Alfabeta 113 fatti e «misfatti» della storia esterna non si coglie bene tutta la portata degli sviluppi concettuali e teorici, i fatti peculiarmente interni delle discipline, e in particolare quelli dell'incontro con la cibernetica e la termodinamica. La lotta biologica è epistemologicamente connessa alle questioni delle «popolazioni», alle interrelazioni tra formazioni animali e vegetali, quindi al concetto cruciale di «comunità» come insieme di animali e vegetali. È il concetto di comunità che permette a Lotke e Volterra la matematizzazione delle dinamiche della popolazione. E Lindeman getta le basi dell'ecologia moderna introducendo la nozione di «organismo autotrofo»: è tale un sistema vivente capace di sintetizzare in forma organica un elemento minerale. Solo i vegetali verdi e certi batteri sono autotrofi. L'ecologia moderna inizia stabilendo un'omologia funzionale tra biocenosi e biotopo, cioè tra l'insieme dei viventi di un determinato luogo e questo luogo stesso, o ambiente abiotico. Questo insieme costituisce una totalità che tende all'equilibrio. L'omeostasi degli ecosistemi è appunto, la tendenza a resistere alle trasformazioni. Inoltre la matematizzazione converte e pensa l'energia che circola in questo sistema in termini calorimetri. E così si esaminano ora i trasferimenti di energia da una parte all'altra del sistema e la sua dissipazione, nella trasformazione delle sostanze organiche in materia inorganica. Il passaggio concettuale alla termodinamica e alla cibernetica, compiuto dai fratelli Odum, dirige l'analisi alla circolazione dell'energia e della materia nell'ecosistema, e soprattutto all'omeostasi. L'insieme dei meccanismi di equilibrio che appaiono negli ecosistemi vengono descritti in termini di retroazione in cui l'informazione è costantemente rinviata a un centro regolatore. In questi termini vengono ora descritte le relazioni tra preda e predatore. Si costruiscono dunque modelli di termodinamica del vivente che sono di particolare interesse e non certo privi di problematicità dato che non c'è propriamente un centro regolatore in un ecosistema. Sulla base di questi modelli viene ridefinito il concetto stesso di «nicchia» per cui due specie appartengono alla stessa «nicchia» se le loro relazioni sono governate da una retroazione positiva o almeno non negativa. E viene istituita una sorta di omologia tra informazione e entropia nel senso che il grado di informazione che passa in un sistema dà la misura del grado di organizzazione o di disorganizzazione del sistema stesso: quindi l'informazione viene espressa in unità di entropia. Il rischio è certo quello del formalismo, della «ritraduzione»: tuttavia l'innesto della problematica termodinamica e cibernetica nell'ambito del vivente ha dato avvio a fattori ecologici nuovi: per esempio vengono da qui le teorie e le applicazioni di una nuova branca interna, la radioecologia, quindi l'importanza dei raggi ultravioletti per la formazione dei fiori e lo studio delle conseguenze dell'impatto sugli ambienti della radioattività. E viene da qui la lotta chimica, la lotta microbiologica, l'utilizzazione dei geni automopatogeni, la lotta autocida (cioè la distruzione di una popolazione attraverso la semplice sterilizzazione di una parte della popolazione maschile) e la lotta integrale che distrugge ogni forma vivente, come abbiamo visto con i defoglianti in Vietnam. È qui, con le applicazioni e i «misfatti» non solo militari, ma anche civili nell'agronomia, che occorre cominciare a pensare l'ecologia dell'uomo. Le relazioni dell'uomo con l'ambiente sono una parte indissociabile dell'ecologia. Il sistema ecologico del XX secolo, ci dice Acot, deve comprendere l'uomo del XX secolo come specie dominante. E allora nello sviluppo di un'ecologia dell'uomo, siamo di fronte al vivo della ambiguità di quest'essere ai confini tra il biologico e il culturale e siamo ·di fronte agli interrogativi cruciali della «legittimità» e dei «limiti» del suo agire. Per questo dicevo all'inizio che la storia dell'ecologia si rivela allora una riflessione sulla natura dell'uomo, per questo le implicazioni sociali della sua storia riguardano la sopravviI pacchetti di Alfabeta