Alfabeta 113 H eidegger-Farias. Ho letto Farias con distacco. Anche se, lo confesso, con sofferente distacco. Sofferente perché è difficile non essere sofferenti quando si è costretti a rivisitare problemi per i quali si credeva, a torto o a ragione, di esser già in possesso di plausibili risposte. Ho infatti l'impressione che il libro di Farias venga a disseppellire una controversia, appunto il vecchio «affaire Heidegger», che da decenni sembrava ormai chiusa. Una controversia, quindi, sicuramente non nuova, come non lo sono neppure gli argomenti che oggi vengono utilizzati da una parte o dall'altra. Come si ricorderà, nel 1966, François Fédier aveva preso posizione dalle pagine di «Critique» contro i libri di Guido Schneeberger, T.W. Adorno e Paul Hiihnerfeld, di forte taglio «anti-heideggeriano», apparsi pochi anni prima. Aveva così aperto un dibattito sulle questioni ora riesumate da Farias. Un dibattito per molti versi fecondo, grazie anche ai contributi di Robert Minder, JeanPierre Faye e Aimé Patri. Ecco perché le cose che Farias ci racconta, con poche eccezioni, sono cose note, anzi arcinote. E le racconta, a mio gusto, in un modo storiograficamente troppo disinvolto, isolando fatti dal contesto, azzardando valutazioni che avrebbero meritato, penso, maggiore cautela. Il che non significa che tali fatti siano inventati, ma soltanto distorti da una troppo evidente volontà dell'autore di •dimostrare, per partito preso, la sua tesi. Tesi, peraltro, almeno per me, assai verosimile, e condivisibile. Non di certo per coloro che, per partito preso di segno opposto, preferiscono ostinatamente negare i fatti. Ciò che mi stupisce è che per qualcuno, magari in buona fede, siano ancora motivo di scandalo le presunte «rivelazioni» di Farias. Ma non vale la pena di scandalizzarsi per questo ingiustificato scandalizzarsi. «Tutto fa brodo», come si usa dire, nel brodo primordiale dei media, soprattutto quando vetuste questioni, discusse e ridiscusse tante volte nel passato, vengono celebrate come dirompenti novità. Più difficile però risulta non scandalizzarsi, bisogna ammetterlo, dinanzi alle difese d'ufficio degli heideggeriani di turno in Italia e in Francia. È noto il filo argomentativo scelto per giustificare le connivenze (e più che connivenze) di Heidegger con il nazismo. In breve: si tenta di dimostrare che essere al servizio di - o dare l'adesione a - un potere dispotico repellente non infirma necessariamente la validità della filosofia professata. Tesi che, seppur temeraria, può essere sostenuta. Grottesco, oltre che inattendibile, è invece l'esempio a cui più frequentemente si fa ricorso per dimostrarla: il presunto caso Platone. Platone sarebbe stato, si sostiene, un fedele e devoto collaboratore, una sorta di «collaborazionista» dei tiranni siracusani. Il valore che noi conferiamo oggi alla sua filosofia non sarebbe minimamente sfiorato dal nostro giudizio sul suo comportamento nei confronti dei despoti del suo tempo. Un esempio, ritengo, particolarmente infelice. Intanto non si capisce perché si debba andare a trovarlo nell'antichità, e poi mi sembra storicamente più che una forzatura. Come ogni liceale sa - basta leggere Diogene Laerzio e le lettere del filosofo sulla vicenda - Platone non è stato complice, bensì vittima delle persecuzioni, non solo di uno, ma persino di due tiranni siracusani. E questo, come è noto, per i tentativi (falliti) di realizzare a Siracusa il suo Stato ideale, un modello in assoluta contrapposizione con quello sostenuto (e praticato) dai due tiranni in questione. Altri esempi sarebbero stati forse più calzanti. Penso in particolare al ruolo sfuggente di non pochi illuministi nelle corti dei «despoti illuminati» che, nella maggior parte dei casi, erano più despoti che illuminati. No. Platone non serve a questo fine. La verità è che Platone voleva andare oltre la proposta di una pura teoria dello Stato. Il suo progetto era più ambizioso: egli