Alfabeta 113 con un pizzico d'ironia Rorty - se non un professore di filosofia dopotutto, può pensare che il dramma dell'Europa del XX secolo abbia un rapporto essenziale con la Vollendung der Methaphysik?» La questione di una filosofia che diventa poesia, oppure, se si preferisce, di una poesia che diventa filosofia, è tutt'altro che irrilevante. In fin dei conti, si tratta di stabilire con quali categorie noi dobbiamo esaminare i testi di Heidegger. Ossia con quali «chiavi di lettura» devono essere interpretati. Più concretamente: nei casi di estrema opacità referenziale, che abbondano nei suoi scritti, come dobbiamo comportarci? Il nostro atteggiamento come lettori deve essere quello che assumia·mo di fronte a testi particolarmente ostici di filosofia, per esempio certi passaggi di Hegel, Peirce o Husserl, oppure quello che assumiamo di fronte a poesie (o prose poetiche) nel loro genere non meno ostiche, per esempio di Gongora, di Joyce o di Cummings? Certo, si può sostenere che qualsiasi tentativo di classificare i testi in funzione di chiavi interpretative diverse è fuorviante, giacché tutti i testi, indipendentemente dalla loro natura (e dalle intenzioni dei loro autori), sarebbero sottoposti alle stesse regole ermeneutiche. Ma la difficoltà vera è che tra gli esponenti della nuova ermeneutica non c'è accordo su quali siano queste regole. Anzi, alcuni di loro negano l'esistenza di tali regole. E persino l'esistenza di qualcosa da interpretare. Una siffatta ermeneutica, a mio avviso, sancisce paradossalmente la fine dell'ermeneutica. Alludo soprattutto a Derrida che, in contrasto con il meritevole tentativo di Gadamer di ricomporre l'ermeneutica filosofica, di addomesticare, per così dire, l'ermeneutica del rude montanaro di Todtnauberg, mira invece alla radicale decostruzione dell'oggetto dell'ermeneutica e dell'ermeneutica stessa. (Vedasi il documentato libro di Maurizio Ferraris, di recente pubblicazione, sulla storia dell'ermeneutica.) I motivi che hanno portato Heidegger verso un pensare inteso come poetare sono certamente molteplici, non pochi dei quali, come è ovvio, hanno radici profc5ndenello sviluppo della sua filosofia. Lungi da me voler qui ignorarli. Non va però sottovalutato un motivo che, a mio parere, ha la sua importanza. Si può avere infatti il fondato sospetto che Heidegger, avvicinando il pensare al poetare, abbia cercato, consapevolmente o meno, di assicurarsi un'area di maggiore libertà. O meglio impunità. Impunità nei confronti di certi aspetti del suo pensiero che egli preferiva oscurare tramite una sorta di legittimazione «poetica». Se questo è vero, come presumo che sia, la sua scelta è stata, a questo riguardo, previdente, e addirittura un segno di indubbia accortezza. Sembra senz'altro acquisito che, in tutti i tempi, c'è stata più tolleranza per i poeti e i letterati che non per i filosofi. Anche nel nostro tempo si è più disponibili a scusare gli «errori politici», per esempio, di D'Annunzio, Pound e Céline che non quelli di Gentile. La spiegazione va forse cercata nel fatto che risulta più facile espellere la responsabilità politica (e di qualsiasi altro genere) dal poetare che non dal pensare. Il che non significa, sia chiaro, che la responsabilità politica (o di qualsiasi altro genere) non possa essere ospitata dalla poesia. Penso, per esempio, a Heine, e allo stesso Char. Neppure che la poesia non possa essere veicolo di idee (o intuizioni) sulla struttura fisica della realtà. Penso, per dare un solo esempio, a Lucrezio. A ben guardare, nell'attribuire alla poesia un ruolo di piacevole nascondiglio, di luogo chiuso, e in quanto chiuso sicuro, Heidegger rende tributo, magari senza volerlo, a una visione filistea della poesia, una visione in cui si ravvisa una forma di velata disistima della poesia stessa. In altre parole, ai facitori di «bei versi» tutto è concesso, giacché i versi sarebbero, sempre e comunque, incapaci di nuocere. È la libertà che viene riconosciuta ai «buffoni di corte», la famosa Narrenfreiheit dei tedeschi. Non è quindi Carnap, ma piuttosto Heidegger a sottovalutare la poesia. Benché possa sembrare curioso, è molto probabile che sia così. ' E appunto occupandosi di opere poetiche che Heidegger fornisce i migliori esempi di che cosa egli intende per pensare come poetare. Nelle lezioni di Friburgo (1941-1942), dedicate all'Andenken di Hòlderlin, uno dei momenti più alti della