Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

pagina 32 come si sa, sono sempre stati deplorevoli. Ha ragione Lyotard quandoci consiglia di non amalgamare, come egli dice, «il pensiero héideggeriano con la sua politica», e ciò per il motivo che un «pensiero deborda i suoi contesti». Tuttavia, non è chiaro, e sembra non esserlo neppure per lo stesso Lyotard, fino a che punto questo debordare del pensiero, sia adoperabile come argomento per esimere il pensiero da qualsiasi legame con i suoi contesti. Perché una cosa è rifiutarsi di ingabbiare deterministicamente il pensiero nei suoi contesti, tutt'altra è voler renderlo assolutamente autonomo da essi. L'eteronomia pretende di spiegare tutto, l'autonomia spiega poco, e se ne vanta. La nostra è una linea di attacco che parte da presupposti diversi. Si cerca una posizione equidistante, ma non estranea alle due prima individuate. Non si tratta qui, lo abbiamo detto, di etichettare Heidegger come nazista tout court per le sue idee, ma neppure di sospendere il giudizio, come viene spesso caldeggiato, su quegli elementi della sua filosofia che s'inseriscono nella tradizione culturale sopra accennata. La distinzione può sembrare sottile, ma è importante. Io sono sempre più incline a credere nella tesi, sostenuta da molti, secondo cui Heidegger sarebbe stato, politicamente parlando, un nazista sui generis, un nazista, per così dire, avant la lettre e après la lettre. Un nazista vero e proprio, si afferma, lo sarebbe stato soltanto per 11 mesi, e cioè dal 27 maggio del 1933, data in cui assume ufficialmente il Rettorato dell'«Albert-Ludwig-Universitat» a Friburgo, al 23 aprile del 1934, data in cui, per frizioni insanabili con i funzionari nazisti, Heidegger dà ufficialmente le dimissioni dall'incarico. È la versione, diciamo, «a basso profilo» che ci fornisce il medesimo Heidegger nel testo scritto nel 1945 (Das Rektorat 1933/34 - Tatsachen und Gedanken), un testo che cerca di mettersi al riparo dalla situazione, che si prospettava per lui assai imbarazzante, di essere giudicato nazista dopo la sconfitta del Terzo Reich. Se lo scopo era questo, ossia «giustificare» il suo periodo di rettorato, si deve ammettere che si tratta di un testo piuttosto bizzarro. In realtà, egli relativizza i fatti. Non però le idee. Anzi, espone idee ancora più compromettenti di quelle già presenti nella famosa prolusione rettorale del 1933. Egli confessa, tra l'altro, che le sue fonti d'ispirazione politica erano allora, e lascia capire che lo sono ancora, i due libri di Ernst Jiinger, Die totale Mobilmachung e Der Arbeiter, in cui viene teorizzato «il dominio della volontà di potenza nell'avvenire planetario della Storia» e anche la «nuova libertà» che doveva intendersi come la negazione di ogni forma di libertà democratica. Per questa e altre ragioni, mi sembra che sia un po' azzardato dire con certezza che Heidegger fu un «vero e proprio» nazista solo per un arco di tempo rigidamente valutato in mesi. Comunque, non va dimenticato un aspetto che, seppur esaminato spesso da diversi autori, non è stato finora sufficientemente chiarito: la prima conflittualità aperta, cioè pubblica, con il Partito nazionalsocialista è indubbiamente documentata dalle sue dimissioni dal Rettorato. Ma la sua conflittualittà tende a radicalizzarsi, a diventare dissenso politico, dopo il 30 giugno del 1934, data dell'uccisione, per ordine di Hitler, di Ernst Rohm e dei suoi fedeli, della liquidazione da parte dei nazisti stessi della corrente più estremista del loro movimento. Che cosa c'entra Rohm con Heidegger? Alcuni sostengono che, per lo meno indirettamente, c'entra, eccome. Va riconosciuto a Farias il merito di aver affrontato nel suo libro questo aspetto tanto delicato quanto decisivo della figura di Heidegger politico. Per capire in tutte le sue implicazioni il legame con Rohm, è necessario ricordare che prima, durante e dopo il rettorato, Heidegger è stato sempre un conservatore tedesco ultraradicale. E tale è rimasto fino alla morte. Almeno in questo punto, occorre ammetterlo, le valutazioni e la documentazione fornita da Farias sono più che persuasivi. Sembra infatti