A più voci Nel 68 Madera Taccuini Rosso, Rella, Del Giudice Pacchetti Stroncature Barilli Tocqueville Esposito La responsabilità del filosofo Fistetti Ecologia Fiorani Saggi Heidegger . nel suo contesto Maldonado Il futurismo è tutto da ripensare De Marchis Cfr Poesia Mostre Riviste Recensioni Nuova serie Ottobre/Novembre 1988 Numero 113 / Anno IO Lire 6.000 Edizioni Nuova Intrapresa Via Caposile, 2 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo III/70 • Printed in Italy Prove d'artista Francesco Leonetti Omar Galliani
pagina 2 Le immagini di questo numero I contorni incerti R appresentare il ves~ito~ntorno a un corpo e un operazione che richiede una doppia attenzione: da un lato è necessario evidenziare la flessuosità e i volumi dinamici del corpo senza con questo, dall'altro lato, appiattire le forme autonome del vestito sulla superficie di chi lo indossa. L'esaltazione di uno dei due elementi costituisce un limite alla rappresentazione, se l'intenzione è quella di far vivere concretamente il rapporto contenente-contenuto. La documentazione antropologica dei nostri comportamenti e dei significati che affidiamo ai segni che indossiamo, transita all'interno sia de/l'indumento-immagine sia dell'indumento-scritto: «Apro una rivista di moda: vedo che vi si trattano due indumenti diversi. Il primo è quello che mi viene presentato in fotografia o in disegno, è un indumento-immagine. Il secondo è ancora questo indumento, ma descritto, trasformato in linguaggio. Questo abito fotografato a destra, a sinistra diventa: cintura di cuoio al di sopra della vita con una rosa appuntata, su un abito morbido in shetland. Questo indumento è /'indumento scritto; questi due indumenti, benché rimandino alla stessa realtà, non hanno la stessa scrittura». Roland Barthes così distingue tra parola e immagine nel Sistema della Moda; le immagini che «Alfabeta» presenta in questo numero sono all'insegna sia de/- /'indumen'to-immagine sia di una rappresentazione fotografica dove corpo e vestito sono risolti in uno spazio e in un tempo con un unico valore comunicativo. La forma delle immagini di Paolo Roversi legge il percorso creativo di Romeo Gigli non sovrapponendosi allo specifico della professione e della sua progettualità, ma esaltando la corporeità risolta in questi straordinari contenitori che casualmente sembrano adagiati sulle modelle. Accanto alla rappresentazione visiva degli abiti di Romeo Gigli non compare mai una descrizione verbale: questo accade sia per cataloghi di collezione sia per la pubblicità sui quotidiani, dove, al massimo, il testo di presentazione è affidato a una serie di citazioni che, solo apparentemente, nulla ha a che fare con l'immagine. Alcuni esempi: «con frasi di lieta poesia, i fiumi e le foreste sono invitati ad applaudire» (/'«Osservatore Romano», 4 settembre 1988), oppure, «Di notte quando il pendolo dell'amore oscilla tra Sempre e Mai s'imbatte la tua parola nelle lune del cuore» (Paul Celan). Così sono anche le fotografie di Paolo Roversi: sono immagini aperte, particolari di vita vissuta, gesti inconsueti, visi e contorni parziali di corpi, volumi incerti, incerti dal punto di vista ottico sono, spesse volte, anche i contorni, gli occhi, le mani, le forme. 1 vestiti di Gigli vivono in questa atmosfera un'esistenza solo apparentemente effimera, perché ciò che rimane impresso nella mente non è tanto l'insieme dell'abito quanto la scioltezza e la fluidità delle forme degli indumenti. Dal punto di vista fotografico, ma soprattutto sul piano di una strategia comunicativa che non si esaurisce nella cronaca stagionale, la visibilità non totalmente referenziale delle fotografie di Paolo Roversi parla il linguaggio della continuità e della permanenza, proprio perché i particolari dei gesti e delle forme sono al di fuori del tempo; un linguaggio riconoSominario Cirò Sbailò Eleonora Fiorani Omar Galliani Patmos Alfabeta 113 Ottobre/Novembre 1988 L'ultima tentazione di Cristo e gli iconoclasti pagine 7-8 pagina 39 scibile rende possibile l'infrazione delle regole tradizionali per la presentazione di un prodotto, di un'opera. In un testo del 1938, dal titolo emblematico Le consolazioni della fotografia, così scriveva Man Ray a proposito del tremore del fotografo: « Fotografo, sorridi anche tu, ma se la mano ti trema troppo, lascia la tua macchina fotografica e prendi una matita. li tremito della mano passerà per eccesso di sensibilità. Per quanto tu possa fotografare la più bella donna del mondo o una patata, farai gli stessi gesti, e ci riuscirai se la macchina fotografica non tremerà nelle tue mani». Nel caso delle immagini di Paolo Roversi, la consapevolezza del tremore diventa linguaggio nel segno della riconoscibilità dell'autore delle opere, cioè di Romeo Gigli; anche l'uniformità nebbiosa dei toni di grigio, della cromaticità controllata fanno parte di una forte tensione progettuale, controllata professionalmente e razionalmente. li corpo emerge dalle fotografie di Paolo Roversi come bianco su toni grigi, blu-verdi, quasi a delineare la complementarietà tra le parti e il tutto, dove il tutto, in questo caAlfabeta 113 so, è costltulto dal vestito. L'imperfezione voluta (dal punto di vista tecnico) rappresenta un segno di identificazione, di chiarezza comunicativa perché non potrà mai esistere una totalità visiva in grado di mostrarci l'intero. Le parti, le particelle di moda che compaiono nelle immagini di Roversi sono l'unico linguaggio possibile per descrivere un itinerario progettuale fondato, il più delle volte, proprio su una professionalità che non grida, ma sussurra le sue qualità. Là dove, invece, è protagonista una forte presenza urlata, sia la fotografia sia l'oggetto rappresentato si confondono con il flusso indifferenziato delle immagini pubblicitarie: il binomio Romeo Gigli e Paolo Roversi è invece legato a una tradizione culturale in cui parole e immagini hanno ancora un loro preciso significato, al di là della stretta referenzialità, entro la quale il sistema della moda acquista un valore puramente economico. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Piero Del Giudice Come funziona oggi la 180 pagine 8-9 La disciplina dell'ecologia (Histoire de l'écologie, di P. Acot; Le choc du future, di A. Toffler; Verso una teoria geografica della complessità, di A. Turco) Le immagini di questo numero I contorni incerti di Aldo Colonetti Mensile di informazione culturale Pubbliche relazioni: Monica Palla A più voci Franco Rella La cosa è la marca pagina 3 Franco Mendico Le storie vere a prezzo Fiat pagina 3 Maurizio Ferraris Disincanto come tragedia pagine 4 Stefano Rosso La polemica su de Man giovane pagine 5-6 Romano Madera In onore della sconfitta pagine 6-7 Avviso ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per/ paccheui di Alfabeta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 I pacchetti di Alfàbeta Renato Barilli Stroncatura di Bufalino e Loy (Le menzogne della notte, di G. Bufalino; Le strade di polvere, di R. Loy) pagina 11 Roberto Esposito Alexis de Tocqueville (Viaggio in lnghilterra del 1833, di A. de Tocqueville; Tempo di democrazia, di F.M. De Sanctis; Tocqueville. Un tentativo di sintesi, di A.M. Battista) pagine 12-13 Francesco Fistetti La responsabilità politica del filosofo tedesco (L'autoaffermazione del!'Università tedesca, di M. Heidegger; Heideggers politische Selbstverstiindnis, di O. Poggeler; L'infiltrazione della critica della metafisica nel razionalismo occidentale, di J. Habermas; La trascendance finit dans la politique, di Ph. LacoueLabarthe) pagine 13-14 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai •libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei lipagine 14-15 Cfr Cfr/da Parigi pagine 17-18 Cfr/da Berlino pagine 18-19 Cfr/Mostre pagina 19 Cfr/Poesia pagine 21-22 Cfr/Altri libri pagine 22-23 Cfr/Recensioni pagine 23-30 Saggi Tomas Maldonado Heidegger nel suo contesto pagine 31-33 Giorgio De Marchis., Il futurismo è tutto da ripensare pagine 34-35 Prove d'artista Francesco Leonetti Le cose del cielo pagine 36-37 bri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla .redazioIn copertina: disegno di Andrea Pedrazzini Errata corrige Nel numero 110/111 nella poesia di Piero Bigongiari sono sfuggiti tre refusi: in luogo di «in un minuto gocciolio di piante» bisogna leggere «... di pianto»; in luogo di «luce viola giù nell'ombra andare»« ... già nell'ombra andare» e in luogo di «mentre che la versava andava incontro» «... chi la versava ... ». Ce ne scusiamo con l'autore e i lettori. ne vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabeta» è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - della cooperativa Alfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi • Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Marco Santini Antonella Baccarin Editing: Luisa Cortese Edizioni Cooperativa Nuova Intrapresa in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Arti Grafiche Brugora Via Reggio Emilia, 27 20090 Segrate Distribuzione: Messaggerie Periodici S.p.A. V.le Famagosta 75 20142 Milano Telefono (02) 8467545 Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta àerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direuivo
Alfabeta 113 A più voci pagina 31 Taccuini La cosa è la marca L a cosa è il problema del pensiero del moderno. Lo ha mostrato Heidegger in uno dei suoi testi più tesi e importanti, intitolato appunto Die Frage nach dem Ding (La questione della cosa; o meglio: la domanda che insegue la cosa). Lo ha mostrato Benjamin, che della redenzione delle cose dal loro essere mute ha fatto il compito del suo pensiero e della sua vita. Lo hanno mostrato i grandi scrittori, da Proust a Becket, al Calvino di Palomar, che si sono scontrati contro la sostanziale ambiguità e opacità delle cose. I «nuovi narratori» italiani hanno trovato una via d'uscita, e la percorrono trionfalmente. Ha iniziato Daniele Del Giudice, che ha dichiarato la sua passione per i manuali per l'uso delle cose, che ci permettono di definirle, e dunque di circoscriverle e tradurle in un orizzonte nuovo e concreto. Lo stesso Del Giudice ha celebrato la capacità di Arduino Cantafora di parlare non del selciato delle vie, ma dei «cubetti di ardesia»; non di un ascensore, ma dell'ascensore Stigler. Ora il discorso si fa più stringente nel dialogo («Il Manifesto», 3-4 luglio 1988) fra Severino Cesari e Mario Fortunato (autore di una serie di racconti F inché il lavoro letterario sarà svolto da uomini, con tutta la loro dotazione di bisogni e di appetiti, è inevitabile che la storia della letteratura continui a possedere postille che riguardano i problemi economici degli autori. Sono oramai famosi, e fanno parte del mito del personaggio, i debiti di Balzac e D'Annunzio, la rovina al giuoco di Dostoevskij, la ricchezza consolidata dell'ultimo Hemingway. Quanto precede deve suonare un po' come giustificazione per la scelta di un argomento che strettamente letterario non è, ma ha comunque con questa antica e discussa attività rapporti non casuali, e può quindi essere ospitato su queste pagine e non su quelle, poniamo, del «Financial Times». All'origine di tutto, diciamo subito, c'è lo sdegno. Avviene che un diffuso periodico di attualità automobilistiche, pubblicato fra l'altro dal più grande editore italiano, ospiti una rubrica di collaborazione èlei lettori:' sono «storie vere» che hanno come tema fisso, naturalmente, l'auto e la guida. Va detto subito che si tratta di componimenti di una banalità sconcertante, e che anche sulla loro autenticità io credo si possa nutrire più di qualche dubbio. Ebbene, il compenso previsto per questi puerili pezzi è di L. 1.262.250, è cioè (cito testualmente) pari a «quanto mediamente spende in benzina in un intero anno l'automobilista medio». L'importo- è circa quatFranco Re/la molto belli presentati anch'essi da Del Giudice per Einaudi). Scrive Severino Cesari: «Un paesaggio interiore pieno di parole come 'ecografia', una 'Ritmo azzurra'. Parlarne, dileggiare un poco gli italici vezzi del bello scrivere senza mai nominare gli oggetti». Cesari sa, certamente, che questa accusa agli «italici vezzi» ha una storia: è l'accusa che Giovanni Pascoli aveva rivolto a Giacomo Leopardi. Mario Fortunato non ci_pensa, «a giudicare dal sorriso», e infatti, dopo le parole di Cesari, «perfino riprende» a dire che in America nessuno sale su un'automobile, ma su una Oldsmobile, «e nessuno 'fuma sigarette' piuttosto fuma Lucky Strike ... come me. Il romanzo italiano ha come paura ad affrontare gli oggetti nella loro nudità. Molti oggetti nel nostro mondo, nella loro nudità, hanno nomi che sono marche, marchi. È naturale per me scrivere una 'Ritmo azzurra' ... », «... non una 'Fiat', sarebbe ancora astratto ... ». «Appunto. Mi sembra quasi un dovere chiamare le cose». La cosa nella sua nudità, nella sua verità, è dunque la marca. Ricordo anch'io che Mike Hammer, nei romanzi di Spillane, fumava solo Lucky Strike. Qualche sospetto, Taccuini .. che questo uso non fosse una maggiore prossimità alla verità delle cose nel mondo, a me era venuto nella mia prima adolescenza, quando leggevo due belle collane: «Il giallo» e «I libri che scottano». Lì il protagonista, di ogni libro, anche di autori diversi, beveva sempre vermouth Cinzano. Dapprima ebbi un moto di orgoglio nazionalista. Il sospetto nacque quando mi capitò di leggere questi libri nelle versioni originali: i protagonisti bevevano, con maggiore probabilità, del bourbon senza marca! Il sospetto per questa sorta di teologia salvifica delle cose nel loro marchio si è approfondita proprio a contatto con una tradizione tutta italiana. Ripensiamo ai film italiani degli anni Settanta. Il protagonista non fumava mai una sigaretta, ma sempre Marlboro, con il pacchetto rosso sollevato quasi esibisse il simbolo della croce. Non accendeva mai la televisione, ma sempre una Brion Vega. Saliva sulla 132 metallizzata, per inseguire Stefania Sandrelli che sgommava con la Ritmo rossa. Chiamare le cose con il loro marchio, non pare dunque la rottura con la tradizione degli «italici vezzi del bello scrivere», quanto piuttosto inserirsi in una tradizione in cui storievere tro volte quello che qualsiasi scrittore italiano, fosse pure insignito del Nobel, potrebbe aspettarsi per la collaborazione a qualsiasi prestigiosa rivista culturale. Perciò io non credo che si debba esitare a usare il termine «scandalo». Solo apparentemente la situazione è la stessa dei vari quiz televisivi, nei quali impiegati e casalinghe vengon osannati e resi milionari per aver saputo indicare, non senza esitazioni, l'autore dei Promessi sposi. Qui l'alternativa non c'è, perché sarebbe inimmaginabile un quiz per professionisti delle varie discipline; il dilettantismo è d'obbligo. Si potrebbe moderare le cifre, ma c'è il problema dell'audience: lo spettatore, è dimostrato, si appassiona di più al giuoco se la posta è grossa, e non per la speranza più o meno confessata di poter un giorno partecipare e vincere a sua volta, ma proprio per una sorta di mentalità sportiva, di condizionamento psicologico, che attribuisce valore alla gara in proporzione alle dimensioni della posta in palio piuttosto che all'exploit dei concorrenti; come, ad esempio, una partita di Serie C potreb- • be in teoria essere giuocata meglio di una di campionato del mondo, ma non potrà mai ricevere lo ·stesso interesse. Ora, questa esigenza non si presenta nel caso della pubblicazione in esame, non esistendo una gara dichiarata fra i partecipanti. Non si vede quindi come possa giustificarsi la sproporzionata entità del compenso; non come esca per i potenziali collaboratori, perché un terzo o un quarto della cifra costituirebbe già un richiamo sufficiente per dei dilettanti, dal momento che lo è per qualunque anche affermato scrittore di professione; non per i lettori perché solo una minima parte di loro aspirano a collaborare. Resta solo l'ipotesi di un fenomeno di spreco e di malcostume. Va aggiunto che lo stesso settimanale dispone anche di una rubrica in cui un narratore italiano non fra i peggior né fra i più sconosciuti pubblica suoi brevi Autoracconti, che non sono cose di grande rilievo ma hanno comunque quel quid che fa la differenza rispetto al puro dilettantismo; è abbastanza evidente, e vorrei sbagliarmi, che il compenso per questa collaborazione non raggiunge i livelli delle citate «storie vere». Il suggerimento che a questo punto scaturisce dalla vicenda è del tutto ovvio: visto che il dilettantismo è premiato, l'autore di racconti, sempre alle prese con problemi di sopravvivenza o almeno di legittima resa economica del suo lavoro, si celi sotto le mentite spoglie di un dilettante, si finga operaio, pensionato, casalinga, trasformi le sue fantasie in pseudoverità, e collabori. Nessuno si accorgerà del trucco, perché, e questo i redattori del settimanale forse non lo sanno, nessuna storia sembra più ·vera di una inventata da chi sa inventare storie. il mercato ha cancellato ogni traccia di ambiguità e di mistero dalle cose. Novalis diceva che il regno del poeta è il cuore, il centro focale del suo tempo. Il centro focale del nostro tempo è certamente nello sguardo nuovo che portiamo sulle cose materiali e sulle cose immateriali, che determina una de-situazione atopica (uno stiramento) rispetto agli spazi percettivi in cui abita la nostra esperienza abituale del mondo. Affrontare questo spazio in termini banalmente tecnologici, trasformando la lettura del mondo nella lettura dei logotipi pubblicitari delle cose che abitano il mondo, mi pare quasi tentare di restituire lo «spirito del tempo» degli anni Sessanta con una canzone di Mina a sottofondo, o degli anni Ottanta con l'amplificazione del fruscio del proprio Persona! Computer, anzi del proprio Olivetti 240. Autunno Inverno 1983-1984
I _Pagina4 N on è vero che il processo di secolarizzazione, della risoluzione di ogni trascendenza entro un orizzonte interamente storico e mondano che ha investito la nostra modernità (o in cui, più precisamente, consiste l'essenza del Moderno), rappresenta una definitiva presa di congedo dal mito. Al contrario, la secolarizzazione ha senso e valore solo entro un dominio mitico, proprio perché noi possiamo sentirci moderni - emancipati dalle favole del passato e pienamente inseriti nel secolo, nella storia e nell'orizzonte puramente umano che ci costituisce - solo nella misura in cui concepiamo questa nostra modernità come una indefinita presa di congedo dal mito. Siamo secolarizzati solo in quanto ci autocomprendiamo come coloro che non credono più nel millenarismo e nelle sue apocalissi; ma questa è precisamente una apocalissi, lo svelamento di un mito velato, la modificazione determinata di un decorso favoloso e mitologico. Il secolo come variabile dipendente del millennio. In ciò si radicano le ragioni di un pensiero tragico, che non è una forma superata di riflessione, ma piuttosto si presenta come la presa di coscienza dell'inevitabile destino di secolarizzazione a cui è rimesso il mito, e al tempo stesso della sopravvivenza costitutiva del mito nell'orizzonte secolarizzato: «la