venza della specie. Per questo l'ecologia è fuoriuscita negli anni Settanta dalle strettoie disciplinari per farsi direttamente concezione del mondo - anzi, più propriamente un terreno di scontro tra opposte ideologie, che a essa fanno capo. C'è il ritorno del sacro, c'è la nostalgia dell'«altro», di ciò che si è perduto, c'è la fabulazione di un'alleanza mitica tra l'uomo e la natura, che fa dimenticare che l'inquinamento non è solo dell'oggi: le città sono state anche in passato puzzolenti cloache aperte e le guerre e i commerci sono sempre stati fonti di epidemie disastrose. Né solo dell'oggi sono i disastri ecologici, né l'uomo ne è il solo responsabile: appartengono alla natura prima che all'uomo. Il che, certo, non giustifica nulla, né rende meno drammatica la situazione attuale. Dice solo che il salto della modernità, la sua stessa pericolosità, sta altrove: sta nella liberazione dal condizionamento, dai limiti di «passività»: sta, come ha osservato acutamente Pierre George, nel capovolgimento, perseguito per secoli, del rapporto tra società e natura. Così oggi è la società che condiziona e determina il paesaggio. Il paesaggio urbano ha sostituito, e non semplicemente modificato o trasformato, il paesaggio naturale. Il paesaggio della modernità è quello urbano ed è un paesaggio che si sovrappone, non si inserisce e non conserva un rapporto con la natura. Esercita una propria autonomia e cancella radicalmente l'altro. Crea una realtà di cemento armato, immensa come i rilievi collinari o i depositi morenici e muta la carta geografica cancellando foreste e boschi, deviando i fiumi e scavando laghi artificiali. Di tutto ciò è carico il malessere territoriale della modernità ed è un sintomo di una pena più generale. Nella territorialità ci sono i sensi e il corpo dell'uomo, l'apertura verso il mondo e l'azione. Ne risultano alterati gli schemi interiori della spazialità. E c'è un sovraccarico di significazione dello spazio e un eccesso di mobilità (A. Toffler). C'è insomma un allentamento dei vincoli territoriali, uno svuotamento della peculiarità dei luoghi. E perdendo i luoghi perdiamo la nostra identità, la nostra concretezza e la nostra storia personale e collettiva. Per questo la natura e il paesaggio divengono luoghi di ambivalenza e di ambiguità, di nostalgiche rievocazioni, di sogno, di fuga, di dimenticanza. Continuiamo a vedere e a pensare la natura e il paesaggio come cornice del nostro vivere, come scenario del nostro agire. Il senso dello spazio è questa cornice, è questo scenario, è evocazione della natura come componente interna e onnipresente. L a nostalgia dell'alleanza tra l'uomo e la natura è un sogno che risale al Rinascimento. Inizia dunque, con la modernità stessa, una sensibilità nostalgica verso la natura, che vuole l'uomo ai margini o presenza soffice, contemplativa. Sorprende, nella ricostruzione che ne fa Acot, che non vi siano come nel presente motivi economici o modificazioni radicali del paesaggio. Nel momento in cui Ronsard innalza il suo canto nel!' Elegia contro i tagliatori della foresta di Gatin e fa risuonare la sua angoscia, i campi sono ritornati foresta in seguito alla peste, gli incolti si estendono a macchia d'olio e la popolazione, ridotta alla metà, si sparpaglia nei terreni sommariamente coltivati o percorsi dal bestiame. Lo spazio rurale è stato dunque smantellato. Eppure c'è, nel canto di Ronsard, l'angoscia di una perdita e di una rottura, ma si tratta di eventi del reale. L'angoscia di Ronsard, o l'esaltazione dei piaceri e dei paesaggi rurali in Noel de Fail o in Gui du Four de Pibrac, ci pongono di fronte a un paradosso perché è una sensibilità nostalgica legata a delle trasformazioni della natura e dei modi di vita che sono solo soggettivamente reali, mentre non sono avvenuti. È il mondo e l'universo mentale che si sono rovesciati, sono le antiche concezioni che vacillano e crollano. È lo stesso sentimento che troviamo nel testo di John Donne, Anatomia del mondo, è un sentimento di disordine e insieme di potenza che hanno provato gli uomini vedendo dissolversi l'antico sistema e innalzarsi al suo posto uno nuovo che geometrizza lo spazio con una causalità