Alfabeta - anno X - n. 113 - ott./nov. 1988

Alfabeta 113 I pacchetti di Alfabeta Stroncatura diBufa • oe Gesualdo Bufalino Le menzogne della notte Bompiani, Milano, 1988 pp. 154, lire 18.000 Rosetta Loy Le strade di polvere Einaudi, Torino, 1988 pp. 239, lire 20.000 U na delle operazioni più fatue e inutili è quella di dir male dei premi letterari, tentando di negare la loro inevitabilità; semmai, dovremmo rassegnarci ad aggiungere un'ulteriore constatazione, che cioè appare altrettanto inevitabile che essi vengano conferiti a opere fatte su misura, confezionate per un successo posticcio, di stagione, essendo destinate poi a finire dimenticate. Una società letteraria assai più scaltrita e matura della nostra, quella francese, lo sa bene, e non si attende molto dai vari Goncourt e Rénaudot e Foemina distribuiti ogni anno, lasciando tutt'al più al minore Prix Médicis il compito di salvare l'anima. Caso mai, la differenza tra i due climi, quello tutto sommato ancora ingenuo e sprovveduto nostrano e quello francese, più smaliziato, sta proprio nel fatto che da noi si tenta ancora Autunno - Inverno 1985-1986 Renato Bari/li di refutare questa realtà evidente, e quindi metà della critica e degli addetti ai lavori prendono sul serio i prodotti che concorrono a ogni tornata ai premi più ambiti; e soprattutto vi credono i partecipanti, che infatti confezionano allo scopo opere ambigue, sospese tra una schietta accettazione delle regole del consumo letterario, e invece l'ambizione di darsi una patina di nobiltà sperimentale. Ma così finiscono per non essere né carne né pesce, né autentici ricercatori, né onesti compilatori di romanzi d'intrattenimento, fondati su un sicuro mestiere. Le due opere che si sono spartite le maggiori lauree della nostra stagione stanno a provare questa constatazione disincantata. Due sole, per tre lauree, in quanto come è noto una di esse, Le strade di polvere di Rosetta Lby, è riuscita a far convergere su di sé i voti sia del Viareggio che del Campiello, segno eloquente che ha in sé le migliori caratteristiche «da premio», e che diviene quindi un ghiotto esempio da sottoporre ad analisi. Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino hanno vinto agevolmente lo Strega; anche se forse rientrano quasi al limite, nella tipologia qui indicata. Infatti Bufalino gioca la carta che, in fondo, resta ai nostri giorni la più sospetta e pericolosa, quella della iper-letterarietà. Oggi sono tutti vaccinati contro di essa, al punto che appare matura per essere riportata «dentro», per divenire una delle risorse di nuovo consentite alla ricerca. In effetti, Bufalino sembra adottare un tono provocatorio, per quella sua lingua così enfatica, ricalcata da qualche modello barocco più ancora che ottocentesco: quasi la lingua del manoscritto anonimo simulato dal Manzoni, con intento di parodia, di distacco ironico. Il lessico di Bufalino si compiace di frapporre tra sé e l'uso corrente ogni possibile distanza, riesumando vocaboli rari, di quelli che magari esigono di essere chiariti da un glossarietto opportunamente allegato in fondo al libro. Desueta e polverosa la lingua, altrettanto si dica dei luoghi e dei temi della vicenda: una fosca isola, sede di un buio carcere borbonico, pronto del resto a incupirsi ulteriormente con le ombre dei molti stereotipi accumulati su un simile tema dalla narrativa di tutti i tempi. Cupi e truci anche i cospiratori che in cella attendono l'alba, in cui verranno sottoposti al supplizio estremo, e intanto, per ingannare l'attesa, imboccano la via ugualmente stereotipata del ricalco del Decamerone, raccontando a turno una storia tratta dalla propria esistenza. Storie, inutile dirlo, anch'esse improntate alla frequentazione degli stereotipi più stilizzati e letterari, improntati ai dualismi di amore e morte, crudeltà e magnanimità, ricchezza e miseria, fortuna e disgrazia. A dire il vero, se i narratori-protagonisti sono solo quattro, non manca una quinta misteriosa presenza, che essi credono fidata e sintonizzata sui loro destini. Ci sarà invece un romanzesco colpo di scena finale che ci porterà a scoprire come in quella tacita figura si nasconda addirittura il governatore dell'isola, che così riesce a carpire ai condannati un segreto, impeden- .. do loro di portarlo nella tomba; ma anche costui è figura tarpata dal dubbio, dalla malattia, dal vanitas-vanitatum, con cui Bufalino si affretta a cancellare gli svolazzi barocchi che viene vergando sulla pagina, quasi per farsi perdonare della loro inutilità. Se tutto è polvere e nulla, ci si 'può ben divertire a mettere in campo forme pompose e gonfie; se dopo la recita si spengono le luci, perché questa non dovrebbe essere magniloquente, roboante? Bufalino dà l'impressione di sfiorare spesso la salvezza. Come già ricordavo, l'iper-letterarietà (il remake, la citazione) sono tra le vie resesi disponibili alla ricerca del nuovo, secondo una delle prospettive del postmoderno. Non per nulla in arte sono comparsi i cosiddetti Anacronisti, e questo è anche il termine invocato dall 'Autore a propria giustificazione, nel risvolto di copertina. Ma la citazione non è il rifacimento integrale, essa deve pur situarsi rispetto al materiale di base, ritrovare una qualche distanza critica; è buona norma che intervengano le debite virgolette con cui si dichiara il debito, si intenziona il furto, e quindi lo si riscatta. Chi non usa le virgolette fa come se non ci fosse distanza di tempi, di storia, di fini, soffre di nostalgia, un po' come un travestito che sia pronto a gettar all'aria gli indumenti artificialmente