accertato che, dall'inizio, Heidegger si identificava idealmente con l'ala più radicale del nazismo, con quella sconfitta, con quella appunto della quale Rohm, capo delle SA, era stato il leader indiscusso. _Aonor del vero, lo storico Hugo Ott ha, di recente, messo in dubbio questa interpretazione. Le coincidenze però tra Rohm. e Heidegger sono troppe, sia sul piano programmatico, sia su quello organizzativo, sia su quello politico-strategico, per non prenderle in debita considerazione. Rohm invocava un nazionalsocialismo «puro» e di forte stampo «populista»: Lo stesso, solo con una terminologia meno esplicita, faceva Heidegger.· Rohm proclamava la necessità di una vasta mobilitazione degli studenti, i quali, tramite un capillare indottrinamento, dovevano costituire una forza politica (e addirittura paramilitare) in grado di realizzare la «seconda rivoluzione nazionalsocialista», una rivoluzione che doveva salvare la prima (quella di Hitler, per intenderci) minacciata da processi degenerativi già in atto. Lo stesso voleva Heidegger, e fino al punto di fare il «commesso viaggiatore» in diverse università tedesche cercando di guadagnare adepti alla nuova dottrina. Con la sanguinosa purga del giugno del 1934, si chiude per sempre il periodo in cui gli intellettuali di destra potevano ancora avere la pretesa di essere più conseguentemente rivoluzionari del medesimo Hitler. Da quel momento in poi, non ci sarà più spazio per i «giocatori della rivoluzione» Saggi (Revolutionsspieler) come li chiamava spregiativamente Rudolf Hess. È ormai fuori di dubbio che Heidegger sia stato uno di loro. Così si spiega il suo atteggiamento disincantato a partire dal 1934, i suoi sarcasmi più o meno espliciti, durante le lezioni e i seminari, nei confronti di un regime che considerava aver ormai tradito gli ideali più alti della rivoluzione conservatrice. Il fatto che egli abbia continuato a rinnovare fino al 1944 la sua tessera del partito è irrilevante. Mi sia consentito raccontare una esperienza personale: il mio fugace incontro nel 1958 con Heidegger. Non lo faccio, mi si creda, per amore dell'aneddoto, ma perché riguarda per caso una delle «rivelazioni» di Farias. Alludo all'etnocentrismo linguistico-filosofico di Heidegger, la sua convinzione che, dopo il greco, l'unica lingua in cui si possa pensare sia il tedesco. Il mio incontro con Heidegger ha avuto luogo a Ulm (RFT), città dove ho insegnato alla «Hochschule fiir Gestaltung» per 13 anni. Era presente anche il critico e storico dell'architettura britannico Reyner Banham, ospite per una conferenza nella nostra Università. In quella occasione, io parlai con Heidegger della mia lettura della traduzione spagnola di Sein und Zeit, pubblicata nel 1951, che giudicavo eccellente. Il traduttore, José Gaos (il primo che aveva tentato l'impresa in una lingua straniera, la traduzione italiana di Pietro Chiodi è apparsa due anni dopo), aveva lavorato per molti anni, superando, come è facilmente immaginabile, enormi difficoltà. Heidegger voleva sapere per quale ragione io la considerassi eccellente. Gli risposi che il valore del mio giudizio era molto relativo perché ancora non avevo letto l'originale tedesco. Il mio giudizio riguardava unicamente il testo di Sein und Zeit in spagnolo e la mia impressione, come lettore, era molto posj_tiva, perché mi aveva consentito di apprezzare Heidegger in spagnolo. Egli mi fece notare, giustamente, che se così stavano le cose, non avrei dovuto parlare di un'eccellente traduzione, bensì di un eccellente testo in spagnolo che io immaginavo corrispondesse a quello di Heidegger. D'accordo, gli dissi, aggiungendo incautamente: almeno posso affermare, se lei concorda, che si tratta di un eccellente «Heidegger spagnolo». No, mi risp9se, un Heidegger spagnolo è impossibile. Perché? Perché su certe cose si può pensare solo in tedesco e in greco. Ma non sembrava ancora soddisfatto e volle andare oltre, precisando: ho detto «su certe cose», ma è fuorviante, perché lei potrebbe avere l'impressione, come l'ha avuta, che io volessi dire le «mie» cose. In realtà volevo dire che qualsiasi forma di «autentico pensiero filosofico» (echtes