contestazione del mito è interna al mito stesso e ne può di fatto rappresentare la crisi solo miticamente, come appunto accade nella tragedia, che non è se non la rappresentazione mitica di questa crisi» (p. 8). Questa, in breve, la tesi da cui prende l'avvio l'ultimo libro di Sergio Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, (11 Saggiatore, 1988). In questo punto di partenza approdano gli esiti di buona parte della filosofia tra Otto e Nocevento; da Nietzsche, che ha saputo coniugare l'impresa di uno smascheramento radicale delle credenze conoscitive e morali con un processo almeno altrettanto risoluto di Ti-mitizzazione («vengo dal tragico e vado verso il tragico», scrive Nietzsche opportunamente citato da Givone). A Heidegger, che ha visto il progetto di oltrepassamento della metafisica non come un semplice andare di là dalle persuasioni del passato, che comunque ritornano in forma tanto più tenace quanto più inconsapevole in coloro che credono di essersele scrollate di dosso con un gesto troppo semplice - bensì invece in un ripercorrimento pensante di ciò che è stato tramandato, perché solo in un simile ininterrotto confronto (che Heidegger chiama Destruktion o Abbau, e che noi ora, sulla scia di Derrida, definiamo per lo più come decostruzione) è possibile tentare qualche passo di là dalla metafisica. Ma si pensi ancora a figure come Lòwith o come Bultmann: per il primo, la filosofia della storia non è che la asintotica secolarizzazione della storia sacra, del destino di redenzione promosso all'umanità dalla religione cristiana (così che da Agostino e da Orosio un filo,continuo si stende sino a Hegel e a Marx: e, si badi bene, il processo non è a senso unico, proprio per la figura ancipite della secolarizzazione: quanto più il millennio si dissolve nel secolo, tanto più il primo si conserva tenacemente nel secondo, come suo fondaA più voci DishlCanto mento avverso e come sua ragion d'essere). Per Bultmann, addirittura, la vocazione propria della storia sacra, il kerygma, l'annuncio messianico del Dio che si fa carne e sangue, è il segno della secolarizzazione come vocazione più profonda del sacro: l'antico testamento è secolarizzato dalle cosmologie assire e babilonesi, il nuovo testamento è secolarizzato dall'antico, e il nostro mandato di interpreti della Bibbia è portare a compimento questa impresa di demitizzazione, assecondando, dunque, e non negando o tradendo, il dettato del kerygma. E il catalogo non può dirsi completo se non si include anche la Dialettica dell'Illuminismo, dove Horkheimer e Adorno tematizzano l'inconsapevole irretimento dell'Illuminismo da parte del mito - di modo che la razionalità, proprio nelle sue pretese di autonomia e di secolarizzazione, mette in opera un procedimento che è il semplice rovescio speculare delle posizioni teologiche: un orrore mitico guida la condanna illuministica del mito, la ragione mondana e pubblica erige inavvertitamente una propria mitologia, la mitologia della ragione. La ragione, nel dipartirsi dal mito e dal tragico, opera una Aufhebung: supera ma, nel superare, conserva, trattiene in sé il proprio fondamento avverso, e lo perennizza. Givone percorre sistematicamente gli ambiti di questa Aufhebung, che per comodità di esposizione potremmo riassumere nelle forme hegeliane dello spirito assoluto - l'arte, la religione, la filosofia. Così la poesia nell'età moderna non può più trovare riparo nel rapporto immediato con la favola e con il mito, e più precisamente non solo non può più essere «ingenua», secondo la caratterizzazione con cui Schiller qualificava il rapporto dei classici con l'arte - •ma nemmeno più è in grado di essere «sentimentale» (che, ancora schillerianamente, era il modo della prima modernità romantica di intendere la poesia vagheggiando una ingenuità perduta). Né ingenua né sentimentale, la grande arte del Novecento (che per Givone è anzitutto e essenzialmente quella delle avanguardie) è chiamata al silenzio e alla negatività: «Non deve essere. Il bene, la gioia, la speranza non devono essere, vengono ritirati, si devono ritirare», leggiamo nel Doctor Faustus, in un passo che a buon diritto Givone qualifica come «assolutamente cruciale [... ] per tutte le poetiche novecentesche». (p. 25): il disincanto del mondo, la perdita di ogni rapporto con il mito, anzi la volontà ostinata di precludersi una consolazione non più credibile, non si risolve affatto nel «mezzogiorno degli spiriti liberi»; o, almeno, questo mezzogiorno non è troppo euftnico, percorso com'è dal pathos nichilistico di un mondo interamente umano (col che però il tragico, escluso con lo stesso gesto che si emancipa dal mito, riappare nella constatazione delle conseguenze di questa emancipazione). Questo è anche il caso della religione, che va in un senso secolarizzante (secondo quella vocazione che abbiamo tratteggiato più sopra in Bultmann) in base a una duplice serie di argomenti, che si succedono in un ordine di crescente radicalità senza escludersi a vicenda. Il primo, di tipo storico, muove dalla constatazione per cui molto presto, entrando in contatto con l'ellenismo, il cristianesimo accede a un universo secolare di certezze storiche e filologiche, così che il paradosso della fede diviene presto doxa legittima e giustificata discorsivamente secondo le forme più canoniche del logos greco (un logo che, se seguiamo il Nietzsche della Nascita della tragedia, si afferma sulla morte del tragico e del mitico: per bocca di Euripide, uccisore della tragedia, parla Socrate, e si inaugura così quell'argomentare per arguzie e sillogismi che sostanzierà la commedia nuova). Più impressionante e intrinseco il secondo argomento: il cristianesimo, ben prima del contatto con l'ellenismo, e dunque già nelle forme più arcaiche dell'antico testamento, contiene il principio che lo consegna al secolo e al nichilismo come manipolazione del mondo per opera di una ragione soggettocentrica incurante del divino: «già nell'idea di 'creatività' (e di creaturalità) stabilisce il nesso che lega tecnica, autoimposizione e dominio» (p. 109). Non solo l'etica protestante sta alla base dello spirito del capitalismo, ma più radicalmente e anticamente il principio della trasformazione industriale del mondo trova la propria cauzione nella creazione divina. «Perciò accade sempre più spesso che il nichilista, per lo più a ragione, si