poesia tedesca, Heidegger ci offre, dal canto suo, il momento più alto di astrusità linguistica di tutta la sua opera. Il che non è poco. La procedura è conosciuta, è_quella da sempre utilizzata da Heidegger nella sua opera. Si percorre a ritroso la storia di una parola per individuare quell'«etimo assoluto», quella dimenticata (o rimossa) radice originaria, in cui si dovrebbe nascondere un cifrario, un insieme di chiavi interpretative atte a svelarci le attuali potenzialità della parola esaminata. Ma trovato il cifrario lo svelamento non ha luogo, in quanto si fa di tutto per oscurarlo. L'etimo individuato viene fatto oggetto degli interventi più arbitrari. E così avvengono slittamenti, scavalcamenti e sconvolgimenti semantici e sintattici che hanno dell'inaudito. Si ricorre alla omonimia e alla omofonia, anche, alla polisemia, e con l'uso spropqsitato di lineette e di altre astuzie grammaticali (sostantivazione e aggettivazione di verbi, aggettivazione di sostantivi e avverbi, e così via) si riesce ad attuare una incontrollata proliferazione di neologismi e di accostamenti lessicali insoliti. Come conseguenza, le cose dette diventano assai inintelligibili, e non è facile Saggi dissipare la tendenza che ci porta (forse per pigrizia) a giudicarle «profonde». Il metodo ermeneutico-etimologico fin qui descritto non è, si sa, una novità in Heidegger. Novità nel secondo (e terzo) Heidegger è invece l'abuso ormai maniacale del suo stesso metodo. Nel testo su Hòlderlin, per esempio, egli sottopone la parola dichten a un tale rimaneggiamento che tutto diventa molto simile a uno scioglilingua. (In una sola frase, sono presenti dichten, Dichten, Gedichte, Gedichtete, ubergedichten, Dichter). In questo modo, i suoi testi assumono sempre più la forma di «prosa d'arte». E sempre meno la forma di un discorso argomentato di fronte al quale il lettore, anche quello ben disposto nei-confronti di Heidegger, possa afferrare alcuni enunciati razionali. Mai, di fatto, viene fornita una pezza d'appoggio di quello che si dice. Semplicemente si dice, e ciò senza la minima volontà di attribuire senso a quello che si dice. Adorno però nega che Heidegger sia «incomprensibile» Autunno - Inverno 1988-1989 (unverstiindlich): per lui il vero problema è il «tabù» interpretativo che Heidegger stesso è riuscito a creare intorno a sé, ossia la diffusa sensazione che qualsiasi tentativo di rendere comprensibile il suo pensiero sarebbe destinato al fallimento. Secondo Heidegger, ciò che si capisce del suo pensiero sarebbe sempre falso, sbagliato. Io credo che l'interptetazione di Adorno sia molto giusta in particolare nel caso di Sein und Zeit. Effettivamente, tutto (o quasi tutto) può risultare chiaro in questa opera. Basta aver frequentato, con relativa assiduità, i costrutti terminologici della grande tradizione della metafisica occidentale, alludo a quelli dei presocratici (soprattuto di Eraclito e Parmenide), di Platone, di Aristotele, di Tommaso, di Duns Scoto, di Kant, di Fichte, di Hegel..--<fi Schelling, di Schleiermacher, di Kierkegaard, di Brerita~o, di Dilthey e di Husserl. (E Nietzsche? Nietzsche, la più pagina 33 limpida scrittura tedesca dopo Lessing e Schopenhauer, non c'entra per nulla con i codici dell'opacità heideggeriana). Soddisfatto questo prerequisito non ci sono, in sé e per sé, difficoltà insuperabili per accedere alla comprensione di Sein und Zeit. Le difficoltà vengono dopo, quando cominciamo a renderci consapevoli che Heidegger, con l'aiuto di un vasto arco di stratagemmi concettuali, ci confonde, ci disorienta, ci allontana da quella comprensione che noi credevamo vicina, e di colpo ci viene il dubbio che quello che noi avevamo creduto di aver capito non è affatto quello che Heidegger aveva in mente. E così siamo di fronte a ciò che Adorno ha definito come il tabù della comprensibilità (o il mito dell'incomprensibilità) che Heidegger stesso, volutamente, ha disposto intorno a sé, a mo' di cintura protettiva. Questo, che è vero per Sein und Zeit, lo è raramente per i suoi testi dopo la svolta. Nel tardo Heidegger molto di rado si verifica questo passaggio, diciamo, guidato - guidato dallo stesso Heidegger - dal comprensibile all'incomprensibile. La tendenza verso l'occultamento del suo pensiero appare con gli anni sempre più dominante. Ciò nonostante, nell'opera del tardo Heidegger, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, troviamo