Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

Alfabeta 113 È in questo senso allora che, come si esprime felicemente De Sanctis, Tocqueville «conclude» la scienza politica inaugurata da Hobbes: rovesciandone radicalmente i termini: «Il Leviatano non è più la risposta contro la natura dell'uomo, è bensì l'esigenza dell'uomo fattosi naturale; esso non sorge dalla rinuncia contrattuale all'uI pacchetti di Alfabeta guaglianza originaria, bensì dall'acquisizione progressiva dell'uguaglianza storica. Leviatano e uguaglianza sono ancora una volta profondamente connessi, ma attraverso l'inversione del vecchio rapporto: esso non interviene per abolirla, bensì per potenziarla, organizzarla poiché nell'uguaglianza si scopre ormai la radice della debolezza e non della pericolosità» (pp. 128-129). Mentre l'antico Leviatano fondava la politica reprimendo la natura, il nuovo asseconda la natura cancellando la politica. Non è un caso che Tocqueville, riflettendo sul destino dell'uomo occidentale, omogeneizzato dall'eclissi della politica, rivolga il proprio sguardo oltre il limite del rappresentabile: pagina 13 «Non bisogna poi dimenticare - egli scrive di se stesso - che l'autore che vuol farsi capire è costretto a sviluppare ogni sua idea sul piano teorico sino alle sue ultime conseguenze, e spesso sino ai limiti dell'irreale e dell'impraticabile» (De la démocratie en Amérique, introduzione). del filosofo tedesco Martin Heidegger L'autoaffermazione dell'Università tedesca Il melangolo, Genova, 1988 p. 57, lire 10.000 Otto Poggeler Heideggers politische Selbstverstandnis in AA.VV., Heidegger und die praktische Philosophie Suhrkamp Verlag, Francoforte, 1988 pp. 395, DM 24 Jiirgen Habermas L'infiltrazione della critica della metafisica nel razionalismo occidentale in Idem, Il discorso filosofico della modernità Laterza, Roma-Bari, 1987 pp. 387, lire 30.000 Philippe Lacoue-Labarthe La transcendance finit dans la politique in Idem, L'imitation des modernes. Typographie II Galilée, Parigi, 1986 pp. 290, FF 120 I l recente libro di V. Farias ha rinfocolato la polemica, in verità mai del tutto sopita, sulle «responsabilità» politiche (e morali) di Heidegger nei confronti del nazionalsocialismo, polemica che da ristretti circoli accad~mici è tracimata con punte di inusitata virulenza su quotidiani e settimanali. Non che negli anni Sessanta e Settanta fossero mancati attacchi e condanne inappellabili al rapporto di Heidegger con il nazismo (basti pensare a due autori molto distanti tra loro come Adorno con la sua Dialettica negativa e L. Goldmann con il suo Lukacs e Heidegger), ma l'establishment filosofico era rimasto più o meno estraneo a questa controversia, considerata un episodio - forse non eccessivamente rilevante - della storia interna della disciplina. L'asprezza della discussione odierna travalica, tuttavia, i toni idiosincratici della normale polemica intrafilosofi_ca, dal momento che la sua posta in gioco sembra andare molto al di là di un pensatore come Heidegger, isolatamente preso, per investire alle radici lo statuto stesso della filosofia intesa come forma autonoma di sapere, dotata di categorie e di problemi suoi propri, o, come direbbe Wittgenstein, come gioco linguistico peculiare. L' affaire-Heidegger, dunque, può essere letto come un sintomo di una questione più vasta, relativa allo stato di salute della filosofia, alla sua diagnosi e prognosi. Per lo più si sono formati due «partiti» (con una curiosa politica delle alleanze che ancora una volta ha sconvolto le tradizionali divisioni tra destra e sinistra): da una parte coloro che, schierati con Farias, sia pure talvolta con sfumature e accentuazioni diverse, interpretano la filosofia {heideggeriana) come una sorta di continuazione della politica (nazionalsocialista) con altri mezzi, e dall'altra coloro che rivendicano l'autonomia pressoché assoluta del sapere filosofico e dell'esercizio del pensiero. Naturalmente, poiché il confronto con l'opera heideggeriana implica un / Francesco Fistetti giudizio sulla ragione moderna e sui contenuti universalistici da essa espressi sul terreno della morale, del diritto, della scienza e, in genere, dell'organizzazione dei rapporti sociali - riassumibili nella celebre formula weberiana del «razionalismo occidentale» - era inevitabile che la discussione su Heidegger si tramutasse implicitamente in diagnosi del tempo e della civiltà, in prese di posizione sulle tendenze in atto e sul futuro delle società