Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

Alfabeta 113 A più voci pagina 31 Taccuini La cosa è la marca L a cosa è il problema del pensiero del moderno. Lo ha mostrato Heidegger in uno dei suoi testi più tesi e importanti, intitolato appunto Die Frage nach dem Ding (La questione della cosa; o meglio: la domanda che insegue la cosa). Lo ha mostrato Benjamin, che della redenzione delle cose dal loro essere mute ha fatto il compito del suo pensiero e della sua vita. Lo hanno mostrato i grandi scrittori, da Proust a Becket, al Calvino di Palomar, che si sono scontrati contro la sostanziale ambiguità e opacità delle cose. I «nuovi narratori» italiani hanno trovato una via d'uscita, e la percorrono trionfalmente. Ha iniziato Daniele Del Giudice, che ha dichiarato la sua passione per i manuali per l'uso delle cose, che ci permettono di definirle, e dunque di circoscriverle e tradurle in un orizzonte nuovo e concreto. Lo stesso Del Giudice ha celebrato la capacità di Arduino Cantafora di parlare non del selciato delle vie, ma dei «cubetti di ardesia»; non di un ascensore, ma dell'ascensore Stigler. Ora il discorso si fa più stringente nel dialogo («Il Manifesto», 3-4 luglio 1988) fra Severino Cesari e Mario Fortunato (autore di una serie di racconti F inché il lavoro letterario sarà svolto da uomini, con tutta la loro dotazione di bisogni e di appetiti, è inevitabile che la storia della letteratura continui a possedere postille che riguardano i problemi economici degli autori. Sono oramai famosi, e fanno parte del mito del personaggio, i debiti di Balzac e D'Annunzio, la rovina al giuoco di Dostoevskij, la ricchezza consolidata dell'ultimo Hemingway. Quanto precede deve suonare un po' come giustificazione per la scelta di un argomento che strettamente letterario non è, ma ha comunque con questa antica e discussa attività rapporti non casuali, e può quindi essere ospitato su queste pagine e non su quelle, poniamo, del «Financial Times». All'origine di tutto, diciamo subito, c'è lo sdegno. Avviene che un diffuso periodico di attualità automobilistiche, pubblicato fra l'altro dal più grande editore italiano, ospiti una rubrica di collaborazione èlei lettori:' sono «storie vere» che hanno come tema fisso, naturalmente, l'auto e la guida. Va detto subito che si tratta di componimenti di una banalità sconcertante, e che anche sulla loro autenticità io credo si possa nutrire più di qualche dubbio. Ebbene, il compenso previsto per questi puerili pezzi è di L. 1.262.250, è cioè (cito testualmente) pari a «quanto mediamente spende in benzina in un intero anno l'automobilista medio». L'importo- è circa quatFranco Re/la molto belli presentati anch'essi da Del Giudice per Einaudi). Scrive Severino Cesari: «Un paesaggio interiore pieno di parole come 'ecografia', una 'Ritmo azzurra'. Parlarne, dileggiare un poco gli italici vezzi del bello scrivere senza mai nominare gli oggetti». Cesari sa, certamente, che questa accusa agli «italici vezzi» ha una storia: è l'accusa che Giovanni Pascoli aveva rivolto a Giacomo Leopardi. Mario Fortunato non ci_pensa, «a giudicare dal sorriso», e infatti, dopo le parole di Cesari, «perfino riprende» a dire che in America nessuno sale su un'automobile, ma su una Oldsmobile, «e nessuno 'fuma sigarette' piuttosto fuma Lucky Strike ... come me. Il romanzo italiano ha come paura ad affrontare gli oggetti nella loro nudità. Molti oggetti nel nostro mondo, nella loro nudità, hanno nomi che sono marche, marchi. È naturale per me scrivere una 'Ritmo azzurra' ... », «... non una 'Fiat', sarebbe ancora astratto ... ». «Appunto. Mi sembra quasi un dovere chiamare le cose». La cosa nella sua nudità, nella sua verità, è dunque la marca. Ricordo anch'io che Mike Hammer, nei romanzi di Spillane, fumava solo Lucky Strike. Qualche sospetto, Taccuini .. che questo uso non fosse una maggiore prossimità alla verità delle cose nel mondo, a me era venuto nella mia prima adolescenza, quando leggevo due belle collane: «Il giallo» e «I libri che scottano». Lì il protagonista, di ogni libro, anche di autori diversi, beveva sempre vermouth Cinzano. Dapprima ebbi un moto di orgoglio nazionalista. Il sospetto nacque quando mi capitò di leggere questi libri nelle versioni originali: i protagonisti bevevano, con maggiore probabilità, del bourbon senza marca! Il sospetto per questa