testi che sono tutt'altro che incomprensibili. Ma quando si tenta di fare un resoconto di ciò che giudichiamo comprensibile in quei testi il risultato, diciamolo pure, è piuttosto deludente. Di norma, si tratta di escogitazioni a ruota libera prive di ogni argomentazione fattuale. Ancora.più frequentemente siamo di fronte a idee molto note, enunciate da altri prima, con meno pretese di «andare alla radice», ma di sicuro con maggiore originalità. Nel suo testo sulla tecnica (1953), per esempio, che tanto viene celebrato ultimamente, Heidegger fa affermazioni di una soncerta_nte trivialità, soprattutto se si tiene conto dell'alto livello raggiunto dal dibattito sul rapporto tecnica-cultura negli anni Dieci e Venti in Germania (Vedasi il reading da me curato Tecnica e cultura - Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, e anche la traduzione italiana appena apparsa del libro di Jeffrey Hert, Il modernismo reazionario - Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich). Non meno celebrato, in particolare tra gli architetti, è il testo di Heidegger Costruire-AbitarePensare (1951) che tematizza in «tono alto» una serie di luoghi comuni. Famosa è la sua insolita riflessione sulla «mancanza di abitazioni» già una volta sarcasticamente criticata da Adorno. Per quanto concerne il breve saggio di Heidegger sul rapporto arte-spazio (1969), che riprende alcune tematiche sull'arte sviluppate dal filosofo negli anni Trenta, rimane per me oscura la ragione per la quale viene di solito attribuita a questo scritto una particolare importanza. Non vorrei apparire presuntuoso, ma devo dire francamente che mi sembra un testo di una ovvietà esasperante. Quando si pensa agli stimolanti contributi teorici sull'argomento da parte degli esponenti dell'avanguardia storica - per esempio, dei futuristi italiani, dei costruttivisti russi, dei neoplastici olandesi - le riflessioni di Heidegger ci colpiscono per la loro modestia. In realtà, il filosofo non ci racconta niente di nuovo. E lo fa nel suo stile di sempre, e con la solennità propria di chi annuncia verità mai pensate prima di lui. Questa volta però Heidegger esagera. Egli ci sottopone infatti a un martellante succedersi di tautologie, di osservazioni più· che evidenti, di capriole gergali neppure molto ingegnose, di domande che sfociano sempre in risposte autoconfutanti. Questi testi però appartengono a quella categoria di scritti del secondo (e terzo) Heidegger sui quali ancora si può ragionare, e pertanto essere in grado di dichiararsi d'accordo o meno. Ma c'è un'altra categoria di scritti in cui regna la più implacabile volontà di annientamento semantico, in cui nessun significato (o senso) regge di fronte alle più ardite stramberie lessicali del filosofo. (Soltanto Derrida, con la presunzione gallica che lo contraddistingue, riesce a superare Heidegger in questo esercizio di desemantizzazione, in questo radicale smantellamento di qualsiasi forma di razio~ nalità comunicativa.) È questo un bene o un male? Io mi azzardo a giudicarlo un male. Mi chiedo: chi può beneficiare di questa orgia di silenzio? In un banchetto a Jena, il giovane Hegel, come ricorda Bloch, invitava i commensali ad avanzare senza riluttanza verso il tavolo apparecchiato, dicendo: .«Tutto qui è per essere divorato, che si compia il suo destino». C'era ancora abbondante cibo sul tavolo che Hegel aveva di fronte. Su quello di Heidegger, temo, molto meno. (Su quello di Derrida, di sicuro, nulla.) Perché al di là delle esaltanti promesse di Heidegger di una definitiva fuoriuscita dalla metafisica, di un superamento dell'«oblio dell'essere», di una drastica deplatonizzazione del pensiero, ciò che rimane, a conti fatti, è senza dubbio Sein und Zeit, «Il più importante evento filosofico, così è stato giudicato, dopo la Fenomenologia dello Spirito di Hegel». E poi? E poi alcuni mirabili pezzi di «prosa d'arte». La filosofia come poesia. Arte e poesia come «organi supremi» del compimento della filosofia. Ma sullo sfondo rimane la complicità di un silenzio mediato (e legittimato) dall'arte e dalla poesia. Perché la ripresa del tema dell'essere avrebbe dovuto almeno affermare la responsabilità del pensiero nei confronti di tutto J.'essere. Diciamo la verità: si sposa male il rifiuto dell'«oblio dell'essere» con il tenace oblio del nazismo e dei suoi orrendi crimm1.
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