senta in diritto di impartire lezioni di cristianesimo al cristiano» (p. 110). Più complicato il caso della filosofia. «Univoco è il sapere filosofico, doppio il sapere tragico: perciò sono incompatibili» (p. 113). Per una filosofia intesa in senso metafisico, il logos non potrà mai contaminarsi con la duplicità del tragico; e infatti quando Socrate diventa l'ideale della gioventù ateniese, Platone brucia le proprie tragedie per farsi discepolo del nuovissimo demone. Più tardi Platone sosterrà che la filosofia è fatta per tranquillizzare i fanciulli, così come Descartes affermerà che si può fare filosofia solo quando si sia superato il dubbio iperbolico, l'idea di essere pazzi, per esempio, e si sia raggiunta per questa via l'auto-assicurazione del cogito. «Ma ciò non toglie che questo processo, al suo culmine, appaia destinato a invertirsi» (p. 95). Nella Nascita della tragedia Kant e Schopenhauer erano indicati come coloro che, portando a perfezione la vocazione conoscitiva del pensiero filosofico, avevano revocato l'ottimismo teoretico che informava l'ethos antitragico della dialettica socratica e platonica. Così in Hegel il passaggio dalla tragedia alla filosofia è problematico, e solo piuttosto tardi l'ultimo grande metafisico arriverà alla conclusione che le ferite dello spirito possono sempre rimarginarsi, che cioè il travaglio dialettico (che assume in sé, nel proprio movimento, la duplicità del tragico) possa infine giungere a una conciliazione che decreta la morte della tragedia, il superamento della lacerazione e il tranquillizzarsi dello spirito. Tutta la filosofia dopo Hegel va nel senso del tragico, proprio nella misura in cui contesta la metafisica e, con essa, l'idea di univocità del logos che la sostanziava. E questo movimento nel senso del tragico può essere sia diretto, là dove ci si richiama alla inconciliabilità della condizione umana, per esempio, sia indiretto, quando la tematizzazione Alfabeta 1131 gnoseologica della crisi dei fondamenti approda a una gratuità propriamente tragica, per cui il mondo appare sospeso su un abisso casuale e vano: «La vera forza del pensiero tragico è la sua gratuità. Gratuito è un gesto che capovolga quello platonico della fondazione della filosofia come antitragedia» (p. 115). Come dobbiamo intendere questa rinascita della tragedia che va di pari passo con la morte della filosofia? Per il giovane Nietzsche la via era quella della musica, la figura del Socrate cultore di musica che rinascendo nella corale luterana e culminando con Wagner avrebbe aperto lo spazio di un pensiero tragico. Non per caso, tuttavia, Nietzsche andò incontro alla delusione dei festeggiamenti wagneriani di Bayreuth, alla farsa di un grand'uomo che recitava la commedia del proprio ideale, che si «cristianizzava» e che, dimesso lo spirito tedesco in senso nobile, abbracciava gli ideali della nuova Germania precipitando in un baratro (anche quello, a suo modo, tragico) di interesse, volgarità e banalità. A una sorte non dissimile sembrava destinato lo stesso Nietzsche, che forse la accolse scientemente (ma fino a che punto?): non solo i biglietti della follia scritti a Torino nell'epoca del crollo psichico, ma già l'iperbole lirica dello Zarathustra - la mancanza di stile che attraversa quell'opera ritenuta da Nietzsche capitale - testimoniano di questo risolversi della tragedia nella farsa. Il tragicomico molto più che la tragedia antica e perduta costituisce anche per Givone l'orizzonte verosimile di un pensiero tragico contemporaneo. Leggiamo ad esempio in un passo su Kierkegaard: «Se è vero che noi, oggi, 'traffichiamo molto di più col comico', è anche vero che il comico non lo conosciamo se non tragicamente, cioè come 'disperazione'. Questo dice Kierkegaard: o la religione ritrova il tragico in sé e sé nel tragico (tuttavia superandolo, nel senso della 'più alta tragedia') o diventa comica, disperatamente comica. Della tesi per cui è nel declinante (fino alla comicità) e antitragico orizzonte cristiano che si presenta la possibilità di pensare il tragico stesso, ecco un'anticipazione decisiva» (p. 144). Tragica è dunque l'impossibilità del tragico, tragedia è il dilagare della commedia. Ciò ha indubbiamente a che fare con delle difficoltà di tipo storico e linguistico: una tragedia, oggi, farebbe semplicemente ridere, proprio come molto spesso ci sorprendiamo colpevolmente a ridere delle sciagure altrui, sapendo del resto di essere contraccambiati, e perciò cadendo in una perplessità che ha molto a che fare con il tragico, senza tuttavia poter essere espressa, pena appunto la ricaduta nella farsa. Tutto questo, probabilmente, segna insieme lo splendore e la miseria di un pensiero del tragico, che può vivere solo ritraendosi, e che dunque non si rivela antitetico a un pensiero debole. In un orizzonte pantragico, quale è quello persuasivamente definito da Givone, la strumentazione sublime provoca patetiche dissonanze; l'estendersi planetario del tragico conferma la morte della tragedia. «Sarà così; solo che oggi e più tardi qui saremo proprio noi con una testa reale, dunque una fronte anche, da batterci su con la mano» (Kafka).
Alfabeta 113 A nversa si è «riappropriata» del suo ex-cittadino Paul de Man in un momento particolarmente delicato. Il convegno internazionale Paul de Man (Antwerpen - New Haven), tenutosi all'università di Anversa il 24 e 25 giugno, è stato inevitabilmente dominato dalla recente scoperta della giovanile attività giornalistica del celebre studioso. Non sono mancati interventi che prescindevano, almeno tematicamente, dal contenuto di tale scoperta (tra gli altri vanno almeno segnalati quelli lucidissimi, come sempre, di Rodolphe Gasché e di Carole Jacobs); tuttavia le energie delle discussioni erano prevalentemente assorbite dall'urgenza di interpretare quegli scritti, dalla riflessione sul modo in cui la stampa (soprattutto negli USA e nella Germania Federale) ha trattato la questione, e dalle possibili conseguenze di tale scoperta. Brevemente i «fatti». Tra la fine del 1986 e l'inizio del 1987, Ortwin de Graef, un giovanissimo studioso di Anversa, impegnato in una tesi di dottorato sull'opera di de Man, scoperse che il critico belga - nato ad Anversa nel 1919, emigrato negli USA nel 1947, là affermatosi verso la fine degli anni Sessanta e morto prematuramente a New Haven nel 1983 - aveva svolto in