Alf abeta 113 Gianfranco Ciabatti Roberto Bugliani V arato come prìmo volume delle edizioni di Contraddizione (altri titoli annunciati nella colonna «transizioni»: Pierino e il lupo. Per una critica a Sraffa dopo Marx di Gianfranco Pala e Poesie di Mauro Marrucci) che si affiancano al bimestrale omonimo iniziato nel luglio dello scorso anno, Prima persona plurale di Gianfranco Ciabatti, che reca come sottotilo la dicitura «Non-poesie civili o refutabili 1959-1988», è libro che definirei di primo acchito intrigante più che accusatorio o scomodo. Innanzitutto per il percorso umano e intellettuale che questi versi non soltanto delineano ma ri-percorrono in compagnia del lettore muovendosi all'interno di un territorio le cui coordinate politiche e culturali riflettono trent'anni di storia italiana. Ed è un percorso, questo, dalla direzione familiare, da prima persona plurale appunto, che altri forse non mancheranno di trovare «perturbante», almeno secondo la lezione freudiana che individua nel perturbante il familiare rimosso. In secondo luogo, intrigante è lo stile di questo percorso. Stile inteso quale impasto di metrica e biografia a un tempo, per dire con il titolo di un articolo fortiniano, come testimonianza scandita su registri linguistici duri e compatti, come insistenza modulata in timbri secchi e tesi, e razionalmente condotta con taglio concettuale arduo ed essenziale come certe poesie («aforistiche») chariane. Schegge, insomma, proiettili che non mancano il bersaglio, e tanto più hanno effetto devastante quanto più si va oggi diffondendo quella cerimonia gioiosamente funebre con cui certi reduci ravveduti hanno voluto commemorare il «ventennale». E intriganti, per dire in breve, sono queste poesie perché si intromettono, con il peso del loro intrigo, nella nostra vita, in un tempo in cui succedanei e ipotesi consolatorie sono ovunque di casa. Ora, questo intrigo altro non è se non la memoria storica, la quale da più parti si vorrebbe affidare alle esegesi dei tribunali o dei verbali di polizia, o ancora costringere «tra le formule di moda», per dire con un verso di Di qua dal podio. Memoria come «nostra sapienza», dunque, come «musica sapienza», anche, che trae da «questa cassa armonica di corpo», «suoni e analisi da immettere / nelle paralisi della rivoluzione» ( Per essere a posto contro il nemico). E tale «commistione» di ragioni pubbliche e private, siffatto intreccio (è un modo dell'intrigo) di corpo e di significato (di natura e storia), questa istanza di «molteplicità» nel contempo biologica e sociale (che, per dire con Dichiarando le generalità, ha a che fare col bambino, il poeta e il rivoluzionario, «se tre.siano, e non uno»), è la sostanza in cui i versi di Prima persona plurale affondano le proprie radici. Ma che significato possiede questo «noi» che sin dal tito- _lo occupa un posto di prima linea e nelle vicende del libro? Fin da subito si capisce che esso si pone come il contrario dell'escamotage retorico proprio d'un pluralis maiestatis che identifica la grandezza del soggetto con la grandezza del1 'ornato, a sua volta identificando in formule di rito la «verità» del dettato. «A nature eminenti domando I che eleggano di essermi affini». Altrimenti, ha scritto Ciabatti in Necessario o sufficiente, «mi basta di eleggere ciò che rimango: / affine agli ignoranti, / compagno dei nontenenti». Di un «noi» a duplice valenza si tratta; per un verso esso richiama la coralità propria del canto o della canzone popolare, della parola e del gesto collettivi; è il «noi» di coloro che non sanno o non possono di sé e per sé affermarlo: Mentre per l'altro riflette una marginalità o, per meglio dire, una emarginazione, quella propria dei «miei simili sparuti», di «Noi, bastardi seguaci della scienza dialettica» (Intifada), i pochi che da sempre «lungo gli evi» ricordano: «questo per primi I noi lo abbiamo annunciato» (La concezione materialista della storia). È, per dir così, il «noi» d'un sogno, il sogno d'una causa che tutto farebbe presumere perduta, come ha scritto Fortini, se non se ne vivesse la quotidiana insistenza e proprio nei luoghi dove più plausibile apparirebbe il suo dissolvimento. Ed è, per Ciabatti, insistenza di una lotta sentita come esigenza vitale, necessità quasi biologica: «se