Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

pagina 12 I pacchetti di Alfabeta Alfa beta 113 exisdeTo ueville Alexis de Tocqueville Viaggio in Inghilterra del 1833 Presentazione di Umberto Coldagelli «Micromega», n. 1, 1988 pp. 89-129 Francesco M. De Sanctis Tempo di democrazia Alexis de Tocqueville Edizioni Scientifiche Italiane Napoli, 1986 pp. 416, lire 3$.000 Anna Maria Battista Tocqueville. Un tentativo di sintesi «Trimestre», n. 3-4, 1986 pp. 171-244 L ' ultimo numero della rivista «Micromega» pubblica, a cura di Umberto Coldagelli, una serie di appunti inediti (in italiano) di Alexis de Tocqueville relativi al suo viaggio in Inghilterra del 1833. La scelta dell'autore non è certo casuale, ma risponde a una diffusa ripresa d'interesse nei confronti di un'opera fortemente eccentrica rispetto a consolidati stereotipi della tradizione filosofico-politica; non solo, ma sottilmente sfuggente ai due grandi quadranti ideologici costituiti da un lato dal giudizio - positivo o negativo - sulla Modernità (intesa nel senso di secolarizzazione); dall'altro dall'opzione tra libertà e uguaglianza alla quale pure larga parte della letteratura critica ha voluto inchiodarla. Si tratta di un'estraneità conseguente soprattutto al metodo, per così dire induttivo-comparativo, usato da Tocqueville, di cui le «note di viaggio» presentate da «Micromega» costituiscono un significativo esempio. Il paragone in questo caso, nato dal breve soggiorno dell'autore in Inghilterra (dal 3 agosto al 7 settembre del 1833), riguarda in primo luogo il raffronto con la Francia e con quello che anche per Tocqueville, come per tutto il pensiero (reazionario e liberale) della Restaurazione, la Francia evoca, vale a dire la Rivoluzione. L'Inghilterra rappresenta agli occhi di Tocqueville la prova che il passaggio dallo stato aristocratico a quello democratico non deve avvenire necessariamente via rivoluzione: almeno quando, come appunto in Inghilterra, l'aristocrazia, invece di chiudersi a riccio in difesa dei propri privilegi, apre le sue frontiere ai ceti più abbienti delle classi medie favorendo così una «transizione» alla democrazia lenta e progressiva. Se alla doppia tipologia del modello francese e del modello inglese si affianca quella del «caso» americano, situata all'incrocio dei primi· due - «Ciò che dona agli Stati Uniti il loro valore centrale è che essi sono, in rapporto all'Inghilterta, una rivoluzione democratica radicale, e in rapporto alla Francia, una democrazia radicalmente non rivoluzionaria» - si ha il quadro completo di storia comparata che Tocqueville ha di fronte, e anche l'indicazione più pregnante che egli ne ricava: vale a dire la negazione di quell'identificazione tra rivoluzione e democrazia assunta come un dato indubitabile dalla scuola liberale del tempo e in particolare da Guizot. La frase prima citata è di François Furet (Naissance d'un paradigme: Tocqueville et le voyage en Amérique (1825-1831), «Annales», 2, 1984, p. 237); ma chi ha posto con maggiore determinatezza la critica della simmetria tra rivoluzione e democrazia al cuore del discorso di Tocqueville è stato Francesco M. De Sanctis in un libro (Tempo di democrazia) che segna una svolta importante nella letteratura tocquevilliana Roberto Esposito contemporanea. Una svolta, intendo dire, per il ruolo che, nella lettura di De Sanctis, quella critica gioca in relazione alla questione cardinale di tutta la tradizione interpretativa su Tocqueville: vale a dire il rapporto tra le due grandi sezioni della Démocratie en Amérique, redatte, come è noto, in anni differenti. Una ricostruzione di questo rapporto in termini di accentuata discontinuità è contenuta in un ·recente lavoro della compianta Anna Maria Battista, già autrice di fondamentali studi su Tocqueville, pubblicato nella rivista «Trimestre» con il titolo Tocqueville. Un tentativo di sintesi. La tesi della Battista è che, mentre la prima Democrazia, ancora ossessionata da un'immagine «ottimistica, trionfale e paurosa» del popolo sovrano, e dunque consapevole dei rischi gravissimi potenzialmente contenuti nella concentrazione del potere nelle co-epocale, succede quello della spoliticizzazione, intesa da Tocqueville con miracolosa preveggenza in un senso non troppo lontano dall'accezione che a tale espressione avrebbero dato alcuni maestri del pensiero politico del nostro secolo. Le motivazioni interne di tale rovesciamento prospettico sono individuate dalla Battista in un'inversione del metodo di ricerca realizzata dall'autore che, mentre nella prima stesura della Democrazia era partito da un paradigma - un idealtipo - politico, la democrazia appunto, e dalla sua prevedibile espansione, derivandone determinate conseguenze sul piano socio-psicologico, nella seconda stesura parte da un'indagine sociopsicologica - la struttura antropologica di individui investiti dal processo egualitario - per pervenire a una determinata conclusione politica: che è quella del rapporto direttamente proporzionale che nella società Primavera - Estate 1986 mani di una maggioranza naturalmente esposta al tralignamento tirannico, individuava nel rafforzamento dell'esecutivo il meccanismo istituzionale atto a contenerne l'emergenza, la seconda