gioventù un'intensa attività giornalistica. Fino ad allora si era solo a conoscenza dell'attività di traduttore da lui svolta nel periodo bellico, e di suoi contributi (alcuni editoriali non firmati e due articoli) apparsi nei primi mesi del 1940 su «Les Cahiers du Libre Examen» (giornale del cercle d' étude dell'Université Libre di Bruxelles di cui de Man fu direttore per un breve periodo prima della cessazione delle pubblicazioni a causa dell'occupazione nazista): nessuno vi avev~ ovviamente prestato molta attenzione. Ma il contenuto della scoperta di de Graef è di ben altra entità, sia quantitativa sia qualitativa: a) 169 articoli (o forse più) apparsi tra il dicembre del 1940 e il novembre del 1942 sul noto quotidiano di Bruxelles «Le Soir»; b) 10 articoli per «Het Vlaamsche Land» (La terra fiamminga), apparsi tra il marzo e l'ottobre del 1942; c) 102 articoli (quasi tutti brevissime recensioni) per la «Bibliographie de l' Agence Dechenne» (febbraio 1942-marzo 1943). A tutto ciò vanno aggiunti 7 articoli pubblicati sulla rivista studentesca «Jeudi» tra il novembre del 1939 e il marzo del 1940, rinvenuti recentissimamente da Neil Hertz e Tom Keenan. I contributi più «significativi» sono quelli usciti su «Le Soir», un quotidiano di Bruxelles definito dallo storico del Belgio Jean Stengers «moderatamente collaborazionista» (il che vale anche per «Het Flaamsche Land» e l'«Agence Dechenne», mentre «Jeudi» e i «Cahiers» si ponevano in un'area confusamente antitotalitaristica e antitedesca). Si tratta per la maggior parte di recensioni di testi letterari o di studi di critica, di resoconti di mostre e spettacoli teatrali o musicali, dove i temi politici vengon prevalentemente affrontati in modo indiretto. In numerose occasioni de Man dimostra una cultura sorprendente per l'età e un approccio critico piuttosto anticonformista (in ambito letterario). Il suo linguaggio, tuttavia, non è affatto immune da una retorica a quell'epoca assai A più voci diffusa: metafore organicistiche incentrate sulla nozione di identità culturale, sentimenti nazionalistici e un eurocentrismo per noi oggi insopportabili. Nella loro globalità (ne ho letti solo 37 e mi baso in parte su informazioni fornitemi da de Graef) tali articoli sono difficilmente riconducibili a una coerente ideologia politica: ad esempio sembrano accettare come una necessità o addirittura caldeggiare il predominio culturale (e non solo culturale) della Germania, altri sembrano andare in direzione oppoin questione (anzi, lo cita per esteso) ma fa notare, tra l'altro: 1. che la scrittura di de Man non ha nulla a che vedere con la virulenza e odiosa retorica razzista che caratterizza gli altri articoli apparsi sul quel numero infausto di «Le Soir» e che fanno da cornice al pezzo di de Man; 2. che la tesi centrale dell'articolo non ha nulla a che vedere con gli ebrei e l'antisemitismo, anzi sembra opporsi all'«antisemitismo volgare». e paranoico in base al quale si sosteneva che gli ebrei avessero influenzato in modo I Primavera - Estate 1984 sta, mettendo in luce i grandi contributi della cultura francese o invitando a un'autonomia culturale belga che potrebbe essere interpretata in senso antitedesco. Numerosi articoli sono estremamente contraddittori e politicamente confusi. Ma un articolo in particolare ha creato scandalo e desolazione: Gli ebrei nella letteratura contemporanea (4 marzo 1941). Jacques Derrida ne ha fornito un'analisi dettagliata nel suo appassionato Like the Sound of the Sea Deep within a Shell: Paul de Man's War.1 Derrida - ebreo lui stesso - non cerca di minimizzare gli aspetti antisemiti del testo nefasto la letteratura occidentale; 3. che è perlomeno ambiguo il fatto che de Man citi come sommi esempi di letterati Gide, Kaflca, Hemingway e Lawrence, cioè un autore ebreo e nemmeno uno tedesco. Nonostante tutte queste contraddizioni l'articolo rimane dolorosamente «disastroso» non solo per il fatto che de Man abbia accettato di vedere pubblicato il suo pezzo in mezzo ad articoli raccapriccianti e non abbia interrotto la sua collaborazione a «Le Soir», ma soprattutto per la chiusa deplorevole e ambigua, in cui scrive che «una soluzione del problema ebraico che porti alla creazione pagina 5 di una colonia ebraica isolata dall'Europa, non ·comporterebbe conseguenze deplorevoli per la vita letteraria dell'Occidente». Sta di fatto che de Man non scrisse in nessun altro caso qualcosa di simile, anzi alcuni articoli possono essere interpretati in senso antisemita (cfr. ad esempio quello del 6 maggio 1941 in cui elogia Charles Peguy «dreyfusard jusqu'au bout») o sono più o meno esplicitamente antitedeschi. 2 Non vi è dunque alcuna prova che de Man fosse effettivamente antisemita o filonazista: esistono invece testimonianze di amici e conoscenti di allora in cui si sostiene in modo categorico e unanime il contrario. Se così stanno le cose rimane perlomeno in piedi l'accusa di opportunismo e di cinismo (scendere a patti con la censura-pur di mantenersi il posto di lavoro), oltreché, ovviamepte quella di scarsa maturità politica. Un aspetto va tuttavia sottolineato più di quanto difensori e accusatori di de Man non abbiano fatto: il fatto che egli dimostri una notevolissima cultura non deve far dimenticare che scrisse quegli articoli tra i 20 e i 23 anni, dopodiché tacque per dieci. D i fronte al caso de Man il comportamento della stampa è stato nella maggior parte dei casi irresponsabile: il «New York Times» (1 dicembre 1987, I'«International Herald Tribune» (2 dicembre 1987), «The Nation» (9 gennaio 1988), il «Frankfurt Algemeine Zeitung» (10 e 24 febbraio 1988), «Newsweek» (15 febbraio 1988), la «Los Angeles Times Book Review» (13 marzo 1988), «Die Weltwoche» (7 aprile 1988), il «Voice Literary Supplement» (aprile 1988) ecc. (dal 1 ~ dicembre 1987 sono usciti più di 60 interventi tra articoli e lettere di risposta) hanno pubblicato, nella corsa alla notizia, articoli estremamente disinformati o addirittura calunniosi (ad esempio lasciando intendere che de Man avrebbe scritto centinaia di articoli antisemiti, che egli sarebbe stato filonazista tutta la vita ecc.). 