Alfabeta 112 grammata, ma piuttosto a una interrogazione sulla Logik der Forschung.) Noi sappiamo come il problema della logica della ricerca scientifica sia stato impostato tradizionalmente entro un quadro di riferimento positivistico, tale per cui il soggetto pratico e esistenziale della conoscenza viene escluso in nome di una oggettività universalmente valida e condivisibile. Qui la teoria positivistica della scienza non è antimetafisica, ma piuttosto si rivela tipicamente metafisica, in quanto continua a perseguire l'idea della conoscenza come pura contemplazione di essenze eterne, non modificabili da parte dell'osservatore - una idea che era propria della teoria classica della conoscenza, da Platone a Husserl. Una delle conseguenze di questa impostazione è, per esempio, quella per cui anche un filosofo come Peirce, che si è occupato con grande partecipazione e sensibilità della problematica della Logie of Science, è arrivato alla conclusione (tutt'altro che paradossale, in questo quadro) secondo cui quando noi siamo nella verità, allora non esistiamo propriamente come soggetti. La verità, infatti, deve essere universale: e solo nell'errore il soggetto si distacca dall'intelletto universale. Una idea sbagliata ci rivela come individui, e al tempo stesso ci esclude dalla comunicazione universale (universalmente valida) del genere umano. Un atteggiamento di questo genere lo si ritrova anche nella prospettiva di Wittgenstein (che alla fine è una eredità socratica) che Gargani critica in Sguardo e destino, secondo la quale noi siamo infelici solo per colpa nostra, perché non abbiamo saputo riconoscere la forma di vita che ci meritavamo, e che ci è propria. Nella rivendicazione del valore e della pretesa di verità del dolore e del soggetto, che non sono semplici fraintendimenti, equivoci o adattamenti mancati, Gargani muove una critica risoluta alla intonazione positivistica della logica della ricerca scientifica. Qui Sguardo e destino prosegue una ricerca avviata almeno da un decennio a questa parte nei lavori di Gargani, e che si colloca nel complessivo processo di auto-oltrepassamento e autocritica in atto nella filosofia analitica. Sappiamo per esempio quali siano gli esiti di questo processo in un altro grande filosofo analitico, Richard Rorty: inutile illudersi che la filosofia sia specchio della natura, contemplazione di essenze eterne ecc.; piuttosto, quando noi facciamo filosofia pratichiamo semplicemente un genere di discorso, come nella poesia o nella chiacchiera, senza pretese di maggiore verità che nel resto della conversazione del genere umano. Gargani condivide la critica rortiana della filosofia scientificamente orientata, ma solleva dubbi sostanziali circa gli esiti relativistici a cui questa autocritica pone capo in Rorty. Per Rorty, la scienza era l'unica forma di verità, e dopo il ve.nirmeno del sogno di una filosofia come scienza rigorosa noi scopriamo di essere, come il resto degli uomini, dei narratori, che fanno dei racconti per tenersi uniti, per stare insieme. L'ipotesi di Gargani è invece che esistono verità più radicali e profonde della scienza: e anzitutto l'esperienza del dolore, che ci conferma come soggetti; nel dolore noi non esperiamo l'errore e la limitatezza di tutto ciò che vive, il fallimento rispetto a una performatività tecnica universale, ma piuttosto attingiamo a un nocciolo non consumato di autenticità. In Sguardo e destino il richiamo all'infanzia del narratore, al rapporto con il padre, agli affetti lesi e apparentemente irrisarcibili (sebbene poi il libro di Gargani si proponga precisamente di vendicarli) manifesta il fascino del dolore come verità e profondità - dunque di una verità antitetica a quella della scienza. Un atteggiamento antitetico a quello di Rorty, dunque. Però credo che non basti a contrastare il relativismo rortiano, o il relativismo in genere. Perché mai, una volta venuta meno la verità della scienza, dovrebbe imporsi la verità del dolore? Una prospettiva verosimile non potrebbe forse essere quella secondo cui dopo il declino della verità universale non restano che verità particolari, verissime, certo (e non false, come credono i positivisti), ma non comunicabili? non potrebbe essere proprio questa l'esperienza e la cognizione del dolore? Il Romanticismo, da Humboldt a Schleiermacher, ha tematizzato questo tipo di esperienza attraverso l'idea della ineffabilità dell'individuo. lndividuum est ineffabile; mediante il linguaggio accediamo a un universo di comunicazioni e . di pubblicità, ma questa socializzazione non potrà mai penetrare nel segreto fondamentale dell'individuo (e soprattutto nel suo isolamento). Il limite e insieme