Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

I. pagina 6 stificare un diffuso quanto inconsistente luogo comune. Quello secondo cui la lotta armata non avrebbe fatto altro che portare epigonalmente alle estreme conseguenze il teorema maledetto della politica: «il fine giustifica i mezzi». Che sarebbe come dire: il fine politico della lotta armata ha soppiantato il fine dell'etica. Oppure, ancora più pervasivamente: i mezzi della politica (della lotta armata) nel perseguimento del fine (politico) sono negatori dei fini etici e perciò stesso affossatori dei mezzi dell'etica. Il punto è, invece, un altro: è proprio un sistema di fini di natura etico-politica che fonda la scelta della lotta armata. Il nodo irrisolto non sta nell'intreccio di «mezzo» e «fine», anche se pure di questo si tratta, ma in un non sufficientemente problematizzato rapporto tra etica e politica, in cui i fini etici e i fini politici si soppendono alternativamente e a rotazione. La questione è esattamente questa: nella grammatica della teoria e prassi della lotta armata convivono un'etica fondamentalista e una politica fondamentalista, egualmente universalistiche e totalizzanti. Il fondamentalismo politico come non aveva letto la «secolarizzazione» così non legge la «complessità sociale». Il fondamentalismo etico si sostituisce alla politica nella presa delle decisioni estreme, giustificando la terribilità e la tragicità delle scelte e degli eventi limite, facendoli rientrare in un duro e tremendo destino di necessità storica in movimento verso l'emancieazione integrale della comunità umana. E sempre una cattiva infinità politica che sospende l'etica; è sempre un intransigente integralismo etico che sospende la politica. Dalla cattiva infinità politica discendono i più tragici guasti per l'etica; dall'integralismo etico conseguono le maggiori perversioni della politica. 3 Dunque: sin dall'inizio, la lotta armata ha contenuto un errore • strategico e di prospettive tanto sul piano politico che su quello etico. Detto questo, rimane da storicizzare meglio. Non poteva essere, così come andava disegnando nell'immagine di sé che costruiva, la soluzione dell'acutizzarsi dei conflitti sociali. Ma rimane indubbio che acuti conflitti sociali siano stati in campo. Di questa acutizzazione la lotta armata non è stata la migliore interprete, sul piano politico e sociale. Anzi, il suo rapporto con i movimenti della mobìlitazione collettiva è andato sempre più rarefacendosi, fino al punto da risultare essa - la lotta armata - una delle A più voci complicazioni più duramente strutturate di contro alla crescita dei movimenti e delle ipotesi della trasformazione sociale. All'opposto, il suo rapporto con lo Stato è andato sempre più contrapponendo machina artificiale a machina antiartificiale, in una vertigine che cancellava la «società civile» nell'equivalenza tra diritto e guerra e tra quest'ultima e la trasformazione. Si tratta di riflettere sia sui limiti e sugli errori di fondazione, di prassi e di strategia della lotta armata, come sugli elementi di labilità presenti nella struttura dell'azione A ciascuno il suo: è tempo che questo elementare principio di responsabilità politica venga ripristinato e valorizzato estesamente. Di responsabilità si tratta; non di assoluzioni incrociate o cancellatorie. Ricostruire un quadro completo e aperto di discussione, senza compiacenze e senza veli: questa pare una delle esigenze che più premono. Che questa urgenza sia particolarmente impellente per la Sinistra appare fin troppo evidente. Le ragioni del cambiamento e della trae çtogiornalequestogiornalequestogiornalequestogiornalequestogio Associazione culturale Franco Basaglia una rivista per lo scambio e contro l'interdizione • le lingue colte e consapevoli con quelle mute e del silenzio • le immagini non banalizzate, ma autonome e date come testo • la salute mentale quale generale salute sociale • di nuovo l'aggiramento dei settori, delle discipline e corporazioni; tralasciando le figure normate e affrontando le quasi infinite diversità • per le vie dopo l'emergenza e la maniera dei media una rivista quadrimestrale di materiali, scritture, poesia, narrazioni, fotografia