tardo-industriali o postindustriali, e, in particolare, sullo spazio riservato alla filosofia in questo contesto. La polemica su Heidegger mette allora in gioco direttamente la questione (tutt'altro che nuova) circa la pertinenza politica del discorso filosofico e la sua capacità di «illuminare» le lotte politiche e i bisogni sociali del nostro tempo: in una parola, la declinazione della filosofia come critica dell'ideologia. Spezzare questo nesso tra filosofia e politica significa, per Habermas, rompere con il patrimonio culturale ed etico del razionalismo occidentale e, promuovendo un «pensare essenziale» di contro al linguaggio della vita quotidiana e delle scienze storico-sociali, intraprendere una critica della modernità destinata a mettere capo al bisogno di una «nuova mitologia» (p. 143), perché avulsa da qualsiasi criterio di verifica empirica e argomentativa. Heidegger non riuscirebbe a districarsi dalle aporie della filosofia del soggetto, che egli stesso ha magistralmente caratterizzato come tratto distintivo dell'epoca moderna nella prospettiva della storia della metafisica. «Heidegger - scrive Habermas - benché in un primo passo distrugga la filosofia del soggetto in favore di un contesto di rimandi che rende possibili le relazioni soggetto-oggetto, nel secondo passo, quando si tratta di rendere comprensibile di per se stesso il mondo come processo di accadere cosmico, ricade nelle strettoie concettuali della filosofia del soggetto. Infatti il Dasein strutturato solipsisticamente occupa nuovamente il posto della soggettività trascendentale» (pp. 153-154). Allo stesso modo, il fondamentalismo della filosofia dell'originario, ossia l'istanza di una auto-fondazione ultima, lungi dall'essere respinto, viene riabilitato sotto le vesti di un Atto creativo fichtiano «modificato nel progetto del mondo» (p. 154), rivolto, cioè, a enfatizzare il decisionismo del soggetto e l' «auto-affermazione» della volontà. La cosiddetta «svolta», ad avviso di Habermas, non . fa altro che radicalizzare e invertire di segno gli esiti aporetici di Essere e Tempo: la problematica dell'origine viene temporalizzata e situata nel destino immemoriale dell'Essere, mentre al decisionismo volontaristico subentra una passività ricettiva che al sentimento dell'angoscia di fronte al nulla sostituisce un mistico lasciar-essere. Ma la «svolta» resterebbe indecifrabile qualora la si interpretasse come uno sviluppo logico interno alla teoria (non importa se scandito in termini di continuità o di discontinuità). Fu solo la bruciante e provvisoria esperienza dell'identificazio:rw con il nazionalsocialismo ad aprire la strada alla «filosofia dell'originario temporalizzata del suo tardo periodo» (p. 158). Il colossale escamotage heideggeriano consiste nell'aver trasfigurato una «responsabilità» politica soggettiva e una colpa morale individuale in un errore «ontologico» ascrivibile alla storia dell'Essere intesa come sfera dell'erranza. «Soltanto dopo questa svolta - commenta Habermas - il fascismo, come la filosofia di Nietzsche, è una fase oggettivamente ambigua dell'oltrepassamento della metafisica. Con questa reinterpretazione anche l'attivismo e il decisionismo dell'esserci che afferma se stesso perdono [... ] la loro funzione di dischiudimento dell'Essere; soltanto ora il pathos dell'autoaffermazione diviene il tratto fondamentale di una soggettività che domina la modernità. Nella tarda filosofia subentra al suo posto il pathos del lasciar-essere e dell'asservimento» (p. 163). A conclusioni analoghe, accompagnate, tuttavia, da un tono di disillusa amarezza e di impietosa autocritica nei confronti delle sue posizioni precedenti, giunge anche Otto Poggeler, uno dei discepoli più fedeli di Heidegger, che dallo studio dei testi e dei corsi redatti da Heidegger a partire dal 1933 si è sentito «obbligato a vedere i 'fatti' connessi al periodo di rettorato di Heidegger in termini diversi dal modo in cui Heidegger si riteneva autorizzato a vederli». 