non lottiamo ci fanno fuori» (Rime postume), avvertita sempre e comunque e mai giocata su toni nostalgici o patetici: «tempi duri e sconfitte non tolgono appetito / al buonumore della lotta» (Rientro anticipato). Ma, va a questo punto detto, alla prima persona plurale fa da contrappunto strategico (e, direi quasi, inevitabile) nel pensiero e nella poetica di Ciabatti la sua assenza o, meglio, la sua mancanza. In un suo scritto teorico, breve ma puntuale (Del mangiare il «pane» senza pane), egli pone in attacco del suo ragionamento un grumo di questioni: «che cosa io voglio dire a te, io a voi? (o il reciproco) - che cosa tu comprendi, voi comprendete? (o il reciproco) - che cosa egli comprende che io ti ho detto, vi ho detto?». Ora, non a caso in questo défilé di pronomi manca proprio quello di prima persona plurale. Perché in queste domande e nel loro svolgimento, parole pronunciate contro una certa concezione nominalista della letteratura, a ristabilire priorità e a misurare divergenze, stanno riflessioni di parte (e per la parte, qui, in gioCfr • oes1a co) nella lotta per l'affermazione della verità di cui il «noi» si ri-approprierà, di questa cioè come di altre critiche delle cose. P~rtanto la lotta teorica è dichiarata nella sua fase soggettiva, di contrapposizione che pure tenta il necessario raccordo «linguistico» tra io-tu-egli e voi, preludio alla fusione nel «noi» razionale e comunicativo o, in una parola, poetico. Riferita alle cose letterarie, questa mossa mette in temporanea quiescenza il problema del «bello» giacché compito prioritario è, secondo Ciabatti, stabilire il «che cosa» della comunicazione. E che questa «comunicazione» non sfoci in una storia di habermasiana intesa unificante senza contraddizioni, senza contraccolpi e senza lotte è ciò che non solo l'articolo di Ciabatti, ma i suoi stessi versi non si stancano di dire. Dopodiché, dopo aver cioè analizzato «la prima metà del bello» (o momento necessario dell'interpretazione) viene il lavoro di illuminazione. della zona d'ombra in cui si annida «l'altra metà del bello» (o momento sufficiente). Zona oscura che Ciabatti non si stupirebbe, per la sua pagina 21 frequentazione dei pensatori materialisti di questo secolo, di scoprire abitata da cose orribili su cui l'altra metà del bello si erge come su di un piedistallo. Così, come per i grattacieli di Manhattan che, scriveva Brecht, «visti al crepuscolo mozzano il fiato, ma non possono far gonfiare il petto» (e oggi dietro a essi vediamo come in trasparenza erigersi le macerie di Beirut o le favelas di San Paolo), anche per la poesia vale la stessa presa di distanza critica, l'altra faccia del piacere estetico. «Quante rose a nascondere un abisso!», esclamò già un poeta raffinato come Saba interrogandosi nel trapasso, per dire con Baudelaire, dall'horrible in beauté. E se si tratta, ancora una volta, di riseminare «il cibo che non sfama» da Uomini di buona volontà, almeno si abbia consapevolezza delle «cifre dei nostri deficit», per dire ancora con Ciabatti, sapendo che in prima persona plurale «le letterature saranno esaminate», come si annuncia in esergo a Codicillo per poeti scontrosi. Mentre per quanto è dello specifico, per quanto attiene cioè alla verità ·della poesia, vorrei concludere citando i versi conclusivi del libro che non a caso non hanno titolo proprio, ma prendono il titolo dall'incipit: «Scrissero i poeti in ogni tempo: / Ecco il tempo degli assassini. / E così gli assassini dei poeti I in ogni tempo andarono sicuri». Gianfranco Ciabatti Prima persona plurale Roma, Edizioni Contraddizione, 1988 pp. 104, lire 7.000 Primavera - Estate 1987 Nozze pagane Alberto Cappi B landizie, lusinghe, preparativi, schermaglie, azioni, se sono gesti che avviano e corredano l'incontro amoroso, se testimoniano il rito di senso e la distribuzione dei nuclei del racconto, in nozze pagane approntano e festeggiano quella cerimonia che altro non è che l'atto di parola. Il linguaggio, Gio Ferri lo sa bene per pratica assidua di sperimentazione intercodice, consegue una parola il cui viaggio è inteso al riconoscimento della coscienza poetica, al precisarsi nell'intenzione dell'autore, mentre si fa tra testo autorale e testo scritturale, slittan-
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