3 Ciò che colpisce è che buona parte delle testate abbia assegnato il compito di compilare articoli a giornalisti o ad accademici incompetenti i quali dimostrano: 1. di essere assolutamente all'oscuro non solo delle opere per le quali de Man è giustamente noto,4 ma anche degli scritti sotto accusa; 2. di istituire collegamenti infondati tra il «giovane de Man» e il «de Man maturo». Perché una polemica così violenta quando i «fatti», sebbene tutt'altro che edificanti, son ben diversi da quelli che hanno innescato il «caso Heidegger» e non hanno nulla a che vedere con quelli del «caso Waldheim»? (qualche giornalista ha avuto la spudoratezza di unificare i tre casi). Al di là del sensazionalismo giornalistico, i termini della questione mi pare vadano inscritti nell'ampio scontro istituzionale all'interno del mondo universitario americano: negli ultimi 15 anni molti critici e studiosi statunitensi sono stati comprensibilmente «infastiditi» dalle critiche alle teorie alle quali si sentivano affiliati (il New Criticism dominante, lo strutturalismo ecc.) da parte della decostruzione demaniana e derridiana (critiche che ovviamente avevano un riscontro nell?andamento del mercato del lavoro accademico). Ad eccezione di pochi casi, gli
pagina 6 oppositori della decostruzione hanno dimostrato di non voler fare i conti seriamente con i testi di de Man: se ciò è comprensibile - leggere de Man comporta uno sforzo non indifferente - non è peraltro giustificabile. La scoperta degli ambigui e deplorevoli articoli del periodo belga rappresenta dunque una provvidenziale scorciatoia per coloro che quello sforzo non volevano farlo: sostenere che il decostruzionismo è fascista (e che de Man era fascista da giovane e tale sarebbe rimasto) sarebbe sufficiente per metterlo fuori gioco. Ma diversamente stanno le cose per quanti vogliono leggere de Man. Già a partire dal 1955 (cfr. Les exégèses de Holderlin par Martin Heidegger) de Man metteva in luce la pericolosità di certe interpretazioni del linguaggio dell' «autenticità» dalle quali lui stesso non era stato immune nel suo triste periodo belga. È vero che in quel periodo il discorso di de Man sembra dettato da un certo scetticismo politico. Ma va anche riconosciuto che fin da quegli anni de Man si distingue al tempo stesso per una critica radicale alle premature conclusioni del discorso critico. Ciò lo porta ad analisi sempre più rigorose delle tendenze organicistiche e totalizzanti (e potenzialmente to- • talitaristiche) legate a un 'interpretazione abbastanza corrente del romanticismo letterario e filosofico. E questa inesorabile vigilanza (e autovigilanza) si sviluppa attraverso l'analisi della retorica della critica ,/ ,/ Non c'è affatto bisogno né di ave- '' re successo.né di sperare il successo per seguitare a perseverare nella lotta»: questo motto dice subito la mia parte. Né mi fa retrocedere il sardonico e non immotivato commento di chi, per aver dissolto la dicotomia amico-nemico, non sa più contro chi e contro che cosa indirizzare la «lotta». Al contrario, la radicata consapevolezza che nelle fattezze nemiche si prende visione del proprio lato oscuro, raddoppia soltanto le direzioni di speranza fattive di trasformazione. Il nemico non è tolto se indossa, per lo sguardo attento, metà della nostra faccia. E ciò deriva anche dall'aver ritrovato, oltre i linguaggi politologici e psicologici che intendono rinnovare il modo di atteggiarsi, il fondamento del dominio capitalistico nella «concorrenza degli operai fra loro»: su questa concorrenza il dominio «assolutamente riposa». Lo scriveva Marx nel Manifesto, 1848: il nemico era dunque, fin d'allora, interno all'amico. Ogni volta che un barlume di questa verità si fa intuire, inizia l'assalto al cielo: ogni volta, e necessariamente, che la concorrenza dei salariati è più forte della loro capacità di vederla tolta, il cielo precipita. Capacità di vedere, di guardare attraverso la realtà e l'apparenza della concorrenza: osare questo progetto slabbrandolo fino a cancellare le divisioni gerarchico-professionali del lavoro e dello studio, le relazioni l autoritarie fra i sessi e le generazioni, l'imbalsamazione (dietro i pirotecnici cambiamenti di superficie) dei ruoli e delle abitudini: questo è stato il cielo piegato all'immaginazione prefigurante del 68. In continuità con la tradizione che cerca l'unità - e quindi la diminuzione della concorrenza interna - come condizione di lotta, e in rottura con la tradizione che blocca il superamento delle divisioni davanti all' «ordinamento tecnico-scientifico» della produzione e dell'apprendimento o, nella piega privata dall'esistenza, che rincula intimorita di fronte al totem dei buoni costumi consacrati da abiti millenari. A più voci (Blindness & Jnsight) il rigoroso c/ose-reading di testi di Proust, Nietzsche, Rilke e Rousseau (Allegories of Reading), fino alle più recenti decostruzioni dell'«ideologia estetica»5 che egli imputa a una interpretazione organicistica dell'estetica postkantiana. Qui lo storicismo radicale di de Man viene interpretato come astoricismo solo da coloro che intendono la storicità in modo limitato, lineare o determinato. Non vi è qui lo spazio per una riflessione su teorie tutt'altro che facilmente parafrasabili. Ma va perlomeno detto che è frutto di cecità o di disonestà rifiutarsi di riconoscere la distanza percorsa da de Man tra i primi scritti e le opere più tarde. Con questo non voglio negare che una relazione esista: è impensabile che l'esperienza giovanile (in cui forse ebbe parte non indifferente la figura dello zio, il teorico socialista Hendrik de Man)6 non abbia lasciato tracce. Più difficile è precisare i termini di questa relazione, e forse impossibile valutarne il carattere di consapevolezza (il che vale per qualsiasi studio che affronti il biografico). Ma porsi il problema - come ha fatto de Graef - non è banale, come non lo è interrogarsi per l'ennesima volta sul fascino perverso (o sulla capacità di creare confusione) esercitato dal nazismo sugli intellettuali. Se in Italia ci si occuperà del «caso de Man» (il che non è detto visto che le sue opere sono poco note) è auspicabile che ciò comporti una riflessione più cauta di quella offertaci da certa stampa americana e tedesca. Note . (1) «Criticai Inquiry», 14 (Spring 1988), 3, pp. 590-652, in particolare le pp. 621-632; utilissimi sono anche due articoli di de Graef in corso di stampa sulla «Oxford Literary Review»: Notes on Paul de Man's Flemish Writings e Aspects of the Context of Paul de Man's Earliest Publications. In due fascicoli successivi la «Oxford Literary Review» pubblicherà