Alfabeta 112 A più voci pagina 71 lezza che ogni musica esprime una propria verità - tali verità dovrebbero poi esser decifrate, senza istituire gerarchie. Oggi, in realtà, il rock più stimolante sembra esprimere l'idea che viviamo in un mondo dominato dalla più completa frammentazione e mediatizzazione dell'esperienza. La sua estetica è quella della confusione. Dissonanze e rumore giocano al suo interno un ruolo fondamentale, ma solo perché entrano in rapporto con l'armonia tradizionale e la ridicolizzano. «Nella nostra esperienza succedono un sacco di cose contemporaneamente» ci disse tempo fa David Thomas, l'ex leader dei Père Ubu; «io cerco di catturare momenti e sensazioni in tutta la loro contraddittorietà». E' probabilmente questo l'approccio più autentico al rock, ~d anche quello politicamente più dirompente. il massimo rappresentante di quello che si potrebbe definire come l'underground di destra: un movimento culturale (in letteratura non sarebbe difficile inserire nel filone, ad esempio, Sam Shepard) che, partito dalla critica della cultura tradizionale, è giunto alla sua totale riscoperta, e proprio nei suoi caratteri più regressivi. tezze dell'ascoltatore, rinunciando al ruolo di semplice entertainment? E' inutile negarlo: in una tale prospettiva il punk e la no wave americana rappresentano probabilmente il punto più alto di una pratica musicale realmente «alternativa» (sebbene la negazione punk risulti, alla fine dei conti, sin troppo dialetticamente connessa con le norme che pure beffeggia; meglio allora lo straniamento dell'avanguardia post-punk). Eppure ben di rado la radicalità dei punk rocker (esclusi, in una certa misura i Clash). lista, il narcisismo postindustriale, lo scadere dell'impegno. La musica, come al solito per l'ultimo Wyatt, allinea tastiere iridescenti, dissonanze soft, ritmi scarni. Su tutto, una delle voci più duttili e affascinanti che il pop inglese abbia mai espresso. Area Arbeit Macbt Frei Cramps, 1972 Henry Cow In Praise Of Learning Virgin, 1974 Sex Pistols Never Mind Tbe Bollocks Virgin, 1977 Père Ubu S icché una lettura «politica» del rock che tenesse conto di tali presupposti, potrebbe sgombrare il campo da una serie di equivoci e mistificazioni che oggi oscurano l'orizzonte: Il reaganismo integrale di un personaggio .come Springsteen, ad esempio (che pure è diventato il paradigma del rocker «operaio» per eccellenza) risulterebbe immediatamente evidente: con la sua continua e irritante esaltazione dei valori tradizionali anche e soprattutto in chiave musicale (melodie ottimistiche e consolatorie, tanto sudore e la corrispondente sensazione di appartenere a un «grande paese»), Springsteen è in realtà Altri personaggi invece, come un po' tutta la scuola inglese della cool generation (il cui punto massimo di notorietà, coinciso poi con l'inizio della fine è stato lo stroncqtissimo film Absolute Beginners) possono vantare a loro favore, oltre a un indubbio impegno militante (a Paul Weller, leader degli Style Council, va ascritto il merito di aver fondato «Red Wedge», un'organizzazione di musicisti di sinistra e decisamente anti-Thatcher), anche un corrispondente rigore sul piano musicale. Impegnati a dar voce alle minoranze nere, essi hanno rielaborato ed integrato nel linguaggio del rock proprio tracce di quelle culture: il jazz, innanzitutto, e poi il reggae ( ma sul reggae il discorso sarebbe più ampio e meriterebbe una più adeguata trattazione). Anche personaggi come Peter Gabriel e Paul Simon, anche loro coinvolti in una rilettura delle culture nere, in special modo sudafricane, meriterebbero di essere citati. Così come, tra tutte le varie joint venture degli ultimi anni, bisognerebbe contrapporre la tensione rabbiosa di Sun City alla melassa dolciastra di We Are The World. Ma dove cercare la musica autenticamente radicale, capace di scuotere le cersi è accolllf)agnata a un'autentica