la sfida della comunicazione risiede nella impossibilità ( e nell'asintotico tentativo) di esplicitare l'oscurità del «tu», il mistero che sono gli altri, e il mistero che siamo noi a noi stessi. E forse nessun linguaggio, nessun racconto, nessuna pubblica comunicazione potrà mai valicare questa soglia, penetrare in ragioni che sono per loro natura tacite. Aldo Gargani. L'esperienza, nella nostra epoca, di una consumazione e anche certamente di un declino dei regimi teorici praticati nell'ambito filosofico e scientifico, l'idea che, in un modo o nell'altro, degli uomini abbiano parlato da un luogo in cui, non solo essi non si trovano, ma in cui non si può trovare nessuno, tutto ciò ha generato in me il bisogno di inserire le nostre costruzioni teoriche nella storia che •le comprendeva, in quella che ho definito la «Seconda Storia». Ho cercato di investigare e raccontare i dintorni del nostro agire teorico: è nato così l'ingrediente della narrazione di questo testo, che non è un testo autobiografico. Io non ho voluto raccontare nessuna infanzia, non ho voluto scrivere nessun libro autobiografico. Forse adesso, se qualcuno mi domandasse se sono un filosofo o se sono un narratore, potrei rispondere che io sono semplicemente uno che scrive. Ho cercato di scrivere senza sapere dove andavo, il che non era affatto facile, perché mi creava un grande senso di colpa, il senso cioè di·perdere il terreno sotto i piedi, di perdere il rigore e quella disciplina professionale del lavoro· che si mettono faticosamente insieme negli anni. Io volevo scrivere senza sapere dove andavo, andavo dove mi portava la scrittura. Non posso nascondere che, qualche volta, ho tentato delle assonanze, delle rime; qualche volta ho provato a giocare la frase nel senso del suo isolamento per mobilitare A più voci lo scatto del verso. Ma certamente, non si tratta di un testo di poesia. La poesia stava là, un po' di fronte, stava come il fuoco al limite estremo che si sarebbe incendiato, se il linguaggio ne fosse stato capace. L'attenzione era naturalmente nella scrittura, perché è nella scrittura che si gioca tutto. È nell'atto espressivo come tale che il linguaggio fa fede di se stesso, ed è il linguaggio che rende ragione. del significato che vuole comunicare. Se però anche di questo, cioè del fatto che è la frase a legittimare se stessa, facciamo una teoria, la frase allora non dice più ciò che la frase dice. La frase dice allora una cosa decisamente opposta, rispetto a quello che voleva dire. Non più una frase, ma diventa la teoria di se stessa. Vi è un impegno etico della scrittura, nel senso che il linguaggio cioè, come corpo della parola in tutti i sensi, con le sue assonanze, con i suoi ritmi e con tutta la sua corposità, deve avere in sé la sua giustificazione e non può apcalza passo passo la sua vittima. E se, da una motivazione etica della componente estetica, cioè da questa articolazione di valori sui quali si assesta un testo, può essere soppiantato un certo stile di argomentazione -cioè, l'argomentazione ineluttabile, inesorabile, cogente, così come il ricattatore che mette con le spalle al muro la sua vittima - allora può essere appunto soppiantato lo stile di razionalità meccanica, automatica da uno stile che, anziché essere argomentativo, tenda piuttosto a modificare la sensibilità e l'atteggiamento di coloro che ci ascoltano. Forse é questa la via per la quale passa il discorso dal . quale noi usciamo convinti, quello precisamente in cui non si esprime solo una astratta razionalità, ma subentrano emozione e passione metaforica, Attraverso un accostamento di eventi che non sono tra loro somiglianti si forma un discorso che è riflessione, ma che è anche narrazione, memoria, desiderio ed emozione, un discorso che assesta la razionalità non in termini di una Claude Debussy, La scatola dei giocattoli, particolare foto di Ivano Bolondi pendersi a niente di esterno. Il linguaggio è una disciplina spietata, perché non ha appigli ai quali appoggiarsi, ma deve vivere di se stessa e così resistere. Diversamente diventa ideologia. Il linguaggio autentico, il linguaggio che ci modifica, richiede una dimensione di narratività e, più generalmente di esteticità, proprio perché è la realtà che noi viviamo, è la realtà dove noi siamo calati, è la nostra stessa vita. Ma che ne è ora del rapporto tra narrazione e pensiero? Noi dovremmo contemplare o per lo meno prendere in considerazione l'idea che, assestando nuovi livelli di testualità, cambia il modo di pensare. Forse, il pensiero non è lo stesso pensiero, come lo consideravamo prima, nel senso cioè che, per esempio, una scrittura congegnata nel modo di Sguardo e destino, tra