Alfabeta 113 bra fare buona parte della critica. Ella ha ricordato, fra l'altro, come l'interesse di Miiller per i materiali mitologici sia dovuto al fatto che gli antichi miti contengono le prime formulazioni di esperienze collettive. A questo proposito, bisogna sottolineare che il rapporto di Miiller con i materiali mitologici e con autori classici come Shakespeare è quello di un vampiro che ne succhia continuamente il sangue. Lehmann ha sottolineato che i drammi di Miiller sono vere e proprie cave di pietra, nelle quali Visioni postmoderne Giuliana Bruno L a mostra di architettura Postmodern visions, in visione attualmente al Phoenix Art Museum in Arizona e recentemente a New York, tratta del postmoderno dal 1960 a oggi, nelle sue svariate forme, dal moderato all'estremo, di ribellione al modernismo, a uno stile astratto che aveva dato una facciata internazionale agli edifici, definendo la forma in relazione alla funzione, dimentico di specificità geografica e soprattutto di storia. La mostra esamina la reintroduzione e reinterpretazione delle diacronie della storia nell'arte dello spazio. Postmoderno è un concetto diventato così vasto da chiedersi quali ne sono i limiti e se si possa continuare a definirlo come ciò che non è: ciò che non è modernismo è poi tutto postmoderno? Diversa, per esempio, è la visione degli architetti americani, per i quali un gesto di reazione al modernismo è far largo uso di elementi decorativi, da quella del neo-razionalismo tedesco e italiano dove le geometrie pure e le forme primarie giocano invece ancora un ruolo essenziale anche se investite di significati rispetto alla storicità del territorio e della tipologia. In ogni caso, un comune denominatore è quello che l'architettura non è più tanto «funzione» quanto «finzione». Questo concetto si ritrova espresso in questa mostra a vari livelli. È presente, ad esempio, nel lavoro di architetti americani come Charles Moore, la cui teatralità solare tende a lasciar parlare anche e soprattutto gli scarti e persino le minuzie superflue attraverso cui uno spazio assume specificità e si racconta. L'importanza della rappresentazione, la visione dell'edificio come veicolo di significazione più che semplicemente costruzione che funziona in senso pratico da «tetto» è l'asse portante del lavoro pratico e teorico di Robert Venturi; dagli anni Sessanta in poi Venturi, «imparando da Las Vegas», ha dato importanza alla facciata e alla decorazione. Erede di Moore e Venturi è il gruppo newyorkese SITE, che significa scultura nel territorio, il gruppo che per così dire «de-architetturalizza», e di cui sono tipiche le facciate come erose dal tempo o che sembrano danneggiate da terremoti. La mostra presenta anche tendenze diverse e non assimilabili alle precedenti nel discorso americano. Vi ritroviamo il percorso di Philip Johnson che attraversa tutnon si trova la risata liberatoria, quanto piuttosto una malvagità diffusa dalla quale si effonde energia; inoltre vi si possono trovare il desiderio del paradosso e la voglia della catastrofe, filo rosso che percorre tutta l'opera miilleriana («Per me scrivere drammi significa distruggere delle cose», oppure «Io credo alla quarta guerra mondiale»). Le trasmissioni video hanno offerto allo spettatore una panoramica sull'opera di Miiller; fra esse si poteva vedere la messa in scena e to il modernismo fino al postmoderno; dalle architetture moderniste, Johnson si evolve ad esempio con il grattacielo newyorkese del1' ATI, verso il recupero di forme storiche e storiografiche e di materiali in pietra. Il gruppo «New York Five», è rappresentato nel suo percorso di individuazione e gioco con le forme: Michael Graves è infatti presente con i suoi dipinti murali, che si incorporano al progetto di architettura come rappresentazione; di Peter Eisenman si nota l'interesse per il processo in sé del disegno architettonico, per il disegno puro, gioco speculativo e non meramente costruttivo, ironicamente firmato Eisemanamnesia; la visione di Eisenman si ritrova in modo ancora più radicale nei «progetti» di John Hejduk che distingue e dà autonomia al disegno rispetto al suo possibile referente reale, spesso completamente inesistente. Le citazioni, moderniste e non, del gruppo Chicago Seven, riaffermano l'architettura come arte. Queste ultime tendenze rivelano quello che mi sembra il centro dell'interesse che si ritrova in queCfr di Der Bau (Il cantiere) alla Volksbiihne di Berlino est, il 4 settembre 1980, sotto la regia di Fritz Marquardt. L'importanza di _questo dramma è soprattutto di carattere storico; infatti esso era stato commissionato a Miiller dopo un lungo silenzio a causa della censura. Il cantiere fu discusso e attaccato dall'll • assemblea plenaria del comitato centrale del SED e fu messo in scena soltanto nel 1980. Miiller e il regista Marguar.dt - un uomo piccolo e magro dall'aspetto dimesso e trascurato, con una coppola blu e due baffoni grigi - hanno parlato di quella "loro cooperazione, non risparmiandosi le frecciate al regime. Miiller ha ricordato come non avesse alcun interesse a scrivere un dramma sulla