presa di coscienza politica (molto più situazionisticamente, i punk dichiaravano cash from • chaos... ). Forse allora solo un musicista come Robert Wyatt, comunista, e passato attraverso il pop progressivo degli anni settanta e le esperienze più avanzate della new wave degli ultimi anni - solo Wyatt può rivendicare una reale adeguatezza tra forme musicali e impegno politico, ambedue accomunati da un medesimo rigore intellettuale. Old Rottenhat (per parlare di un'opera recente, tralasciando il suo pur glorioso passato che comprende, oltre ai Soft Machine, anche i Matching Mole di Little Red Record, il «dischetto rosso») potrebbe realmente essere il manifesto del rock politico degli anni ottanta. Lucidamente disperato ma non pessimista, pervaso dalla nostalgia per un mondo diverso (il carillon con l'Internazionale che si insinua tra i solchi) ma tutt'altro che sentimentalistico, l'album se la prende, nei testi, con l'America imperlaThe Modem Dance Rough Trade, 1977 AA.VV. No New York Antilles, 1978 AA.VV. Absolute Beginners colonna sonora Virgin, 1986 Robert Wyatt Old Rottenhat Rough Trade, 1986 Il • Intorno al tavolo • ' none ag~Q unacosadiversa Gli interventi che seguono si sono tenuti a Scandiano (Reggio Emilia) l'll maggio 1988 nel quadro delle attività culturali della Biblioteca comunale, in collaborazione con la Casa Editrice Laterza, che ha pubblicato il libro di Gargani, Sguardo e destino, di cui qui si discute. Antonio Porta. Ho letto questo libro dal punto di vista della poesia. Allora mi pare importante partire da p. 32, lì dove Gargani scrive: «Il linguaggio non è una cosa diversa dalla vita, nel senso che si parla il linguaggio come si vive una vita che noi trascorriamo nel linguaggio, esattamente come trascorriamo nella nostra esistenza, e che al di là del linguaggio esiste la medesima tenebra che esiste al di là della vita, nel senso dunque che al di là della vita e del linguaggio non esiste l'ordine che illumina la vita e il linguaggio, ma più precisamente ancora che il linguaggio è il modo della nostra vita, che il linguaggio è la forma nella quale esistiamo». Queste righe sono essenziali per capire questo libro e per capire anche quello che è stato chiamato «congedo dalla filosofia». Questa definizione dell'essere dentro il linguaggio, direi che calza a pennello per la poesia, almeno la poesia come la concepisco e l'ho sempre concepita, cioè come accadimento dentro il linguaggio di tutti dallavita Mauro Ceruti, Maurizio Ferraris,Aldo Gargani, Antonio Porta, PierAldo Rovatti i giorni, dentro tutti i linguaggi che attraversiamo e che ci attraversano. •Un critico recentemente ha definito questa mia posizione come una sorta di sfida orizzontale. Non ho mai pensato che la poesia sia quello che ironicamente si chiama «poetese». La poesia non nasce in funzione d'un linguaggio poetico «a priori»; è invece il risultato finale del lavoro che si fa dentro il linguaggio, in cui noi siamo ed esistiamo. Come pone Gargani la differenza tra la filosofia, il linguaggio della filosofia e il linguaggio della poesia? Perché, scrive Gargani in più di un punto di questo libro (che ha un curioso stile iterativo, quasi a trapano, che torna su se stesso continuamente e in questo è molto simile allo stile poetico che ritorna su se stesso, ritorna sugli stessi temi e li riscava continuamente) perché Gargani prende congedo dalla filosofia o perlomeno prende congedo da una certa filosofia? Gargani dice molto spesso «una certa filosofia», «una certa ideologia», cioè non è la filosofia, ma una nuova filosofia a cui pensa, una filosofia che parte dal linguaggio, nasce dalla scrittura e credo anche dalla propria vita. Il fatto che una cosiddetta teoria filosofica prima o poi voglia met- ' tere fine ai pensieri degli uomini, voglia concludere il pensiero, è quello che Gargani mette in discussione. È ancora più in là scrive Gargani: «Una