Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

Alfabeta 113 del moderno, le sue deviazioni. All'inizio di tutto questo sta non tanto Hegel (attento sì ai cominciamenti ma anche ben consapevole del carattere dialettico del movimento dello spirito, del fluire impetuoso del «corso del mondo» verso il moderno), quanto l'hegelismo senza dialettica e senza storia che contraddistingue una parte notevole della filosofia contemporanea, specie in Germania. È dunque naturale che l'analisi di Cambiano si scontri, su questo terreno, con il pensiero di Heidegger e con quello che egli definisce «il classicismo animistico» di Gadamer. Cambiano mostra come in Heidegger il nesso costitutivo della tradizione filosofica - dunque tout court della scena dell'essere - sia quello greci-tedeschi, dove ai greci tocca il luogo dell'origine e dunque dell'essenza, da cui tutto il resto è segnato. Ma c'è inoltre, secondo Heidegger, un equivoco sull'origine. Ciò che ha prodotto la tradizione occidentale, compiutasi in Hegel, non è il «principio originario», ma la «fine principale» della filosofia greca, cioè l'epoca della metafisica di Platone e di Aristotele. Alle sue spalle, occorre ricominciare da quella purissima origine - i presocratici, Parmenide ed Eraclito in primo luogo - per giungere, oltre a Hegel e alla metafisica, a un nuovo compimento, quello heideggeriano, che riapre il pensiero dell'essere. Cambiano nota giustamente due effetti singolari di questo Primavera - Estate 1988 Cfr atteggiamento di fronte alla tradizione (oltre a quello ben noto di ridurre la filosofia a un destino greco, per il passato, e tedesco per il presente, con la non innocente conseguenza di consegnare il popolo tedesco a una sua destinale vocazione alla verità). In primo luogo, l'attenzione per la tradizione non è mai rivolta in Heidegger ad argomentazioni o a sequenze di argomentazioni (che sono già metafisica), ma a «detti» enigmaticoprofetici, a frammenti o schegge di verità, il cui precario senso è tutto disponibile all'interprete; oltre il «detto», risulta ancor più importante la singola parola rivelativa, che viene scavata in se stessa con il ricorso all'etimologia come la via di accesso più diretta al filone di verità celato nei visceri della tradizione. Non importa che le etimologie heideggeriane siano più o meno scientificamente corrette; sorprende piuttosto che esse siano chiamate a un ruolo direttamente fondativo. E allora Cambiano non può che rilevare come Heidegger non esiti a ricorrere all'etimologia di parole latine (come nel caso di pro-ductio=Her-vor-bringen), laddove quella greca corrispondente non regga a questo ru~lo fondativo, senza per questo mettere in dubbio il primato del sistema greco-tedesco quanto al pensiero della verità. Il secondo effetto è un restringimento dell'ambito della tradizione, di ciò che possiede una Wirkung, che risulta direttamente proporzionale al valore assegnato alla tradizione stessa. Se Platone e Aristotele sono già una «fine», tutto ciò che vien dopo di loro non appartiene naturalmente a una tradizione di tal fatta. Questo non sorprende tanto per le filosofie dell'ellenismo, che pure molti filosofi hanno considerato non spregevoli; ma colpisce soprattutto per la censura e l'oblio di cui è vittima il neoplatonismo, in cui Cambiano ravvisa a ragione il «protagonista occulto» delle filosofie dell'origine e dell'essere. Perché questa censura e questo oblio? Richard Rorty ha osservato che Heidegger ha scritto la storia dell'essere basandosi sui testi indicati nei programmi di filosofia tedeschi all'inizio del secolo, facendo dunque coincidere questa storia con il «syllabus» universitario. Ma si potrebbe anche supporre che questa filosofia della storia abbia inoltre un rapporto con gli autori che la scolastica cattolica ha consegnato al proprio repertorio, fra i quali Plotino non ha mai trovato, a causa della dominanza tomista, diritto pieno di cittadinanza. Tutto questo viene sistematizzato, con minor forza suggestiva e speculativa, da Gadamer, cui si deve, secondo la ben nota espressione di Habermas, !'«urbanizzazione della provincia heideggeriana». Cambiano definisce «animistico» il classicismo di Gadamer perché la sua ermeneutica punta a una comprensione diretta (evocativa) del testo antico, senza alcuna mediazione storica né interposizione di distanze critiche. Ma soprattutto interessanti sono i due punti centrali della posizione di Gadamer: il primo, antistoricistico, insiste sulla necessità di prendere sul serio la pretesa di verità del testo antico, istituendo un circolo ermeneutico che mette direttamente interpretato e interprete di fronte alla «cosa stessa» e alla sua verità; il secondo, antilluministico, consiste nell'esigenza di un ripristino di una cultura della tradizione, intesa come continuità e conservazione. L'ermeneutica gadameriana si pone così come un netto rovesciamento di quella ottocentesca di Schleiermacher: se qui si poneva l'esigenza di estendere ai testi sacri le stesse regole interpretative di quelli profani, per Gadamer viceversa si tratta di considerare l'antico alla stregua del sacro, e - come scrive Cambiano - «il modello di ogni evento ermeneutico diventa la lettura della Sacra Scrittura» (p. 52). Ma la potenza veritativa della tradizione implica che essa risulti compatta, non conflittuale: di qui selezioni pesanti nel suo ambito, che portano a considerare privi di Wirkung, quindi puri detriti, filosofi e pensieri (come gli stoici e il neoplatonismo) non riducibili alle grandi linee già tracciate da Heidegger (presocratici-Aristotele-Hegel); noto di sfuggita che in Gadamer c'è una vittima ancor più illustre di queste selezioni, niente meno che Kant. Non è qui possibile soffermarsi sulle analisi che Cambiano conduce su altre posizioni di pensiero, pure assai interessanti: per esempio il fascino esercitato dai presocratici su un empirista come Popper; o l'approccio idealistico agli antichi in cui anche pensatori di orizzonte marxista come Bloch e Mondolfo finiscono per incappare a causa della loro visione continuista e anticipatoria del passato classico; o infine lo strano classicismo di ritorno dell'ultimo Foucault, di cui. ho già parlato anche su questa rivista. Basterà ribadire _ilpunto centrale per il quale il libro di Cambiano risulta tanto convincente quanto benvenuto: la critica alla pretesa di trasformare il passato in tradizione, e di assegnare a questa (in fondo alla maniera medievale) un ruolo fondativo e veritativo. Tutto ciò non contribuisce, in buona sostanza, né a comprendere meglio il passato né a fare una migliore filosofia; produce invece l'effetto di immaginare un passato troppo vicino al presente, e un presente troppo vicino al passato (quindi anche troppo lontano dal futuro). «Du passé faisons table rase», dunque, come si chiedeva Chesnaux? Porremo mano ancora una volta alle borgesiane pistole? Non proprio, dice Cambiano. Il passato mantiene un suo interesse non pei: la sua vicinanza d'origine ma per la sua distanza, non per la sua presenza ma per la sua alterità. I filosofi greci ci interessano perché sono filosofi, perché sono greci, ma soprattutto perché sono filosofi greci, con tutta la differenza che questo comporta rispetto a noi. Non nascondo che questa giusta richiesta di Cambiano può produrre un'impressione sbagliata, che credo però estranea alle sue inten~ zioni: che si debba cioè contrapporre alle pretese verità delle intemperanti letture filosofiche, con la loro assimilazione della tradizione, la più autentica e imparziale verità dell'interpretazione storico-filosofica, quasi che «un'analisi paziente dei testi» antichi (p. 94) fosse una chiave neutrale e onnipotente di lettura. Se il libro può dare questa impressione di un ingenuo richiamo alla neutralità filologica, è forse perché esso manca deliberatamente di un punto di vista positivo, di una concezione del senso del lavoro storiografico estranea sia alle ideologie della tradizione sia a quelle filologiche. Distanza e differenza significano mutismo, assenza di senso? Che pagina 27 cosa significa fare storiografia, e storiografia filosofica? Vecchi quesiti, certo. Ma dar loro risposte troppo deboli (un po' filologisticne, un po' empiristico-illuministiche), lascia il campo tutto libero a quei dubbi ritorni dei quali Cambiano ci invita a diffidare. Temo proprio che quel quesito gli stia, e ci stia, ancora di fronte. Giuseppe Cambiano Il ritorno degli antichi Laterza, Bari-Roma, 1988 pp. 174, lire 20.000 Il mito Van Gogh Giovanni Bottiroli I l sacrificio, dice Bataille, implica un'alterazione radicale della persona: una rottura dell'omogeneità abituale, una proiezione violenta e dolorosa di una parte di sé. Sulla base di questa definizione, e considerando che «la pratica del sacrificio va scomparendo sulla terra», c'è da chiedersi per quali motivi l'opinione pubblica stia tributando un omaggio incondizionato a Van Gogh, cioè a uno degli artisti moderni più contrassegnati dalla tematica (e dall'esperienza) sacrificale. Senza voler intervenire direttamente in questo problema, l'editore Lubrina ripropone due splendidi saggi, firmati da Bataille e da Artaud, in cui si potranno trovare elementi insostituibili per comprendere sia l'eterogeneità - l'eccesso - della vicenda di Van Gogh sia i tentativi, anche recenti, di normalizzazione. Non si creda però che in queste pagine l'analisi del linguaggio pittorico di Van Gogh sia indebitamente sopraffatta dal pathos del martirologio. Il dato più interessante è semmai la combinazione di questi due aspetti, cioè l'allargamento di prospettiva che entrambi gli autori hanno ritenuto necessario. Bataille (La mutilazione sacrificale e l'orecchio reciso di Vincent Van Gogh, 1930) ricorre agli strumenti dell'antropologia, della mitologia, e· in maniera assai cauta a quelli della psicanalisi: infatti non intende psicanalizzare un autore già sommerso dalle diagnosi mediche, bensì far evaporare i dati di una nosologia miope proiettando Van Gogh sullo sfondo di un'istituzione «così universalmente umana come il sacrificio». L'orecchio tagliato, e inviato a una prostituta, non è più da intendersi come un «surplus» biografico che •contribuisce alla «spettacolarizzazione» dell'artista maudit, bensì rappresenta una via d'accesso alla peculiarità dell'opera. Così «il sole non appare 'in tutta la sua gloria' che nel 1889 durante il soggiorno del pittore al manicomio di Saint-Rémy, vàle a dire dopo la sua II)utilazione». Ed è un sole che Van Gogh/Prometeo staccò da se stesso, per farlo entrare nelle sue tele non «come una parte sullo sfondo, ma come lo stregone la cui danza agita lentamente la folla e la trascina nel suo movimento». Quando ad Artaud, il ·suo scritto è più infiammato ma forse più lineare nell'argomentazione di fondo rispetto a quello di Bataille. Van Gogh suicidato dalla società (1946) è un implacabile atto d'accusa contro la psichiatria, la quale avrebbe «provocato e creato di sana pianta la malattia per darsi una ragion d'essere». Da sempre nella medicina soffia il vento di un'invidia inestinguibile contro tutto ciò

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