1 Pur condividendo la tesi di Ernst Nolte secondo cui, anche a proposito della storia del nazismo, «i vincitori hanno sempre imposto la loro 'verità'», egli non può fare a meno di riconoscere che nel corso della seconda guerra mondiale Heidegger «interpreta la storia della metafisica alla luce degli slogan lanciati dalla guerra di propaganda dell'epoca» (p. 38). Sulla scia della celebre affermazione del 1935, contenuta nel- !' Introduzione alla metafisica, sulla «verità interna e la grandezza» del nazionalsocialismo, Heidegger «reclama per questo momento storico un'umanità che si lasci completamente dominare dall' 'essenza' della tecnica» (p. 38). In alcuni passaggi dei corsi su Nietzsche (pubblicati nel 1961) la vittoria tedesca sulla Francia viene spiegata con il fatto che la patria di Cartesio non è più «all'altezza della metafisica uscita dalla sua propria storia» e il superuomo nietzscheano viene interpretato come quel tipo umano che più si mostra conforme all'essenza della tecnica moderna e all'«economia macchinale» che vi corrisponde. Ancora nell'estate del 1942 nella conferenza su Holderlin egli torna a insistere sulla «singolarità storica» del nazionalsocialismo e del concetto «totale» di politica che esso ha portato allo scoperto. «Il 'politico' - scrive Heidegger - è la realizzazione della storia. Giacché il politico è la certezza tecnico-storica fondamentale di ogni agire, il 'politico' viene contrassegnato dall'incondizionata certezza di sé. La certezza del 'politico' e la sua totalità si appartengono reciprocamente». Quando con la disfatta delle armate tedesce a Stalingrado comincia a naufragare il sogno hitleriano del «dominio mondiale», Heidegger nell'inverno 1942-1943ribadisce che «la tecnica è la nostra storia» e nella sua Parmenides-Vorlesung non esita a spiegare che la parola d'ordine di Lenin secondo cui il bolscevismo equivale ai soviet + l'elettrificazione va interpretata come l'espressione, conforme alla storia della metafisica moderna, della fusione dell'incondizionato potere del partito con la tecnicizzazione completa. Poggeler ricorda che Heidegger, ancora nel suo scritto del 1955 in onore di E. Jiinger - La questione dell'Essere - si richiama alla nietzscheana «volontà di potenza» scatenatasi per il dominio della terra attraverso la tecnica, la quale, tuttavia, agli occhi di Heidegger, si rivela ormai del tutto insufficiente ai fini dell'assunzione della decisione a favore dell'Essere. Rispetto all' «es-plicazione (Aus-einander-setzung) dell'es», «le guerre mondiali - scrive Heidegger - restano qualcosa di superficiale, e più si fanno tecniche, seinpre meno sono in grado di portare a una decisione». 2 Il dubbio di Poggeler diviene radicale: è la «metafisica» che va oltrepassata o non è piuttosto lo «spirito borghese» (Biirgerlichkeit) che viene schernito da Heidegger? (p. 55). Heidegger rifiuta ogni concezione della politica come «compromesso sul realizzabile e intesa minimale». La politica «non può puntare unicamente sul cambiamento dell'uomo, essa deve accettare che, temendo le conseguenze delle loro azioni, gli uomini sottomettano le loro azioni a norme», sicché non si potrà mai accordare all'azione dell'uomo politico la libertà dell'artista creatore (p. 56). Anche per Poggeler, dunque, bisogna salvare il razionalismo occidentale dal naufragio soggettivistico, sicché la filosofia deve mantenere saldo il suo riferimento alle questioni normative e alle istanze di validità scientifica. M a che fare allora di quella tradizione di filosofia del soggetto che da Nietzsche a Heidegger e da Heidegger a Bataille, alla Weil, a Foucault, a Derrida, a Lévinas non ha mai cessato di inquietare il razionalismo occidentale? Considerarla, come ha proposto Rorty, come una sorta di «religione» privata degli intellettuali, qualcosa che ci aiuti a decidere «che cosa dobbiamo fare della nostra solitudine» ?3 È plausibile l'alternativa alla filosofia come critica dell'ideologia in direzione di una deteorizzazione della politica e di un depotenziamento della filosofia a scelta di valori, gusti e stili di vita personali? Proprio in rapporto a queste domande cruciali il «problema-Heidegger» si rivela un passaggio obbligato per chi intenda andare a fondo e scavare i nessi costitutivi che tra filosofia e politica si sono venuti stringendo nel sapere occidentale fin dalle origini della sua storia. L'impegno nazista del 1933 da parte di Heidegger solleva una questione che concerne in un primo tempo questo pensatore, ma che ne deborda, per così dire, l'economia di pensiero: su quale terreno stricto sensu filosofico è stato possibile a Heidegger assumere quell'impegno? E da qui, più in generale: a quali condizioni il politico può catturare e implicare il filosofico? Fino a che punto il politico è più potente del filosofico? Esiste una surdeterminazione politica del filosofico? Sono queste, secondo Lacoue-Labarthe, «le domande più gra-

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