sorta di teologia salvifica delle cose nel loro marchio si è approfondita proprio a contatto con una tradizione tutta italiana. Ripensiamo ai film italiani degli anni Settanta. Il protagonista non fumava mai una sigaretta, ma sempre Marlboro, con il pacchetto rosso sollevato quasi esibisse il simbolo della croce. Non accendeva mai la televisione, ma sempre una Brion Vega. Saliva sulla 132 metallizzata, per inseguire Stefania Sandrelli che sgommava con la Ritmo rossa. Chiamare le cose con il loro marchio, non pare dunque la rottura con la tradizione degli «italici vezzi del bello scrivere», quanto piuttosto inserirsi in una tradizione in cui storievere tro volte quello che qualsiasi scrittore italiano, fosse pure insignito del Nobel, potrebbe aspettarsi per la collaborazione a qualsiasi prestigiosa rivista culturale. Perciò io non credo che si debba esitare a usare il termine «scandalo». Solo apparentemente la situazione è la stessa dei vari quiz televisivi, nei quali impiegati e casalinghe vengon osannati e resi milionari per aver saputo indicare, non senza esitazioni, l'autore dei Promessi sposi. Qui l'alternativa non c'è, perché sarebbe inimmaginabile un quiz per professionisti delle varie discipline; il dilettantismo è d'obbligo. Si potrebbe moderare le cifre, ma c'è il problema dell'audience: lo spettatore, è dimostrato, si appassiona di più al giuoco se la posta è grossa, e non per la speranza più o meno confessata di poter un giorno partecipare e vincere a sua volta, ma proprio per una sorta di mentalità sportiva, di condizionamento psicologico, che attribuisce valore alla gara in proporzione alle dimensioni della posta in palio piuttosto che all'exploit dei concorrenti; come, ad esempio, una partita di Serie C potreb- • be in teoria essere giuocata meglio di una di campionato del mondo, ma non potrà mai ricevere lo ·stesso interesse. Ora, questa esigenza non si presenta nel caso della pubblicazione in esame, non esistendo una gara dichiarata fra i partecipanti. Non si vede quindi come possa giustificarsi la sproporzionata entità del compenso; non come esca per i potenziali collaboratori, perché un terzo o un quarto della cifra costituirebbe già un richiamo sufficiente per dei dilettanti, dal momento che lo è per qualunque anche affermato scrittore di professione; non per i lettori perché solo una minima parte di loro aspirano a collaborare. Resta solo l'ipotesi di un fenomeno di spreco e di malcostume. Va aggiunto che lo stesso settimanale dispone anche di una rubrica in cui un narratore italiano non fra i peggior né fra i più sconosciuti pubblica suoi brevi Autoracconti, che non sono cose di grande rilievo ma hanno comunque quel quid che fa la differenza rispetto al puro dilettantismo; è abbastanza evidente, e vorrei sbagliarmi, che il compenso per questa collaborazione non raggiunge i livelli delle citate «storie vere». Il suggerimento che a questo punto scaturisce dalla vicenda è del tutto ovvio: visto che il dilettantismo è premiato, l'autore di racconti, sempre alle prese con problemi di sopravvivenza o almeno di legittima resa economica del suo lavoro, si celi sotto le mentite spoglie di un dilettante, si finga operaio, pensionato, casalinga, trasformi le sue fantasie in pseudoverità, e collabori. Nessuno si accorgerà del trucco, perché, e questo i redattori del settimanale forse non lo sanno, nessuna storia sembra più ·vera di una inventata da chi sa inventare storie. il mercato ha cancellato ogni traccia di ambiguità e di mistero dalle cose. Novalis diceva che il regno del poeta è il cuore, il centro focale del suo tempo. Il centro focale del nostro tempo è certamente nello sguardo nuovo che portiamo sulle cose materiali e sulle cose immateriali, che determina una de-situazione atopica (uno stiramento) rispetto agli spazi percettivi in cui abita la nostra esperienza abituale del mondo. Affrontare questo spazio in termini banalmente tecnologici, trasformando la lettura del mondo nella lettura dei logotipi pubblicitari delle cose che abitano il mondo, mi pare quasi tentare di restituire lo «spirito del tempo» degli anni Sessanta con una canzone di Mina a sottofondo, o degli anni Ottanta con l'amplificazione del fruscio del proprio Persona! Computer, anzi del proprio Olivetti 240. Autunno Inverno 1983-1984

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