voleva portare nella pratica un programma etico-politico che puntava a un radicale mutamento dell'ordine vigente. Talvolta cercando, non senza ingenuità, di persuadere i tiranni a intraprendere in prima persona la strada del mutamento, talaltra contrastanpoli, come dimostra il fatto che, per attuare il suo disegno riformista, egli faceva ricorso persino al complotto, all'intrigo, alla congiura nell'entourage dei tiranni stessi. Ed è per questo che, più di una volta, Platone rischia la vita. Né va dimenticata, del resto, la paradossale e amara esperienza di vedere il suo discepolo (e complice) Dione eseguire un colpo di Stato per poi tradire gli ideali che erano alla base del programma etico-politico platonico. A ben guardare, il «caso Platone» si colloca agli antipodi del «caso Heidegger». A meno che, contrariamente a ciò che pretendono gli heideggeriani, si. voglia riconoscere la Saggi .. mancanza di autonomia del pensiero di Heidegger rispetto al nazismo, ossia ammettere (ciò che non si vuole ammettere) che nel pensiero di Heidegger ci siano elementi di un programma etico-politico che, in qualche modo e in qualche misura, siano riscontrabili nell'ideologia hitleriana. E non basta. Si dovrebbe inoltre dimostrare che Heidegger, con la sua adesione al nazismo, voleva contribuire alla nascita di uno Stato «diverso», congruo alle sue idee filosofiche. Il che, a conti fatti, starebbe a significare che egli si identificava con il Terzo Reich, in quanto credeva di riconoscere nel programma hitleriano una prospettiva rivoluzionaria. In questo modo, e solo in questo modo, il «caso Heidegger» potrebbe presentare somiglianze con il «caso Platone». Argomenti a favore di una tale interpretazione non mancano. È infatti accertato, come vedremo più avanti, che Heidegger era nel 1933 persuaso che l'avvento del nazismo in Germania segnava l'inizio di un processo rivoluzionario in Autunno - Inverno 1988-1989 corrispondenza con alcuni valori radicali della sua filosofia. Questo approccio, seppure per certi versi assai convincente, deve essere oggetto di alcuni distinguo. Non facendolo, si corre il rischio, tutt'altro che irrilevante, di identificare l'opera filosofica di Heidegger nel suo complesso con l'ideologia nazista, non soltanto nella sua impostazione programmatica più generale, ma anche concretamente con le nauseanti elucubrazioni di Rosenberg, Krieck, Goebbels e di Hitler stesso. D'altra parte, però, non va sottovalutato il rischio implicito nel tentativo di segno opposto, nel tentativo cioè di voler scagionare Heidegger per il suo nazismo con • il bizzarro (e insostenibile) argomento che il suo pensiero era assolutamente autonomo dalle sue scèite politiche, e viceversa. Ambedue le posizioni, come si sa già da un pezzo, portano a conclusioni ottusamente riduttive. Il tema riguarda nientemeno che la delicata questione dell'impatto causale delle teorie sugli eventi storici, e pertanto riguarda anche la pagina 31 non meno delicata questione della responsabilità etica individuale di coloro che sviluppano tali teorie. (E non mi riferisco soltanto alle teorie filosofiche, ma in eguale misura a quelle scientifiche, artistiche o letterarie.) Per affrontare questo tema, si dovrà necessariamente ricorrere, nel futuro, ad attrezzi di scavo meno rozzi di quelli finora utilizzati. È fuori di dubbio, a mio parere, che nell'opera di Heidegger ci sono asserzioni molto vicine, tanto a livello di contenuto quanto a quello di linguaggio, con alcune parole d'ordine (e idee guida) del movimento noto in Germania con il nome generico di «Konservative Revolution», soprattutto dell'ala rappresentata dai «Volkischen» e dai «Nationalrevolutionaren». Un movimento che, tra il 1918 e il 1932, ha avuto una grande influenza sulla nascita e sullo sviluppo dell'ideologia nazionalsocialista. (Sul rapporto Heidegger- «Konservative Revolution» si è soffermato con particolare acume Bernard Willms.) Questa interpretazione