philosophisches Denken) è esprimibile soltanto in tedesco e in greco. In quel momento, mi ricordo, non presi troppo sul serio le parole di Heidegger. Forse per il tono un po' sardonico con cui furono espresse, le avevo interpretate solo come una battuta di circostanza. Ma c'è anche, credo, un'altra ragione. Richiamavano troppo alla mia memoria alcune esortazioni di genere provocatorio tipiche delle avanguardie artistico-letterarie che difficilmente· si potevano prendere sul serio. Per esempio, il famoso diktat di André Breton: «La beauté sera convulsive ou ne sera pas». Heidegger diceva, in sostanza, qualcosa di ugualmente provocatorio e ugualmente inverificabile che, parafrasando Breton, si potrebbe riproporre in questi termini: «L'autentica filosofia sarà tedesca (e greca) o non sarà». Con ,il passare degli anni, approfondendo il pensiero di Heidegger, mi è venuto in mente spesso il mio incontro con lui. E ho capito che egli non scherzava. Che effettivamente, come ha scritto in uno dei suoi libri, egli era convinto che ci sono popoli con filosofia e altri privi di filosofia. Con una ditirambica metafora di gusto letterario, per dire poco, assai dubbio, egli paragona un popolo privo di filosofia a un'aquila «senza la sublime vastità dell'etere luminoso» (ohne die hohe Weite des leuchtenden Aethers). E anche il suo scetticismo sulla possibilità di tradurre da una lingua a un'altra, l'ho ritrovato spesso nella sua opera: ogni lingua, egli dice, ha una dimora, e «un colloquio da dimora a dimora risulta quasi impossibile». Ma il più difficile dei colloqui è quello con la dimora tedesca, perché in essa per l'appunto dimora una filosofia, mentre nelle altre no. Non c'è dubbio che Heidegger privilegia ciò che Farias chiama «l'asse trascendentale ellenico-germanico», discriminando tutti i popoli e le culture che si collocano al margine di questo asse portante, secondo lui, dello sviluppo (e della tradizione) dell'uomo occidentale. Un asse soprattutto linguistico, ma che, in fin dei conti, celebra due popoli - il tedesco e il greco~ popoli superiori in quanto sono gli unici che hanno avuto il dono di parlare le uniche lingue filosoficamente fruibili. I 1meno che si può affermare è che si tratta di una visione piuttosto stravagante. A prenderla alla lettera, ci porterebbe a escludere dall'elenco dei filosofi (degli «autentici filosofi») uomini, per esempio, come Duns Scoto (la cui dottrina filosofica è stata, paradossalmente, il tema di abilitazione di Heidegger), Bacone, Galilei, Hobbes, Cartesio, Spinoza, Pascal, Locke, Vico, Hume, Rousseau, Kierkegaard, Peirce, Dewey, Mead, Tarski, Russell, Lukasiewics, Sartre, Merleau-Ponty, Quine e tanti altri. E questo senza menzionare tutti i filosofi che nell'antichità hanno Alf abeta 113 pensato, parlato e scritto in latino. E che, non si può negare, credo, hanno avuto influenza nello sviluppo della cultura occidentale. Ma il rifiuto di questa bizzarra teoria non significa ignorare certe indubbie peculiarità della lingua tedesca nel processo di espressione (o meglio di produzione) del pensiero filosofico. Non si può negare che nella lingua tedesca si constata sovente un fenomeno che solo di rado si verifica in altre lingue indoeuropee: la possibilità di compiere innovazioni filosofiche tramite innovazioni linguistiche. La possibilità, come dice François Vezin, traduttore in francese di Sein und Zeit, di inventer dans la langue. Il problema è sapere se questa duttilità lessicale del tedesco sia un vantaggio dal punto di vista della creatività del pensiero (come sostiene Heidegger) o invece uno svantaggio (come sostengono alcuni esponenti della filosofia analitica anglosassone). Coloro che lo giudicano uno svantaggio molto sovente ricorrono all'esempio precisamente di Heidegger, che avrebbe portato alla esasperazione i «gradi di libertà» della lingua tedesca, costruendo imponenti megamacchine lessicali assolutamente autoreferenziali. C'è qualcosa di vero in queste critiche. Alcuni interrogativi però rimangono aperti. Perché le megamacchine autoreferenziali di Heidegger continuano a essere per noi motivo di fascino e stimolo intellettuale? Per-· ché