teoria filosofica in effetti, per definizione, è una teoria sulla conclusione della vita umana». Se è vero, come è vero, che noi abitiamo nel linguaggio come abitiamo nella vita, è chiaro che il linguaggio non .può prestarsi ad essere la conclusione della vita, cioè la fine, la morte, quell'ordine che Gargani chiama ironicamente univoco e cristallino della realtà. Questo ordine il linguaggio lo mette continuamente in discussione, lo sconfigge. Non solo il linguaggio della poesia, ma la scrittura letteraria, in genere, ha proprio questo scopo. Per queste ragioni non ho trovato nessuno scandalo nel libro, perché lo vedo dal punto di vista della poesia; probabilmente c'è scandalo dal punto di vista della filosofia, per coloro che elaborano teorie filosofiche conclusive. Dal punto di vista della poesia, dal punto di vista della narrazione non c'è scandalo, c'è apertura. Mi sono soffermato sull'idea della filosofia come linguaggio della morte, come linguaggio che uccide il linguaggio, anche quello appunto della filosofia, linguaggio conclusivo della vita umana; e mi sono chiesto se questo dubbio non possa essere riferito anche alla poesia. Che cosa è in fondo la firma finale di una poesia se non una piccola morte? Nella scrittura c'è questa piccola morte e c'è comunque sempre una promessa di nuova vita, una promessa di resurrezione della stessa scrittura. E questo credo che valga per la poesia, per la narrativa ed anche per la scrittura filosofica come la intende Gargani. Ma restiamo al linguaggio della poesia e diciamo perché questa non è un'opera di poesia. Vorrei attirare l'attenzione dei miei amici filosofi su un problema che sembra semplice, e non lo è. Questa opera è scritta in prosa e non in versi. L'opera di poesia è una produzione di pensiero che ha bisogno del verso, ha bisogno della spezzatura - della rottura, di una scrittura che ritorna su se stessa appunto andando a capo, andando a capo quando vuole andare a capo per spezzare il senso, spaesarlo, dislocarlo. Questo è il senso profondo del fare poetico; la scrittura che si spezza perché sposta il senso precostituito dalla frase. La poesia ha un vantaggio a proposito di resurrezione del senso, di linguaggio come vitalità che continua ad accadere dopo tante piccole morti: è proprio la scrittura in versi, cioè il verso come tale. Questo può apparire di più difficile identificazione nelle strutture metriche tradizionali; ma è inequivocabile in tutta la tradizione moderna e contemporanea il fatto che il verso si costituisca in quanto tale proprio nella misura in cui spezza e disloca il senso. Ecco perché a me piacerebbe che i filosofi - visto che tutti i filosofi contemporanei sentono questa fine di una filosofia chiusa, che coincide con la conclusione della vita - si occupassero di più della forma linguistica della poesia, come forma aperta di interrogazione sul senso. Infatti la poesia non dà risposte. La poesia pone domande in continuazione, proprio per il modo stesso in cui si costruisce la sua forma. Se volesse concludersi in un senso, andrebbe a sovrapporsi a una qualunque di quelle teorie filosofiche che coincidono con la fine della esistenza, con la morte stessa del linguaggio. Mi chiedo dunque perché, in una così profonda crisi della filosofia, i filosofi si accostino più alla idea di narrazione, di scrittura in quanto narrazione, piuttosto che alla forma linguistica della poesia, che sembra invece più vicina a questa esigenza del linguaggio di • mettersi in crisi e contemporaneamente di fare domande. In sostanza la poesia è fatta tutta di frasi ulteriori, cioè da una partenza si va ad una frase ulteriore che mette in crisi la precedente, proprio perché se non ci fosse questa frase ulteriore, scrive Gargani, che in filosofia mette in crisi tutta la teoria filosofica precedente, non ci sarebbe neppure la poesia.
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