I pagina 8 La predilezione per la narrativa in Gargani è molto evidente. A p. 49 possiamo leggere: «Perché noi non possiamo in realtà che raccontare, in quanto raccontando noi diventiamo quello che siamo [... ]» Pongo un'alternativa - non potrei che farlo con il linguaggio della poesia - perché mi sembra più aperto e più disponibile a porre domande dentro il linguaggio, a mettere in crisi ogni tipo di senso conclusivo. Ecco perché non è una opera di poesia, ma è una opera di narrativa, sicuramente. E' un bellissimo racconto. Pier Aldo Rovatti. Scrive Gargani: «È molto più facile tenere conferenze che conversare». Lo scar-. to che intende operare è il non parlare più «sul linguaggio» ma dal «linguaggio», dal suo interno; inoltre, suggerisce ancora Gargani, noi cerchiamo continuamente di costruire delle teorie filosofiche per combattere Ìl pericolo che ci viene dal nostro interno. Questi spunti, ed altri analoghi che sono poi a mio parere la cifra critica del libro, mettono in crisi il tentativo di sapere se esso appartiene ad un genere o ad un altro, oppure il tentativo di enuclearne un pensiero. Credo non sia possibile evadere da questa difficoltà che fa parte della stessa strada che lo stesso Gargani ci indica, e che piuttosto si debba procedere per immagim, in una costruzione aperta, provvisoria. Comincerei con l'episodio dello psicanalista di Tiibingen, che manda il suo ponderoso volume sulle nevrosi isteriche ad una giovane collega di Londra, e, anziché un parere specialistico, ne riceve, in una breve lettera, la valutazione di una sconfinata infelicità che la giovane signora ha letto nell'esperienza che scorre in quel libro. Se mi arrivasse in questo modo il libro di Gargani, cosa gli scriverei? Sarei tanto, saremmo forse tutti tentati di scrivere che questa sconfinata infelicità che collegheremmo al dolore, uno dei temi del libro, è quella che Gargani stesso ci fa sentire. Ho usato il condizionale, perché, per quel che mi riguarda, parlerei soprattutto della esperienza del sorriso, mi fermerei su quella piccola parte del libro in cui il gioco delle osservazioni di secondo livello che fa Gargani all'interno dei suoi mesi ali'Accademia di Berlino, tocca il riso che provocano le imitazioni. Che cosa sta facendo davvero chi imita un altro e fa ridere? Dice Gargani, a conclusione di questa parentesi sulla imitazione (il libro è tutto costruito di parentesi che sono dentro parentesi): «Di tempo in tempo una imitazione ritira una frase dal traffico della comunicazione umana e noi ci sentiamo alleggeriti ed allora sorridiamo». In questa immaginaria lettera io sottolineerei proprio «e allora sorridiamo». E cercherei di rendere conto - nella conversazione e non nella conferenza che, sono d'accordo con Gargani, non bisogna fare - di questo ritirare una frase, una parola dal traffico della comunicazione. Cercherei di capire che cosa sta dicendo Gargani, quando parla di una esperienza del pensiero, una esperienza caratterizzata dal silenzio, che sta «nell'infanzia delle parole». Il silenzio interrompe il corso qualunque del pensiero per introdurre un altro corso che, ci suggerisce Gargani, è il vero pensare; questo silenzio costttmsce l'esperienza principale di quel «dal» linguaggio in cui dovremmo collocarci. Come richiamo, a me viene in mente innanzitutto una sorta di antenato lontano di questo testo, La persuasione e la retorica di Michelstaedter. Ho sentito molte consonanze! In particolare ho avvertito il motivo del prendere posizione contro, lo smascherare la teoria filosofica dei pericoli ai quali ci espone l'esigenza di forzare il linguaggio, portandoci in quella zona in cui il compito, per quanto paradossale sia, è quello di restituirci la «irrealtà della esistenza». Il secondo richiamo, meno singolare, è relativo al modo in cui uno dei grandi pensatori del nostro secolo, Heidegger, ci ha invitato ad una riflessione sul silenzio in rapporto allo scambio difficile e complesso che può darsi tra pensare e poetare. Dunque, la seconda scena problematica, tra le diverse che si