cieca e di cause materiali, un mondo, però, di cui la ragione umana può pensare il meccanismo. Matematizzandosi, l'universo si laicizza, il cielo si svuota e gli incantamenti antichi svaniscono. Anche la salvaguardia della natura si presenta come un problema tutt'altro che semplice: innanzitutto si identifica con la conservazione o mantenimento di ciò che è naturale, come difesa e insieme come creazione di parchi naturali. Sono reliquie in un santuario, sono poveri resti di un paradiso perduto. E, a ben guardare, in senso proprio, il parco o il paesaggio naturale è solo una finzione, un'artificiale zona dell'intatto. Non è in grado di autoriprodursi come un ecosistema naturale: è l'uomo che provvede a mantenerlo nella naturalità, in urto e in contraddizione con la realtà esterna di un paesaggio urbano e industriale che non cessa di aggredirlo, inevitabilmente, con l'inquinamento dell'aria e dell'acqua e con le esigenze del mercato. Così i parchi naturali sono solo una specializzazione dello spazio nel contesto del paesaggio urbano. Per questo la loro immacolata bellezza è vetrosa e la loro realtà è fragile ed effimera, in continuo precario equilibrio. In senso moderno, la costruzione di parchi comincia alla fine dell'Ottocento con il parco di Yellowstone (1872) e nel 1883 abbiamo i primi incontri internazionali per la protezione della natura. Ma ci vuole il Novecento perché si inizi realmente a fare qualcosa: è del 1923· il primo Congresso internazionale, a Parigi, ma il piano MAB dell'ONU è del 1970, seguito nel 1972 dalla legislazione internazionale per l'ambiente. Sono dunque eventi dell'oggi, strettamente. Eppure la salvaguardia ha una storia più antica, certo sempre iscritta nella modernità: è legata agli stati nazionali e alla difesa delle ricchezze del paese; è Colbert, il ministro straordinario di Luigi XIV, a stilare nel 1669 l'Ordinanza delle acque e delle foreste. È il primo importante intervento di salvaguardia della foresta medioevale: ne registra il saccheggio già diventato grave e preoccupante. E c'è la pratica straordinaria degli orti botanici. Ma sempre, in entrambi i casi, la salvaguardia e la collezione di piante esotiche o di tutto il mondo hanno finalità economiche. Lo spartiacque è invece piuttosto da porsi nel Settecento, con la prima rivoluzione verde, con la generalizzazione della rotazione delle colture, del grano con le patate, con la scomparsa del maggese e con lo sviluppo delle colture foraggere. È qui che la natura diviene merce e si afferma una concezione economica della natura stessa. È a questa rivoluzione che forse dovremmo prestare più attenzione, perché in essa vi è un mutamento di mentalità con cui oggi ci troviamo a fare i conti, oltre che naturalmente con la valutazione di quest'evento in termini storici e nei suoi nessi con la rivoluzione industriale. È, mi sembra, nel quadro concettuale e mentale di una natura-merce che si pone ciò a cui dobbiamo prestare attenzione per non farci intrappolare in semplificazioni o per non farci fuorviare dalle astrazioni. Oggi, sotto accusa c'è appunto un'astrazione: l'uomo, e l'accusato è un concetto: la civilizzazione. Ora, a detta di Acot, le tecnologie meno costose sono le più inquinanti e i periodi di recessione sono quelli di maggiore distruttività e nocività: è la tossicità degli elementi non la loro quantità ciò che conta. E certo su ciò non ci possiamo fidare, dobbiamo procedere accertando e riflettendo. Non è comunque un buon segno che alla civilizzazione si contrappongano ideologie del biologismo sociale. Così dobbiamo sottoporre a vaglio critico i grandi temi che vengono sollevati e sono quelli del carattere limitato delle risorse, della fragilità degli equilibri della natura, dell'opzione delle tecnologie dolci nella produzione dell'energia. Ognuno di questi temi pone quesiti teorici delicati e complessi. Ad essi non è possibile rispondere sul piano semplice disciplinare: sono nuclei teorici e scientifici di filosofie o di concezioni del mondo o di ideologie, come si preferisce. La questione dei limiti per esempio pone pagina 15 quesiti storici e di modo di produzione e non semplicemente problemi di termodinamica non poco