il concettuale, il narrativo, con tentativi di qualche folgorazione poetica, potrebbe essere un modulo per soppiantare quella specie di costruzione argomentativa che Musil, in un passo de L'uomo senza qualità, paragonava al ricattatore che incostruzione regolativa e normativa, ma in quelli di un'immagine influente, di una scena influente di segni che modificano la sensibilità e l'atteggiamento dell'interlocutore, inducendolo a vedere ora la realtà in una diversa prospettiva. A partire da una decisione etica, della quale fa fede la scrittura nella quale essa viene espressa, muovendo da una passione etica per la decisione che si prende coraggiosamente scrivendo in una certa maniera, è lo stile che si dirige verso l'incontro con le persone, verso la comunicazione con tutte le cose che ci circondano, e non l'impresa intellettuale dei razionalisti astratti che ci mettono in difficoltà, perché ci sono troppe cose che essi lasciano fuori, che rimangono escluse: precisamente e fondamentalmente il senso di reverenza verso il mistero della realtà, verso ciò che accade, che è all'origine del pensiero così come della poesia. Ci accorgiamo che, in sostanza, questo mistero è la cosa che ci interessa più di ogni altra. Tutto il resto non interessa proprio niente. E questo mistero è in fondo, senza pagina 91 evocare nessun fantasma arcano o trascendente, una presa di realtà, cioè quel linguaggio che si apre verso qualcosa d'altro che è rimasto fuori. La nostra grande passione dell'altro, dell'alterità come tale, che suscita il senso di'reverenza verso la realtà, è forse il segreto e l'incanto della poesia. Abbiamo bisogno di questa verità, attraverso il linguaggio, perché la nostra mente si nutre di verità, così come il nostro corpo si nutre di alimenti, così come le automobili si alimentano di benzina. Sono questi linguaggi, con le loro funzioni performative e costitutive, che ci danno questa presa di realtà. Mi rendo conto che, dicendo questo, il mio discorso si espone ad una obiezione, perché ora può sembrare che si vadano a cercare nuovi luoghi privilegiati di verità, correndo il grande rischio speculativo di andare a cercare in altri campi discorsivi quelle certezze di verità che una serie di esperienze ci hanno insegnato a non cercare più nel discorso filosofico di tipo tradizionale. Mi rendo conto che quello che dico potrebbe esporsi a questa obiezione; ma non si tratta di afferrare delle certezze che siano al di fuori di quello che propriamente noi diciamo. L'unica certezza che abbiamo è la frase per la quale noi ci apriamo a queste altre cose che sono rimaste fuori della nostra vita e di cui improvvisamente comprendiamo la enorme importanza. Noi prima o dopo ci accorgiamo che la nostra esistenza diventa una follia, se non ci mettiamo a scriverla e a raccontarla. Per questo la vita, l'intera vita nostra è soltanto letteratura. In questo senso la nostra esistenza umana diventa la risposta del linguaggio rispetto a tutto ciò che è mortificazione dell'essere nostro in questo mondo, una specie di rivolta del linguaggio. Io ho parlato di rivolta dei bambini, nel senso che essi sono i portatori di questa infanzia del discorso, in quanto essi sono i futuri uomini del dolore e ogni loro sensazione è una rivolta, ogni loro frase è una rivolta. Questa è la certezza alla quale ho aspirato e della quale sentivo il bisogno da sempre. Sentivo il bisogno di fare accadere una frase, per tutto quello che accadeva intorno a me e mi opprimeva. In \ questo senso, penso che tutti gli uomini dovrebbero raccontare una storia, perché tutti gli uomini sono uguali. Se c'è una cosa che ci hanno insegnato i maestri della psicoanalisi è proprio questa: che tutti gli uamini sono uguali e che anche il più ottuso di essi potenzialmente è un poeta. Ogni uomo ha un inconscio, dunque ogni uomo ha un immaginario. Forse sono solo combinazioni casuali quelle che permettono a qualcuno di esprimersi, di scrivere, di fare musica, di dipingere; forse a coloro che sono più deboli degli altri. Come disse una volta Matté Bianco: «Avevo considerato varie figure cliniche in cui collocare Kafka, ma poi ho pensato che egli non era affatto un malato, ma che era semplicementte un uomo il quale sentiva in maniera indicibile la pressione insostenibile della vita». Noi sentiamo questa pressione insostenibile della vita che sta per diventare una follia; la follia circonda la nostra mente così come la morte circonda la nostra esistenza e allora ci mettiamo a scrivere per ritrovare l'infanzia delle nostre frasi e un significato dell'esistenza che ci salvi dall'implausibilità del nostro essere al mondo.
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