capovolge radicalmente quest'impostazione. In essa, infatti, sarà proprio il crescente potere centralizzato dell'esecutivo - e gli effetti necessariamente recessivi che esso induce n&llasocietà democratizzata - l'oggetto dei timori dell'autore: in coincidenza con un consistente mutamento - anzi con una sostanziale cancellazione - dell'immagine del popolo sovrano. Ormai non sarà più il giacobinismo rivoluzionario il rischio incombente dello sviluppo democratico, ma, al contrario, l'appiattimento apolitico di «una massa di uomini miti, succubi, passivi, in cui non vivono più né passione politica, né tensione rivoluzionaria». In altre parole: a un pericolo di iperpoliticismo, che proprio nell'evento rivoluzionario raggiunge il proprio apice storidemocratica lega la diffusione dell'eguaglianza allo sviluppo ipertrofico dell'esecutivo. R ispetto a questa lettura nettamente «discontinuista» della Battista, De Sanctis - più vicino semmai all'impostazione di Jean-Claude Lamberti (Tocqueville et /es deux Démocraties, PUF, Paris, 1983) che ammette la coupure ma la trasferisce all'interno della seconda Democrazia - insiste invece sul filo di continuità che, nonostante gli anche cospicui mutamenti tematici e stilistici, lega le due parti dell'opera tocquevilliana dentro un unico quadro categoriale. Per cogliere il quale è necessario incrociare al confronto· sincronico dei tre modelli prima richiamati (francese, inglese e americano) una varia- • bile diacronica: e cioè lo spostamento che nel tempo porta alla loro lenta ma inesorabile sovrapposizione. Il nesso tra le due Democrazie è tutto interno a questo processo di omologazione. Mentre la prima è ancora chiusa nella sincronia orizzontale della storia comparata - e questo ne spiega il registro per certi versi ottimistico riconducibile alla differenza positiva che il modello americano esprime rispetto a quello europeo - la seconda visualizza la progressiva generalizzazione di quei caratteri politicamente entropici che, nati nella democrazia rivoluzionaria francese, conquistano poco a poco anche la democrazia non rivoluzionaria americana: con la conseguenza, rilevante sul piano dell'antroposociologia politica, di determinare una falda moderna di «europeizzazione» dell'America precedente, e per certi versi esplicativa, della successiva «americanizzazione» dell'Europa che abbiamo ancora sotto gli occhi. Questi caratteri entropici, trapiantati dal vecchio al nuovo mondo, sono riconosciuti da De Sanctis soprattutto in ordine alla relazione tra il cittadino e il potere. Se nella prima Democrazia essa è riportabile a un «bisogno di Stato» espresso dal «popolo democrat.ico», nella seconda è lo stesso «potere sociale» a «inventare» e programmare i bisogni e le passioni del popolo-massa che forma la società: «Questa immagine della società, che impersona senza residui il 'pubblico', e queste pratiche governamentali in cui si trasfigura e dispiega il potere, sono fuse in un'unità difficilmente scindibile: il potere non si esercita sulla società come entità distinta dallo Stato, bensì, proprio con la democrazia e con l'assetto socio-culturale che essa impone, lo Stato può configurarsi come il 'potere sociale' centralizzato e munito delle funzioni tradizionali del potere politico, esse stesse fortemente autonomizzate dalle volontà dei cittadini» (pp. 116-117). Ora il fatto che questo nuovo dispotismo venga alimentato «naturalmente» dalla stessa società smaschera «l'alienazione» della cittadinanza implicita nella doppia «finzione» della rappresentanze:!,e della sovranità. Da questo lato, allora, diventa leggibile anche quell'inversione di senso prodotta da Tocqueville nei confronti della tradizione contrattualistica hobbesiano-roussoviana. Già Nicola Matteucci, .in un saggio, ormai classico, che introduceva gli scritti politici tocquevilliani nell'edizione dell'UTET 1968 (ora raccolto, insieme ad altri, nel volume Alla ricerca dell'ordine politico, Il Mulino, Bologna, 1984), aveva chiarito come Tocqueville, contro quella tradizione, si richiamasse piuttosto al metodo empirico di Machiavelli: «Infatti, invece di dedurre logicamente quale forma di governo possa attuare gli ideali di libertà e di eguaglianza, invece di teorizzare un'utopia razionale, alla quale la realtà storicopolitica doveva essere adeguata, egli descrive empiricamente il funzionamento di una democrazia esistente» (Ivi, p. 206). Vero è che sia in Hobbes sia in Rousseau «l'alienazione» è considerata come la figura necessaria alla formulazione del patto: ma essa è presentata come cessione dei diritti naturali funzionale all'attivazione della società politica. È esattamente il punto contestato da Tocqueville: quello che attraverso la creazione del sovrano i cittadini cedono non solo i diritti naturali, ma proprio i diritti politici (alla politica), cosicché la costituzione del Leviatano (o della volonté générale roussoviana) prelude non alla nascita della società politica, ma, al contrario, alla spoliticizzazione della società; o, come avrebbe detto anche la vera erede novecentesca di Tocqueville, cioè Hannah Arendt, all'unificazione coatta di quell'irrapresentabile che è la pluralità dei cittadini.

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