continuiamo a parlarne, a occuparci ostinatamente di esse, anche ammettendo, come ammettiamo, l'esecrabile posizione politica del suo inventore? Perché questi ingegnosi costrutti verbali sono eseguibili in tedesco, e tradotti in altre lingue diventano spesso non giochi, ma spericolate acrobazie linguistiche, astiose cadute di acqua senz'acqua? E poi cosa dire dei sedicenti heideggeriani che scimmiottano Heidegger in altre lingue, dando vita a caricature grottesche, distribuendo a pioggia lineette all'interno delle parole e tra diverse parole? Risposte, seppur provvisorie, a questi interrogativi vanno cercate in quell'ambito tematico sul quale, dopo la svolta del 1936, Heidegger concentrerà tutto il suo interesse: la questione attinente alla «vicinanza tra poetare (Dichten) e pensare (Denken)». È in questa ottica che si spiegano i suoi studi ermeneutici principalmente su Holderlin, ma anche su Georg Trakl, Stephan George e Gottfried Benn. Di fronte alla poesia il s~o sciovinismo filosofico entra in una contraddizione insanabile, contraddizione che non sembra, però, inquietarlo più di tanto. Se il «poetare» è una forma del «pensare», il privilegio della lingua tedesca dovrebbe valere anche per il «poetare». Ma a questo punto egli si ferma. Non averlo fatto in tempo avrebbe dovuto conseguenzialmente mettere fuori legge, dalla sua legge, tutta la poesia non tedesca di tutti i tempi. Egli finisce dunque per concedere, forse a malincuore, che altri popoli, e non solo il tedesco, possano «poetare», cioè «pensare». Lo dimostra la sua ammirazione e amicizia per il poeta francese René Char, l'eroico capitano Alexandre della resistenza contro i tedeschi, che lo porta a interessarsi. persino dell'opera di Rimbaud. È nota la disamina fatta da Carnap di un frammento di Was ist Metaphysik (1929) di Heidegger. Per Carnap, le teorizzazioni di Heidegger sul Nichts («Nulla») violano platealmente le regole della sintassi logica, non sono altro che una somma di pseudo-proposizioni (Scheinsiitze). Ma lo stesso Carnap si chiede: che cosa sono q~este proposizioni che non rispettano la sintassi logica? In quale dominio dell'esperienza umana devono essere collocate? La risposta di Carnap non lascia adito a dubbi: tali proposizioni appartengono al dominio della «espressione del sentimento della vita» (Ausdruck des Lebensgefuhls), dominio che da sempre è stato quello specifico della poesia e dell'arte, ma anche, molto prima, del mito. Hannah Arendt ritiene che nel giudizio di Carnap si nasconda un'intenzione spregiativa, di sottovalutazione culturale di tale dominio. Non è così. Nel testo di Carnap (Uberwindug der Methaphysik durch logische Analyse der Sprache, 1931) non c'è nulla che lo faccia pensare. Egli sostiene unicamente che la «metafisica», nella sua tendenza alla commistione (Vermengung) di proposizioni con contenuto empirico e pseudo-proposizioni, costituisce un inadeguato sostituto della poesia e dell'arte. L'unico metafisico, secondo Carnap, che fa eccezione è Nietzsche, perché riesce, forse per il suo «forte talento letterario», a evitare tale commistione. È evidente che la sfida che Heidegger si pone, e con prepotente spregiudicatezza, è dimostrare che tale commistione è la strada migliore per avvicinare il pensare al poetare, e viceversa, invocando così in pratica una promiscuità tra filosofia e poesia. Il che, se si guarda bene, mira a rimuovere il primato della filosofia. E qui ci troviamo dinanzi a una delle tante ambiguità rintracciabili nel pensiero di Heidegger. Da un lato, lo abbiamo visto prima, egli dice di odiare la filosofia als Beruf, l'istituzionalizzazione accademica del pensare come «oblio dell'essere»; dall'altro, si dichiara convinto, come ricorda opportunamente Rorty, che «le epoche, le culture, le nazioni, e le persone dovrebbero essere all'altezza delle domande dei filosofi, e non il contrario». Un bel riconoscimento, come s'intuisce, al ruolo dei filosofi nella storia, riconoscimento che suona celebrativo del mestiere che, volente o nolente, lo stesso Heidegger esercita: quello di «professore di filosofia». «Chi - aggiunge

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