tutti i testi giovanili di de Man e una cinquantina di contributi da parte di studiosi favorevoli e ostili a de Man in cui tali testi vengono analizzati. Si è obiettato sull'opportunità di ripubblicare tutti gli scritti giovanili di de Man, ma questo è l'unico modo perché chiunque possa leggerli e per allontanare il sospetto che si voglia tenerli nascosti. (2) Cfr., ad esempio, Défense de la neutralité, 9 novembre 1939e Que pensez-vous de la guerre?, 4 gennaio 1940, entrambi in «Jeudi». (3) Va forse ricordato che de Man annoverava tra i suoi migliori amici Harold Bloom, Geoffrey Hartman e Jacques Derrida, tutti notoriamente ebrei. Sul carattere esemplare del comportamento di de Man come insegnante, collega o amico, cfr. il fascicolo n. 69 (1985) di «Yale French Studies». (4) De Man cominciò a pubblicare «Critique», «Monde Nouveau» e altre riviste a partire dal 1953. Le sue opere maggiori sono raccolte nei seguenti volumi: Blindness & Insight, Oxford University Press, New York, 1971 (1983), trad. it. Cecità e visione, Liguori, Napoli, 1975; Alle-· gories of Reading, Yale University Press, New Haven, 1979, trad. it. parziale in AA.VV., AlleTemi. Nel 68 Romano Madera Meravigliarsi perché montano oggi cori di esecrazione e derisione, di coccodrillesco amarcord e di dotte spieghe sulla nostra crudele citrullaggine irresponsabile? Anzi. «Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate isteriche nude ... ». Così profetava nel !ondella ripetizione gli avventati annunciatori del «giorno novissimo» che ancora non nasce, lo spirito del 68 è tanto svaporato da avere solo flebili voci che trattengono una scintilla dell'antica audacia e osino riprendere la parola e dire sé tornando a se stesse. MicroMeg3a;88 David Grossman Jogging Adriano Sofri Elogio della sinistra pentita Jurgen Habermas Il filoso{ o e il nazista La rivista della sinistra diretta da Giorgi.oRuffolo è in vendita nelle librerie e nelle principali edicole. Scritti di Grossman, Eban, Harkabi, Bahbah, Butler, Sofri, Habermas, Markovits, Rorty, Tonnies, Bolaffi, Arlacchi, Flores d'Arcais. tano 1956 Allen Ginsberg. Il poeta vedeva sui margini del tempo muoversi appena, al risveglio, le larve apocalittiche di una generazione a venire ... Oggi, dopo la rotta seguita all'inevitabile riprocedere del mondo in albe routinarie, capaci di schiacciare con la silenziosa forza Ritorno alla esegesi vivente, pratica, trasformativa, che il 68 e il suo seguito, fino ai contratti del 1973 e alla crisi del petrolio, ha svolto del passo marxiano dei Grundrisse, già compulsato dai «Quaderni Rossi»: «Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande sorgente delAlfabeta 113 j gorie della critica, a c. di M. Ajazzi Mancini e F. Bagatti, Liguori, Napoli, 1987. Opere postume: The Rhetoric of Romanticism, Columbia University Press, New York, 1984; The Resistance to Theory, Minnesota University Press, Minneapolis, 1986 (un saggio è già uscito in italiano su «Nuova Corrente», 93-94, 1984 e la traduzione integrale uscirà da Marietti nel 1989); Aesthetic Ideology in corso di stampa presso la Minnesota University Press; una traduzione italiana del testo su Kant è uscita nel volume La via al sublime, a cura di M. Brown, V. Fortunati e G. Franci, Alinea, Firenze, 1987. (5) Fondamentale in questo senso il recentissimo volume di Christopher Norris, Paul de Man: Deconstruction and the Critique of Aesthetic ldeology, (Routledge, Londra, 1988), un capitolo del quale è stato letto al convegno di Anversa. (6) Cfr. Peter Dodge, Hendrik de Man, ,Socialist Critic of Marxism (Princeton University Press, Princeton, N.J., 1979). (7) Cfr. la relazione di de .Graef al convegno di Anversa: Silence to be Observed: A Tria/ f or Paul de Man's /nexcusable Confessions. De Graef ha «rovesciato» su de Man riflessioni che de Man stesso aveva fatto sulle Confessioni di Rousseau. Infatti sembra destinato a rimanere senza risposta il perché de Man non abbia mai fatto pubblica ammenda. Forse ciò avrebbe significato «una rottura con alcuni dei suoi migliori e più intimi colleghi, la perdita della sua vivacità accademica [... ] e anche dell'unica possibilità che ora aveva di fare una qualche riparazione intellettuale» (C. Norris, Paul de Man, cit., p. 180); o forse - come ha azzardato de Graef - il silenzio di de Man deriva dal carattere incommensurabile di colpa, confessione e scusa. la ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio (la misura) del valore d'uso». L'inattuale egualitarismo del 68 e del 1969, anche nelle formulazioni più rozze - o più roventi? - batteva il chiodo brutale dell'eguale bisogno «per vivere», e della necessaria unità per lottare e superare la «concorrenza interna». Che pochissimi avessero letto Capitale e Grundrisse, che pochi avessero «capito» il Manifesto, non fa che sottolineare l'affinità profonda del movimento con il profetismo rivoluzionario di Marx, ancora non vinto dalle mille idolatrie costruite in suo nome o contro il suo nome. Resta che la pretesa utopica del 68 è più che mai vera oggi, anche se giace cadavere o s'aggira solo come uno spettro di scena - a volte di galera - per le feste di compleanno delle gazzette, delle TV e dei convegni. .Che senso ha «il tempo di lavoro» come misuratore della ricchezza, nell'interconnessione fitta dei saperi e delle tecniche in un sistema che approfondisce il grado di mondializzazione della sua economia? E per essere alla pari col momento: le fonti della ricchezza, secondo la critica al programma di Gotha, sono almeno due: insieme al lavoro, la terra. E se anch'essa, ma in nuovo e diverso senso, misurasse ricc~ezza, non potremmo, da questa prospettiva, ripetere l'adagio che la dipendenza delle zone «povere» del pianeta dai centri dello sviluppo copre una doppia «rapina», in termini di valore-lavoro e in termini di valoriterra, o valori-biosferici? La vita di uno svizzero consuma la terra 70 volte più di quella di un somalo: e non la ricostituisce in misura maggiore, anzi. E l'interdipendenza onnilaterale delle specializzazioni, quando tocca ogni frammento di sapere e poter fare, non segna il limite di irrilevanza della misurazione in forma di merce qualificata, di ogni professione? L'attualità utopica del 68 è l'attualità del comunismo in quanto «interesse ultimo», e quindi «religioso» nel senso di Paul
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