complessi già di per sé. Ciò vale ancor più per le altre due grandi tematiche, che attraversano il teorico e il pratico, oltre che il filosofico. Le questioni in gioco sono quelle complessive dell'economia produttivistica: è una scelta di vita rispetto all'economia - è rispetto a ciò che si diversificano le progettualità, nella scelta di «essere» invece che di «avere» e quindi dell'assunzione dell'ecologismo come visione del mondo. E mi interessa che non ci siano solo sospette forme di neoscientismo, di evoluzione necessaria imposta dai limiti che non tiene conto della storia e dell'economia, ma anche forme più suggestive e dolci che parlano il linguaggio del!'«alleanza» e dell'«amore» ci sono riprese neoromantiche e, perché no?, cinquecentesche. Sull'altro fronte dell'ecologismo, stanno le posizioni di gestione degli ecosistemi: contano anche la stori·ae l'economica. È ~n approccio che mette in discussione il dualismo uomo-natura, artificiale e naturale, che sono le categorie a cui fa riferimento una lettura delle società e dell'uomo come «perturbanti». Scienza della natura e storia naturale appaiono termini obsoleti che contemplano e presuppongono un oggetto inesistente, la natura vergine o una natura senza storia. La storia naturale deve ora comprendere anche l'uomo e la società, l'uomo come modificatore e non come perturbatore. Il fatto che l'uomo possa essere fonte di distruzione e di morte è una delle possibilità che si connette colla capacità dell'uomo di usare a proprio vantaggio il sapere o la conoscenza delle leggi naturali e l'abilità tecnica e manipolatrice. L'opposizione e il dualismo-natura e cultura attua una semplificazione e un irrigidimento del reale. Occorre dunque una rielaborazione di entrambe le nozioni in modo che la natura non si riduca a mezzi naturali ed emerga il legame che intercorre tra forme di appropriazione della natura e rapporti degli uomini fra loro. Il rapporto tra natura e società viene esaminato nei termini della discontinuità, elemento irrinunciabile e da porre in tutta la sua radicalità, se non si vuole incorrere in una biologizzazione del sociale. Acquisisce allora tutta la sua importanza il concetto di lavoro. È il lavoro che immette nella cultura e in tal senso è carattere peculiarmente umano. Ogni prodotto del lavoro, anche il più semplice come il sasso levigato, rimanda al sociale. Non è riducibile a un'attitudine individuale, ma è sapere sociale, patrimonio culturale trasmettibile da una generazione all'altra. Il lavoro oggettiva esteriormente a colui che l'ha compiuto un sapere sociale in determinate condizioni storiche. E nell'oggetto c'è allora un sapere che si è cristallizzato. È in questa peculiarità dell'animale uomo che risiede la discontinuità tra natura e cultura. C'è al di là delle differenze e contrapposizioni delle diverse «scuole» e indirizzi, un fondo comune nel rifiuto del produttivismo, c'è l'irrinunciabilità al naturale e c'è la definizione della civiltà in senso ampio di sistema ecologico e di modello che configura un tipo di paesaggio, di organizzazione dello spazio e di intervento in esso. Uno degli aspetti, che a me sembrano più interessanti dell'ecologia, è il nesso che istituisce tra rapporti di appropriazione e rapporti degli uomini fra loro a tutti i livelli, dagli atteggiamenti alle gerarchie, alle subordinazioni, alla mentalità, all'immaginario. Nella nozione ecologica di civiltà, c'è anche un nuovo incontro con la geografia: c'è il riconoscersi reciproco come forme della territorialità. Nella territorialità carica di segni e di immaginari ci sono i tempi diversi delle cose ed esseri che strutturano e popolano la terra. Sono tempi che si incrociano, ma anche si contraddicono, tempi di cui imparare a tener conto. La crisi ecologica allora assume anche i connotati di crisi di modelli di società e di crisi di democrazia. Istituisce un nesso tra imperialismo e degradazione della natura, tra sfruttamento dell'uomo e sfruttamento della natura. Così l'ecologia diviene progettualità, modello di civiltà, opzione teorica -e pratica, sociale e politica. Da qui il mondo può essere ripensato e sognato.
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