assunti. Purtroppo è questo il caso di Bufalino, un nostalgico allo stato puro, mal situato nel contesto dell'oggi, proteso appunto a ricostruire ambienti, stili, maniere di passate stagioni. Un esercizio che magari produce un suo fascino, ma proprio di chiunque esibisce un'abilità gratuita, fine a se stessa. I lettori che lo hanno premiato nutrono, evidentemente, vistosi complessi di inferiorità, non ancora smaltiti, verso tutto ciò che sa di cultura, di letterarietà, e ritengono che gli spetti un compunto omaggio. P iù abile e insidiosa la letterarietà cui si ispira il romanzo della Loy; in questo caso la scrittrice ha ben compreso che bisogna partire da una mossa tattica di segno opposto, fingere cioè di maltrattare la letteratura, e anzi, di prendere il via da situazioni e forme anti-letterarie. Come è noto, Le strade di polvere mettono in scena un povero mondo contadino di ambiente piemontese, i cui termini cronologici si situano tra i primi dell'Ottocento e la terza delle guerre risorgimentali. Ma è un parametro del tutto estrinseco, giacché i riferimenti storici servono, semmai, proprio per dimostrare che il tempo interno, nella povera vita contadina, non passa mai, riedita ciclicamente gli stessi drammi ed eventi, anzi, non-eventi: nascite e morti, carestie, inondazioni, saccheggi da parte di eserciti, che sono sempre nemici, da qualunque parte si schierino. Del resto, abbia~ mo tutti imparato a memoria, fin dai banchi di scuola, che il nostro Risorgimento è stato fatto da pochi nobili e borghesi illuminati, e che soprattutto il quarto stato vi assisteva indifferente, conscio che, tanto, la sua malasorte non sarebbe cambiata, comunque fossero andate le cose. Ma questo è il guaio in cui incorre la Loy: purtroppo il mondo del pauperismo contadino non cela più segreti, dal punto di vista di un'indagine letteraria o sociologica: ne conosciamo a fondo tutti gli snodi, e quindi essi sono ormai divenuti non più che stereotipi, pronti a un uso di raffinata e un po' vacua letteratura: come è nel caso della nostra autrice, demiurga che da un'olimpipagina 11 ca, stellare lontananza dalle vicende narrate, gioca ai dadi, assegnando alle sue marionette, come viene viene, un destino crudele (morte per parto, o per infezione), o invece prospero, magari capovolgendo, qualche pagina dopo, le sorti e arrecando una legnata a chi invece stava procedendo a gonfie vele, tanto per mostrare che di demiurgo davvero si tratta, con l'opportuna imparzialità e cecità della sorte. Naturalmente, tanta acqua è passata sotto i ponti, che gli stereotipi del pauperismo hanno finito per stingersi, per stilizzarsi, come del resto è nel destino di ogni stereotipo. Inoltre esiste pure quello che si dice il «segno femminile», cioè una gentilezza di mano, di scrittura; sommando questi due ordini di cause, si ha appunto la scrittura fine e squisita della Loy, che mentre ricalca le «strade di polvere» (quelle davvero degne di essere così designate) di un Verga, o di un Calandra, non può non rivelare una buona conoscenza di Virginia Woolf e in genere della narrativa novecentesca; e quindi i dettagli inutili prendono una certa consistenza, nella vicenda, fin quasi a sollevarsi alla proverbiale dignità delle epifanie. Non per nulla spiccano su tutto i suoni del violino pizzicato da un «inetto», da un «vinto», il Giai, contadino incapace di far fruttare i campi, di produrre figli, di rimpinguare la «roba», destinato anzi a una morte precoce, da cui tuttavia riesce a esalare, se non altro per quei suoi suoni eterei, che divengono un leit-motiv dell'intera storia, contribuendo a farne una non-storia. E riconosciamo pure che questa poteva essere la via di salvezza, per la Loy. Infatti è ancora tanta e tale, la presenza massiccia dei «topoi» caratteristici del dramma ottocentesco di specie naturalista, incentrati sulla dura lotta contadina o proletaria contro la penuria, per una sussistenza elementare, che riesce ancora possibile rivisitarli, in pieno Novecento. Un grandissimo dei nostri giorni, Garda Marquez, ci vive e ci prospera, basti pensare all'opera che ne ha costituito il primo successo internazionale, i Cento anni di solitudine. E in fondo, anche la nostra avrebbe potuto stendere i suoi «settant'anni di solitudine», di una condizione contadina abbandonata a se stessa, non alleviata da alcuna forza esterna, affidata solo alla solidarietà viscerale delle molte nascite, delle braccia, degli affetti, chiamati a erigere un muro contro la malvagità umana e naturale. Ma allora bisogna puntare su una grandiosa parabola di decadenza progressiva, il che invece non riesce alla Loy; essa anzi, in questo senso con qualche fedeltà alla storia, non può mancare di indicare che, alla fine, e col passare dei decenni, col maturarsi delle condizioni socio-economiche, «arrivano i nostri». La saga contadina esce dal suo isolamento, alcuni dei suoi membri raggiungono il mondo aperto, vanno addirittura a vivere in città, a Genova o ad Ancona; uno di loro fa carriera nella magistratura. Insomma, il sistema non è più chiuso nella sua perfezione, ma comincia a conoscere falle, punti di fuga, che ne abbassano lentamente la tensione; esso, in fondo, si svuota come un otre forato, si illanguidisce, si spegne in un finale «pianissimo». In realtà, se pensiamo agli anni (ultimi decenni del secolo scorso), a quella data il dramma, la tragedia dei «vinti» di sapore verghiano erano ancora tutti da giocare: ma quelli veri, ben lontani dall'essersi trasformati in comodi stereotipi di un e~ercizio letterario.

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