situazione dell'operaio, d'altra parte però, quella era l'unica possibilità per ricominciare a lavorare nella DDR. La messa in scena fu interpretata da molti come una provocazione, soprattutto per il fatto che, fino ad allora, i lavoratori erano sempre stati presentati seguendo dei canoni prestabiliti, ostre sta mostra: il disegno architettonico assume status testuale, diventa una forma di espressione artistica autonoma, da articolare e godere di per sé, prescindendo del tutto dal suo legame con la realtà o la realizzazione dell'edificio. La perdita del referente e l'enfasi sulla rappresentazione autonoma legano dunque il postmoderno in arPrimavera - Estate 1987 chitettura alla condizione postmoderna in toto. Visti come puri segni e disegni, piuttosto che pensati come edifici reali o potenzialmente reali, queste rappresentazioni mostrano tutto il gioco complesso e ambiguo della «finzione» architettura. Il rendering diventa protagonista e si contempla qui la bellezza delle forme. Spiccano in questo senso i disegni degli italiani, tra cui Aldo Rossi, e le purezze formali dei giapponesi. L'architettura giapponese esposta alla mostra spinge agli estremi il rapporto tra rappresentazione e utopia, che si ritrova anche nei disegni di Ettore Sottsass e del gruppo OMA. Le note ardite fusioni di Occidente e Oriente di Arata Isozaki e i progetti distopici di matrice postindustriale di Shin Takamatsu presentano visioni utopiche e deliranti decisamente proiettate verso il fantastico, il fantasma psicoanalitico e il «post-futurism». Postmodern visions 1960-1988 Phoenix Art Museum, Arizona primavera 1988 r Farfa fra dadaismo, futurismo e patafisica Marzio Pinottini R icordando l'appello «sempre ~~ù urgente, e sempre pm desiderabile», lanciato nel 1985 e perentoriamente ribadito nel 1987 da Edoardo Sanguineti, per raccogliere gli sparsi «lacerti luminosi» dell'attività fantastica di Farfa (al secolo Vittorio Osvaldo Tommasini 1879-1964), siamo lieti che Anna Maria Nalini e Danilo Ghelfi, proprio nel cuore della bassa padana a Crevalcore, hanno voluto con caparbia tenacia realizzarlo con una mostra intitolata Farfa e dintorni. Qui, grazie all'aiuto dell'amministrazione comunale e al decisivo appoggio della Banca po-- pagina 19 mentre qui, per la prima volta, i lavoratori avevano un carattere aggressivo, clownesco e un fisico da calciatori; tra una scena e l'alrra veniva utilizzata musica jazz, per alleggerire il testo. Complessivamente, mi è sembrato che la rassegna avesse ii carattere di un'offerta speciale, di un saldo di fine stagione, e lo stesso drammaturgo, non risparmiandosi le critiche, ha affermato che lo scopo del festival è stato principalmente quello di distruggere Heiner Miiller. polare dell'Emilia, si mette a frutto la felice trouvaille d'un archivio privato scoperto fortunosamente nei bauli dimenticati d'una soffitta. Come ognun sa, e Armando Plebe lo dimostrò impeccabilmente negli anni Cinquanta sulla scorta di Augusto Rostagni, l'estetica del comico servì agli antichi greci, ad Aristotele in particolare, a giustificare l'invettiva a fini morali. Il passo capitale lo troviamo nell' Etica nicomachea (1128) nel brano in cui si dice che il rito non è sconvolgimento, bensì sollecitazione (Kìnesis) dell'anima, che non solo non ne è danneggiato, ma anzi ne trae giovamento. La caritas è infatti invocata da Cicerone (De oratore, II, 237) come un elemento necessario al comico per giungere all'approdo finale della catarsi. Farfa, funa_mbolo delle parole, cantastorie di motti in versi, di calembours declamati, vien sempre più prepotentemente a profilarsi come silhouette apparentemente sfuggente, in realtà sfolgorante, dell'araldo d'una concezione allegorica dell'arte. La via della salvezza, braccati come siamo nel cerchio chiuso dei condizionamenti riduttivi del nostro esserci nel mondo, non può che trovarsi nella possibilità che ci rimane di affermare negando, come disse Peter Berget, dando così concretezza all'astrazione, una volta rifiutata la realtà che ci circonda. Farfa, povero in vita, ma «miliardario della fantasia», non rinunciò mai a «quelle dilatazioni cosmiche, che da sempre hanno risarcito oniricamente l'umiliazione del clown lirico, come dopo Storobinski sappiamo tutti quanti, se anche non vogliamo ricorrere alla solita carnevalizzazione alla Bachtin» (Sanguineti), sorprendendo ancor oggi tutti con il suo inchiostro liquorato in poesia, con le sue cartopitture che dell'inatteso lampo sorprendente futurista hanno conservato tutta la bruciante attualità. Grati alla Nalini per l'encomiabile fatica d'aver gettato le basi nel libro-catalogo d'una prima bio-bibliografia, accompagnandola con un brioso saggio introduttivo degno dell'estro di Farfa, invitiamo studiosi e amici a proseguire il cammino dopo le ree.enti esperienze di Crevalcore e di Torino (1988), restituendo a Farfa quel posto di protagonista europeo fra dadaismo italiano, futurismo entre-deux guerres, patafisico post bellico che nessuno gli può negare. Farfa e dintorni. Futurmostra Crevalcore, primavera 1988
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