e pittura spedizioni in abbonamento v. San Cilino, 16 - 34126 Trieste 040/574200 4 fascicoli L. 32.000 c/c postale n. 11385341 è nelle principali e più intelligenti librerie è nella distribuzione alternativa di esperienze, gruppi, centri collettiva. Il «muro» che la lotta armata ha eretto di contro ai movimenti non assolve questi dai loro limiti. Come, su un versante tutt'affatto diverso, gli effetti di stabilizzazione in senso autoritativo-conservatore che la lotta armata ha innegabilmente scaricato sul quadro politico-istituzionale non assolvono sistema politico e opposizioni dalle loro responsabilità: in questi ultimi venti anni, in Italia, è stato costruito un ordigno extra-normativo di eccezionalità a catena, non unicamente imputabili alla «emergenza terroristica». sformazione, la necessità di lavorare a un «ordine sociale» più equo, giusto ed emancipante, che la lotta armata non ha saputo interpretare e organizzare, rimangono. Per chi è stato interno all'esperienza della lotta armata, ripensare il senso politico del proprio percorso vuole dire ritrovare le ragioni e la problematica alla base della sua propria scelta. Ritrovare il nucleo originario e denso di quei problemi significa mettersi in cammino alla ricerca di altre soluzioni politiche e sociali possibili. La lotta armata non 'è stata la fine, il seppellimento definitivo e Alfabeta 1121 autodissolutivo delle politiche della trasformazione e del cambiamento: una sorta di «ultima spiaggia» della rivoluzione e della trasformazione. Al contrario: ha costituito l'acme della crisi di emancipazione che vivono i nostri tempi, in una delle sue forme più dure e radicali. Ma se quelle ragioni restano, rimangono da pensare nuovi modelli di azione politica, nuovi percorsi di trasformazione, nuovi moduli teorici, sulla base di una presa di congedo che emancipa da una esperienza fallimentare e fallita, ma non per questo esorcizzabile e demonizzabile. È questa una responsabilità che incombe in capo soltanto a chi porta addosso il segno drammatico di questo fallimento? Oppure è terreno di «responsabilità collettiva», in cui più di una forza politica, più di un attore sociale, più di un soggetto istituzionale - se non tutti - è chiamato a cercare e trovare risposte adeguate? In realtà, il campo dei rapporti tra responsabilità, etica, politica e conflitto, particolarmente nel tornante che sta attraversando la società italiana, sembra essere il «terreno minato» su cui la democrazia politica ha sempre pericolosamente danzato. Su di esso tutti debbono procedere con la perizia di un artificiere, pena la deflagrazione. Una danza diversa è pensabile e costruibile? Dai «limiti» e dai «paradossi» della de-· mocrazia, con tutta probabilità, si esce soltanto pensando la democrazia a un più alto livello di problematicità politica e destinalità storica. Conservando dei modelli democratici le insuperabili conquiste e le irrinunciabili lezioni. Cercando nuovi e più emancipativi «centri»' di unità politica. Disegnando sistemi più congrui ed elastici di soddisfacimento delle aspettative sociali. Ricostruendo i meccanismi della rappresentanza politica, schiodandoli dal reticolo stretto dell'interesse. Ridisegnando il rapporto tra sovranità e cittadinanza politica. Il pericolo che incombe è veramente grande: le democrazie arrivano all'autodistruzione proprio a causa del «difetto di democrazia», processo perverso connaturato alla loro evoluzione storica. Il «programma della trasformazione» salva la democrazia, eccedendola. Al di sopra della soglia democratica c'è l'emancipazione e il suo cammino; al di sotto, l'incancrenirsi di conflittualità mai risolte e ricomposte e i colpi di fendente tra contrapposte oligarchie. Rock èccuini otitica Ri Robertini P er un paradosso tutt'altro che infrequente, nonostante il rock sia organicamente collegato all'industria (e oggi più che mai, vista la complessiva decadenza delle etichette indipendenti, le indies ), pure esso ha sempre rivendicato una propria politicità: a fronte di una totale integrazione nei confronti dell'industria culturale, esso si è sempre dichiarato, in un 1 modo o nell'altro, all'opposizione. Non