possono richiamare - la prima è quella del sorriso - è certamente la scena che si apre da questo silenzio e si chiede quale linguaggio deve corrispondere, se vi è un linguaggio che può corrispondervi, a questa esperienza del pensiero che Gargani chiama il silenzio e alla restituzione dello sguardo che è legato all'infanzia. Questo sguardo parla dallo sfondo di paura, ansia, incanto, bruciore ed avventura che ha disegnato l'infanzia. Quale linguaggio può corrispondervi? Credo che ci troviamo di fronte ad una figura paradossale, vi è una indicazione di ritiro, ritirare la frase, e vi è una pratica di scrittura - che ci riporta a Peter Handke e soprattutto Thomas Bernhard - che è circolare e che poi ha delle accelerazioni, ma che non è mai abbastanza veloce, dice Gargani, per arrivare dove vuole. Una scrittura che ritorna continuamente su se stessa. C'è un riferimento alla poesia. È la poesia che ritira le frasi, e che ci indica il silenzio da cui può prodursi un senso altro. Ma io credo che effettivamente Gargani non ci inviti verso la pratica della poesia. Il cercare di rappresentare l'esperienza della poesia dentro una prosa che ha a che fare col pensiero comporta una difficoltà, una situazione di paradosso, ma comporta apche la accettazione di un necessario compromesso che la prosa filosofica deve assumere su di sé. Penso che Gargani ci inviti su quel percorso in cui pensiero e poesia hanno un rapporto di congiunzione e prossimità, ma anche di estrema divaricazione. Eép una esperienza di pensiero che tenta di interrogare la poesia rispetto a ciò che la poesia considera indicibile per se stessa. Comprendiamo perfettamente la denuncia che Gargani fa delle voci false che affollano il mondo delle conferenze (che poi è il mondo che Gargani frequenta a Berlino). Possiamo imparare a sentirle come false, e a esercitare un altro ascolto, che è l'ascolto che si situa al di sotto e al di là dei discorsi delle conferenze, della vita meccanica, ripetitiva e «falsa» di una accadetnia. Questo «altro ascolto», che ci porterebbe al sorriso, vuole però essere un ascolto autentico; in un qualche modo, dovrebbe fare la esperienza di quel silenzio che la poesia ci indica. Ma il discorso filosofico non può non pagare un prezzo. Proprio di fronte all'elemento di falsità, alla pesantezza, al non volere escludere poi davvero l'elemento teorico, al coabitare con questo elemento, al riprodurre una sorta di infelicità A più voci rispetto a tale coabitazione alla fine - e forse questa è una notazione critica al libro di Gargani - non vi può essere che il riconoscimento di una limitazione: non si può non coabitare un poco con le voci false. Quello stesso linguaggio, quella stessa prosa noi non possiamo non attraversarla quando facciamo una esperienza che ha sempre e comunque ·come riferimento il pensiero. Si tratterebbe proprio di descrivere, al di là di ogni autenticità, questo necessario attraversamento. Mauro Ceruti. Tutti i libri di Gargani, i suoi lavori, mi hanno segnato molto, hanno segnato molto il mio modo di intendere la filosofia, il fare filosofia. E li ho sempre letti con una grande emozione, ho sempre condiviso il pathos del luogo da cui sono stati scritti. Questa lettura mi ha dato tanto e anche l'ho pagata tanto. Come ha scritto Wittgenstein: «Ciò che tu hai prodotto non può avere maggiore importanza per gli altri, più di quanto ne abbia per te stesso. Quanto ti è costata, tanto essi la pagheranno». Penso che gli sia costata tanto, per quanto mi riguarda, visto quanto io l'ho pagata, questa lettura. Questo libro mi ha inquietato molto. Mi ha evocato il fantasma della verità, che inquieta tutta la storia dell'umanità, la storia del pensiero umano, la storia del pensiero filosofico occidentale. Il fantasma della verità o di una conoscenza intesa come la rappresentazione di una realtà che sta fuori di noi, dal mito della caverna di Platone in poi. Ora, Sguardo e destino ha spostato immediatamente il mio sguardo dal problema della verità al «coraggio di essere», che è anche il titolo della