di cristianesimo al cristiano» (p. 110). Più complicato il caso della filosofia. «Univoco è il sapere filosofico, doppio il sapere tragico: perciò sono incompatibili» (p. 113). Per una filosofia intesa in senso metafisico, il logos non potrà mai contaminarsi con la duplicità del tragico; e infatti quando Socrate diventa l'ideale della gioventù ateniese, Platone brucia le proprie tragedie per farsi discepolo del nuovissimo demone. Più tardi Platone sosterrà che la filosofia è fatta per tranquillizzare i fanciulli, così come Descartes affermerà che si può fare filosofia solo quando si sia superato il dubbio iperbolico, l'idea di essere pazzi, per esempio, e si sia raggiunta per questa via l'auto-assicurazione del cogito. «Ma ciò non toglie che questo processo, al suo culmine, appaia destinato a invertirsi» (p. 95). Nella Nascita della tragedia Kant e Schopenhauer erano indicati come coloro che, portando a perfezione la vocazione conoscitiva del pensiero filosofico, avevano revocato l'ottimismo teoretico che informava l'ethos antitragico della dialettica socratica e platonica. Così in Hegel il passaggio dalla tragedia alla filosofia è problematico, e solo piuttosto tardi l'ultimo grande metafisico arriverà alla conclusione che le ferite dello spirito possono sempre rimarginarsi, che cioè il travaglio dialettico (che assume in sé, nel proprio movimento, la duplicità del tragico) possa infine giungere a una conciliazione che decreta la morte della tragedia, il superamento della lacerazione e il tranquillizzarsi dello spirito. Tutta la filosofia dopo Hegel va nel senso del tragico, proprio nella misura in cui contesta la metafisica e, con essa, l'idea di univocità del logos che la sostanziava. E questo movimento nel senso del tragico può essere sia diretto, là dove ci si richiama alla inconciliabilità della condizione umana, per esempio, sia indiretto, quando la tematizzazione Alfabeta 1131 gnoseologica della crisi dei fondamenti approda a una gratuità propriamente tragica, per cui il mondo appare sospeso su un abisso casuale e vano: «La vera forza del pensiero tragico è la sua gratuità. Gratuito è un gesto che capovolga quello platonico della fondazione della filosofia come antitragedia» (p. 115). Come dobbiamo intendere questa rinascita della tragedia che va di pari passo con la morte della filosofia? Per il giovane Nietzsche la via era quella della musica, la figura del Socrate cultore di musica che rinascendo nella corale luterana e culminando con Wagner avrebbe aperto lo spazio di un pensiero tragico. Non per caso, tuttavia, Nietzsche andò incontro alla delusione dei festeggiamenti wagneriani di Bayreuth, alla farsa di un grand'uomo che recitava la commedia del proprio ideale, che si «cristianizzava» e che, dimesso lo spirito tedesco in senso nobile, abbracciava gli ideali della nuova Germania precipitando in un baratro (anche quello, a suo modo, tragico) di interesse, volgarità e banalità. A una sorte non dissimile sembrava destinato lo stesso Nietzsche, che forse la accolse scientemente (ma fino a che punto?): non solo i biglietti della follia scritti a Torino nell'epoca del crollo psichico, ma già l'iperbole lirica dello Zarathustra - la mancanza di stile che attraversa quell'opera ritenuta da Nietzsche capitale - testimoniano di questo risolversi della tragedia nella farsa. Il tragicomico molto più che la tragedia antica e perduta costituisce anche per Givone l'orizzonte verosimile di un pensiero tragico contemporaneo. Leggiamo ad esempio in un passo su Kierkegaard: «Se è vero che noi, oggi, 'traffichiamo molto di più col comico', è anche vero che il comico non lo conosciamo se non tragicamente, cioè come 'disperazione'. Questo dice Kierkegaard: o la religione ritrova il tragico in sé e sé nel tragico (tuttavia superandolo, nel senso della 'più alta tragedia') o diventa comica, disperatamente comica. Della tesi per cui è nel declinante (fino alla comicità) e antitragico orizzonte cristiano che si presenta la possibilità di pensare il tragico stesso, ecco un'anticipazione decisiva» (p. 144). Tragica è dunque l'impossibilità del tragico, tragedia è il dilagare della commedia. Ciò ha indubbiamente a che fare con delle difficoltà di tipo storico e linguistico: una tragedia, oggi, farebbe semplicemente ridere, proprio come molto spesso ci sorprendiamo colpevolmente a ridere delle sciagure altrui, sapendo del resto di essere contraccambiati, e perciò cadendo in una perplessità che ha molto a che fare con il tragico, senza tuttavia poter essere espressa, pena appunto la ricaduta nella farsa. Tutto questo, probabilmente, segna insieme lo splendore e la miseria di un pensiero del tragico, che può vivere solo ritraendosi, e che dunque non si rivela antitetico a un pensiero debole. In un orizzonte pantragico, quale è quello persuasivamente definito da Givone, la strumentazione sublime provoca patetiche dissonanze; l'estendersi planetario del tragico conferma la morte della tragedia. «Sarà così; solo che oggi e più tardi qui saremo proprio noi con una testa reale, dunque una fronte anche, da batterci su con la mano» (Kafka).

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