è questa la sede per valutare, da un punto di vista per così dire «sociologico», quanto tale discorso sia contraddittorio (e comunque chi è immune da coinvolgimenti con l'industria?). Il problema è semmai quello, un tempo lungamente dibattuto, di stabilire in che misura un musicista abbia il • diritto di definire la propria musica politicamente impegnata: in altre parole, se esistono dei criteri (al di là della coscienza soggettiva del musicista che più é> meno sinceramente aderisce a questa o ·quella causa), criteri «oggettivi», che permettano di discriminare la «buona» dalla «cattiva» musica politica. Problema forse non ozioso, visto che recentemente il cosiddetto impegno è prepotentemente tornato alla ribalta, e anche con risultati eclatanti (si pensi all'iniziativa di Live Aid). Ma esso ha coinvolto musicisti così eterogenei che viene da chiedersi se la politicizzazione non sia solo una formùla vuota, priva di conseguenza sul piano formale: solo una sorta di «plusvalore culturale», ininfluente sulla natura della musica, e utile semmai in termini di marketing. Un problema a lungo dibattuto, diceva- • mo. E più che nel resto dell'Europa, nell'Italia degli anni settanta. Allora le coordinate culturali che fecero da sfo~do alla discussione erano strettamente implicate col marxismo. Fu così che la critica di sinistra si imbatté in Adorno, e la sua frase chiave («la musica non è ideologia tout court, ma è ideologia nella misura in cui è falsa coscienza») divenne_il passepartout al cui cospetto valutare il grado di «politicità» di questo o quel musicista. Si finì col produrre proprio ciò che Adorno avrebbe maggiormente aborrito (a parte il fatto che Adorno, com'è risaputo, in realtà aveva sempre disprezzato la cultura di massa in generale, jazz compreso): musica «con le dande» che (soprattutto per ciò che riguardava i titoli... ) dichiarava la propria fedeltà al socialismo ma che, utilizzando acriticamente il sistema tonale tradizionale, armonia compresa, contraddiceva penosamente i propri intenti rivoluzionari (e nel mucchio vanno messi proprio tutti: dai cantautori, ai jazzisti cantori di «fabbriche occupate», ecc.). La questione centrale era quella dell'uso delle dissonanze, e solo un ristrettissimo manipolo di musicisti sfuggì alle ingenuità del periodo. Tra i gruppi sinceramente militanti vanno messi innanzitutto gli italiani Area e gli inglesi Henry Cow. Comune ai due gruppi un radicalismo sonoro che tentava di scardinare i fondamenti stessi dell'armonia attraverso un uso continuo di dissonanze e rumore. Pur tra le innegabili differenze, Area e Henry Cow tentarono di costruire un rock «critico» che distruggesse alla base il carattere normativo dell'armonia classica, lasciando irrompere, proprio col tramite delle dissonanze, quelle che Adorno aveva chiamato le «antinomie sociali». E se gli Henry Cow propesero per un sound debitore nei confronti delle avanguardie colte (Eisler, Weill) - dunque suscettibile di un certo accademismo di riporto - gli Area fecero di più e di meglio: a parte l'enorme talento di un vocalist come Demetrio Stratos, attraverso l'inserimento di timbri e sonorità «etniche» (Luglio, agosto, settembre nero), mostrarono che se il rock vuol dar voce ad una qualche alterità deve inscrivere nel proprio stesso corpo (anche grazie ad un eclettismo che è connaturato al proprio linguaggio), tracce delle culture subalterne. Difficile dire quanto di quelle esperienze • sia oggi proponibile. A entrare in crisi è stata senza dubbio la stessa nozione di «falsa coscienza»: si dà per scontato, e non senza ragione, che ogni coscienza è falsa e dunque la pretesa di trovare musica che esprima «oggettivamente» le contraddizioni di un'epoca è fondata su un equivoco. Eppure il pensiero di Adorno, debitamente riletto e «indebolito», potrebbe servire come strumento di analisi: soprattutto perché l'ipotesi tutta hegeliana che la storia degli uomini si riflette nello «spirito oggettivo» sembra ancora convincente (e gli stessi esiti dell'ermeneutica contemporanea sembrano andare in questa direzione). L'indebolimento starebbe nella consapevo-

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