sua introduzione ai Diari Segreti di Wittgenstein. Sono andato a rileggere alcuni passi di Wittgenstein. «Non si può dire la verità, se non si è ancora dominato se stessi. Non la si può dire: ma non perché non si è abbastanza intelligenti. Può dirla soltanto colui, il quale già riposa in essa; non colui il quale riposa nella non verità, e soltanto una volta dalla non verità allunga una mano verso di essa». «Questo assoggettamento di se stessi - prima era Wittgenstein, adesso è Gargani che scrive - è la condizione per potere scrivere esattamente dal luogo in cui ci si trova, e non montando su trampoli o sulle scale che aumentano artificiosamente la nostra altezza. Bisogna scrivere dal luogo in cui si è, a piedi nudi, e non montando sui trampoli o scale, né acciuffandosi per i capelli, cercando di tirarsi su per apparire più alti di quello che si è». Eppure è questo che fa la maggior parte degli uomini. Partendo esattamente dalla metafora dei trampoli, da questo tirarsi su per i capelli per apparire più alti di quello che si è, Gargani parla della filosofia, di una certa filosofia, e indica la cosa più importante che si possa dire sul rapporto tra disciplina etica-interiore e l'opera filosofica più tecnicamente definita. Questi trampoli, queste scale che alterano «il luogo effettivo dal quale un uomo può parlare», sono le idealizzazioni e le sublimazioni costituite dalle teorie filosofiche. Qui si manifesta l'inestricabilità dell'intreccio che l'autore esige nella scrittura filosofica, tra impegno etico, il coraggio di essere e il problema della filosofia: una ritraduzione non tanto teoretica del problema della filosofia nel problema etico, quanto una ritraduzione, una ricollocazione, una reindividuazione del luogo stesso da cui si scrive, da cui si pensa e da cui si racconta. «Il lavoro della filosofia è propriamente il lavoro su se stessi. Sulla propria concezione. Su come si vedono le cose (e su che cosa si pretende da esse)». Così pensava Wittgenstein. E Gargani scrive che «se la filosofia è una riflessione su ciò che si è, la risposta non può consistere semplicemente in una proposizione appropriata, logicamente consistente e plausibile, ma deve a sua volta convertirsi in un modo di vivere, in un nuovo modo di vivere che ha l'effetto di cancellare i problemi che ci tormentavano» È questo passaggio dal luogo della narrazione filosofica, e della ricerca filosofica, dal luogo della verità come rappresentazione sub specie aeternitatis di una realtà assoluta al luogo della vita, al luogo dell'essere, al luogo dell'interrogazione su se stessi, al lavoro su se stessi, che dà immediatamente anche il senso dell'impegno dell'autore sul linguaggio, attraverso il quale raccontare questo lavoro su se stessi. Impegno che richiede un'espe- •rienza etica radicale quale alternativa pratica fondamentale alla quale affidarsi. In questa alternativa pratica fondamentale che è l'esperienza etica radicale «si legge in trasparenza un imponente significato filosofico, quello per cui d'ora innanzi •non si potrà prestabilire con la tecnica e l'abilità intellettuale dell'argom~ntazione il linguaggio significante e vero, ma bisognerà invece attenderlo, questo linguaggio autentico, come un evento imprevedibile e non calcolabile che si compie al termine di una ricerca etica radicale e spietata». È qui allora che diventa straordinariamente evocativo e immediatamente ostensivo del significato che Gargani dà al lavoro su se stessi, come preliminare e coincidente con il lavoro filosofico, il riferimento a quelle splendide pagine di Kafka in cui egli racconta della condizione di impasse, in cui si trova il campagnolo di fronte alla porta della giustizia. Egli continua a interrogarsi sulla adeguatezza delle proprie domande per superare questa porta e muore di fronte a questa porta, non sapendo che questa porta è fi apposta per essere aperta e non per essere interrogata nel «linguaggio della verità». «E' l'atteggiamentto etico delle domande in quanto esse sono rivolte a quello che si ha, anziché a quello che si