ha un certo interesse. Lascia infatti intravedere un circuito più sottile, e magari più aderente alla realtà, di quello che ipotizza un rapporto diretto tra la filosofia heideggeriana e l'ideologia nazionalsocialista. È da notare che Heidegger ha considerato sempre se stesso come un ribelle, come un innovatore nel modo di intendere il filosofare, come un anticonformista in aperto conflitto con i «filosofi di professione», in particolare con i suoi colleghi universitari che egli chiamava i «depravati professori di filosofia». In questo atteggiamento consapevolmente provocatorio, egli seguiva la breccia aperta da Husserl con la sua animosità nei riguardi dell'establishment universitario neokantiano. D'altra parte, il suo ribellismo a oltranza aveva, per certi versi, molto in comune con quello del romanticismo tedesco. Non a caso Hannah Arendt lo ha giudicato «l'ultimo grande romantico». A questo riguardo, però, va detto subito che il ribellismo si è presentato spesso nella Germania come uno «stato d'animo» culturalmente e politicamente poco affidabile. Talvolta ambiguo, sempre imprevedibile. Durante i primi trent'anni del nostro secolo, troviamo nella Germania molteplici forme di ribellismo, alcune delle quali s'identificano con le più abominevoli forme di conservatorismo. Ma qual era la natura del ribellismo di Heidegger, quali ·erano i suoi ingredienti? A dire la verità, nulla che possa giudicarsi eccezionale nei confronti della vecchia tradizione «spiritualistica» e «pangermanistica» tedesca. In Heidegger, talvolta esplicitamente (per esempio, nella sua famigerata Rektoratsrede del 1933), talaltra sommersi nei suoi passaggi filosofici più sofisticati, e anche in quelli in apparenza più esoterici, ritroviamo qua e là gli stessi luoghi comuni che hanno caratterizzato quella tradizione: i richiami alla terra, al sangue, alla vitalità, all'organico, al «paesaggio», al «Volk», alla decisione, alla virilità, al «lavoro», all'istinto, alla «nuova libertà», al potere, all'autenticità, al nichilismo, all'eccezionale destino eroico della razza, alla necessità a tutti livelli, senza escludere quello universitario, di un «Fiihrer». Questo è, di certo, l'humus che ha reso possibile l'avvento dell'ideologia del nazismo. Ma le radici, sia chiaro, sono più antiche del nazismo. Come ha fatto notare Habermas, «il problema degli intellettuali fascisti si pone innanzitutto come il problema della preistoria del fascismo». Diciamolo pure: se frequentare i magniloquenti (e tragici) luoghi comuni sopra elencati bastasse per definire qualcuno nazista, molti dei filosofi, poeti, artisti e romanzieri degli ultimi due secoli di storia tedesca dovrebbero essere considerati nazisti. Il che non è sostenibile. La cosa più importante da stabilire non è tanto dunque se Heidegger sia stato un nazista nel senso stretto del termine. Il che conduce fatalmente a una sterile indagine sui documenti e controdocumenti che lo provano o meno. (Vedasi per esempio il libro di François Fédier, appena pubblicato in difesa nuovamente di Heidegger - questa volta contro Farias.) E ssenziale invece è sapere in quale misura il pensiero di Heidegger si inserisce in quella tradizione che ha reso possibile il nazismo e tutti i suoi mostruosi crimini. E questo non è un ritorno alle ardite «genealogie dei buoni e dei cattivi» di luckasiana memoria, alla cui base c'era la convinzione che le idee filosofiche sono sempre (e comunque) allo stesso tempo idee politiche, ossia che c'è sempre (e comunque) la possibilità di una lettura in chiave politica delle idee filosofiche. Metodo peraltro utilizzato, come ricorda Otto Poggeler, dallo stesso Heidegger (!) quando intravedeva nella filosofia di Carnap «un rapporto, tanto interno come esterno», con realtà extra-filosofiche da lui considerate in quel momento «odiose» come il «comunismo russo» e l'America. È un metodo questo i cui esiti,
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