è, a pregiudicare la possibilità di illuminare la vita. «Il campagnolo di Kafka vuole possedere la nozione della giusti-· zia nella mente, anziché varcare direttamente la soglia, del resto aperta soltanto per lui, per vivere nella giustizia e secondo giustizia». Una volta Wittgenstein scrisse a Russell: « E io continuo a sperare che si produca una esplosione finale, e che io possa così diventare un altro uomo ... Forse tu credi che sia una perdita di tempo tutto questo pensare· a me -stesso, ma come posso essere un logico se non sono ancora un uomo! «Prima di ogni altra cosa, io devo fare i conti con me stesso!» Gargani pensa alln confessione come alla resa dei conti con se stessi, c9me al seme che, gettato Alfabeta 112 I sul terreno, farà crescere un albero, una nuova vita. La confessione, pensava Wittgenstein, è la condizione per non perdersi, per raccogliersi in se stessi e preparare una nuova forma di vita. «Una confessione deve essere una parte della nuova vita». E Gargani rileva che «ogni uomo dovrebbe scrivere la propria confessione. Ma non basta semplicemente scriverla, occorre anche sottoporla agli altri, perché è soltanto quando viene rilasciata davanti agli altri uomini che la confessione può effettivamente costituire l'inizio di una nuova vita». Io ho interpretato questo libro come una confessione, come un atto di grandissimo coraggio. Infine, il libro Sguardo e destino mi obbliga a riconoscere l'indiscutibile ricchezza e superiorità della letteratura rispetto alle scienze sociali, psicologiche, antropologiche, nel rivelare la complessità degli esseri umani, della nostra natura. I saggisti da Montaigne a Pascal a Camus, hanno mostrato quanto noi siamo pieni di contraddizioni, quanto siamo ignoranti di noi stessi. Il romanzo divenuto realista nel XIX secolo ha potuto afferrare gli individui a un tempo nella loro singolarità bio-psicologica e nelle loro appartenenze sociali, ha rivelato il ruolo degli incontri, dei casi nel destino degli uomini. Ha posto in primo piano il tessuto della vita degli individui, gli eventi singolari, i casi, l'irripetibile, il casuale: ha mostrato come l'individuo possa essere in modi tanto diversi trascinato nei vortici della storia; penso a Stendhal, a Tolstoi: ha mostrato come ciascuno possa essere trasformato dal tempo, pur restando se stesso (penso alla Recherche di Proust); ha rivelato la molteplicità dell'io in ogni persona, i fantasmi che non cessano di agitare ciascuno di noi, il monologo interiore. La materia del romanzo è stata sempre la complessità della vita umana, compresa la vita quotidiana, apparentemente più banale, quella che più delle volte è messa tra parentesi dalle più sofisticate teorie prodotte dalle scienze dell'umano. Ciascuno di noi è, nella vita quotidiana, nello stesso tempo uno e molteplice; ciascuno di noi vive tra immaginario, mito e reale, si nutre di sogni altrettanto che di proteine, conduce più vite differenti, talvolta segrete, nascoste, sotto la vita emergente più apparente. Anche dal punto di vista del racconto della complessità della vita umana questo libro è un atto di grande coraggio, un lavoro su se stessi che fa corpo con un intenso lavoro sul linguaggio. Maurizio Ferraris. Poiché sembra che di resistenze, sino a ora, il libro di Gargani non ne abbia provocate, converrebbe forse domandarsi perché mai ci immaginiamo che ne debba provocare e appaia in qualche modo trasgressivo e anomalo rispetto alla stilistica e alla casistica filosofica. Credo che uno dei motivi sia che Sguardo e destino affronta, tra l'altro, il problema della logica della ricerca scientifica: come si costruisce una teoria? perché si costruiscono teorie? quale logica e soprattutto quale interazione vitale presiede alla costituzione di teorie? (L'Accademia berlinese entro cui si svolge la narrazione di Gargani è in un certo senso l'emblema di questa problematica; e anche il destino pratico di Gargani durante il soggiorno nell'Accademia, che non pone capo alla ricerca pro-
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