Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

Alfa beta 112 male. Non volevo dire che il mercato è un fatto negativo; volevo solo dire che il mercato non deve pensare al posto dell'artista. La crisi permanente fra l'individuo e il contesto sociale fa sì che non si possa vivere senza ripensare continuamente se stessi facendo arte, poesia, filosofia, musica, architettura, politica. E' questa crisi permanente che crea la necessità della ricerca, non il mercato, non la ricerca di un prodotto vendibile. Francesco Leonetti. Non sono d'accordo con Jean-Jacques Lebel perché mi pare che egli ponga delle esigenze di fondo che sono fortemente datate in senso surrealista. C'era allora una forma di auto-organizzazione degli intellettuali, di alternatività nella gestione dell'opera d'arte, che purtroppo oggi abbiamo perduto. L'esigenza più profonda è di realizzare il nuovo, in forme inedite, in forme di elaborazione progettuale profonda, attraverso una strategia capac~ di essere contraddittoria alle grandi istituzioni. E' necessaria una strategia anti-istituzionale, esplicita e vigorosa, come più o meno si è fatto con strumenti, circolazione di idee, documenti, schieramenti, scelte, proposte, durante il periodo sfortunato e nello stesso tempo molto vivo, che noi ricordiamo insieme, quello degli anni sessanta-settanta. Noi quindi dobbiamo pensare a una tensione molto elaborata, su più fronti, in più modi, e uno di questi modi è l'arte, la sua gestione, la sua circolazione, le sue problematiche, senza contare sulle istituzioni, se non per aspetti occasionali, come quello della Biennale. Corrado Levi. Non si capisce perché quando uno è invitato alla Biennale, deve fare sempre grandi opere, un terzo più grandi di quello che dovrebbe fare. Massimo Carboni. Dividiamo il discorso in due settori, che è poi la divisione istituzionale della Biennale. Il padiglione centrale: secondo me qui c'è subito un discorso, molto sintetico, da fare. Come sappiamo, per questa Biennale la decisione è stata quella di assegnare ad ogni artista una sala. Le conseguenze sono di ordine positivo e di ordine negativo. Di 1 Che il rapporto tra etica e politica sia uno dei nodi decisivi della ri- • flessione contemporanea sul «politico» trova ulteriore ed ennesima conferma in molte delle vicissitudini che sta conoscendo l'attuale dibattito sulla lotta armata e sul posto da essa occupato nei conflitti degli anni settanta e dei primi anni ottanta. A ben guardare, la discussione in corso sul rapporto tra lotta armata e conflitti sociali, fatte poche e rigorose eccezioni, appare viziata da alcuni limiti di fondo, i quali reticolano uno sdoppiamento di posizioni, per dir così, «fondamentaliste». Da una parte: la più o meno teorizzata impossibilità, a fronte della crisi del «politico», di addivenire a un politicamente fondato giudizio critico sulla lotta armata, per cui lo scandaglio di fondo e fondamentale non potrebbe essere che di tipo etico. Dall'altra: la sottolineatura della portata strettamente politica del fenomeno, altrettanto più o meno teorizzata, la quale sospenderebb~ o relegherebbe in secondo piano il «giudizio etico» e le sue dimensioni. Questo sdoppiamento di conclusioni non pare convincente e non regge all'approfondimento storico, politico ed etico. Presupposto fondativo della lotta armata è stata una finalizzazione etica, è stato un sistema di identità e di valori: la fissazione ideale e ideologica, prima ancora che storica, di un orizzonte di «società giusta», la società comunista; ossia la perfezione utopico-ideale tradotta e organizzata in società A più voci ordine positivo per l'occhio: dopo tante Biennali della mente e del concetto, abbiamo finalmente una Biennale per l'occhio. Per l'allestimento questa Biennale piacerà molto al pubblico, al pubblico indifferenziato e anche al pubblico minimamente interessato all'arte. Non so se piacerà così tanto alla critica. La conseguenza negativa, secondo me, per alcuni artisti è questa: alcuni artisti hanno fatto un comizio invece di una mostra, nel senso che hanno riempito troppo, hanno affollato la sala in misura eccessiva di opere; per cui, in qualche modo, si ricrea un equivoco che pensavamo di esserci lasciati alle spalle, e cioè quello dell'identificazione tra la qualità del lavoro, il tonnellaggio, e la sua qualità concettuale, il significato linguistico dell'opera. A me sembra che alcuni artisti credano in questa trappola. Per quanto riguarda i padiglioni stranieri, mi sembra che il padiglione di Tony Cragg, lo scultore inglese, sia il migliore. Mi sembra che la Germania continui, con Felix Droese, la pesante linea espressionistica boysiana; mi sembra più un cantiere di tagliaboschi della Selva Nera heideggeriana che non un padiglione di un artista che conosce la misura. Per quanto riguarda Aperto '88, mi sembra che sia una sezione che va analizzata più con occhio sociologico che non specificamente artistico. Mi spiego molto brevemente: oggi nessun giovane artista è sprovveduto, perché tutti conoscono i materiali. E' molto difficile trovare un artista sprovveduto in questo senso. Però si origina, in quest'Aperto '88, una fascia media piuttosto neutrale di artisti incerti: non si sa se fanno un bel lavoro o un brutto lavoro. Sapete perché, secondo me? Perché tutti noi leggiamo le stesse riviste d'arte, c'è una circolazione intensissima per cui i lavori di questi artisti partono da altri lavori, fotografati, riprodotti, e non partono dal mondo. Secondo me, allora, c'è un tratto proprio da sociologia dell'arte da far emergere qui, perché tutti sono destinatari delle stesse immagini, delle stesse riviste: «Art forum», «Art in America», «Flash Art», ora s1 e aggiunta questa nuova rivista che si chiama «Contemporanea di Torino». In particolare, per Aperto '88 mi hanno interessato l'americana Meg Webster, il russo Igor Kopistiansky, l'inglese Simon Linke, il tedesco Oroshakoff e l'americana Barbara Bloom. Se posso, farei tre nomi in positivo, due nomi in negativo. Tre nomi in positivo: dopo lunga meditazione, e naturalmente con molto diverse specificazioni causali, dico: Eliseo Mattiacci, Carla Accardi e Mimmo Paiadino .... Per quanto riguarda quelli che sono due veri e propri tonfi, Clemente e Chia, artisti che non ho mai amato. Alberto Boatto. Mi ha fatto piacere - lo confesso francamente - il modo in cui, nel1' Unter den Linden della Biennale, Gillo Dorfles mi ha presentato a tre sofisticate signore: «Ecco un anticritico che, per di più, si occupa di altre cose». Allora, in veste di «non critico» dirò la mia su questa 43• edizione. Meglio è reagire ai malumori, alle stroncature e ai bilanci in perdita che circolavano tra i cosiddetti addetti ai lavori, e che trovano purtroppo una anche troppo ampia corrispondenza negli appunti da me buttati giù durante il mio svagato tour attraverso i Giardini. Decido così di strappare questi pochi foglietti carichi di notazioni in nero e di tener conto unicamente degli incontri in positivo. O, in forma ancor più privata, solo di quelle opere che per qualsiasi ragione hanno toccato la mia intelligenza, smosso la mia fantasia e la mia curiosità, confermato una mia opinione o un mio ben radicato pregiudizio. Tutti questi incontri si iscrivono dentro una prospettiva di cui Il mare del tempo di Tatsuo Miyajima e i disegni macchiati di figure nere di Enzo Cucchi segnano rispettivamente l'apertura massima e quella minima. Il tempo spazializzato, uno scenario smisuratamente dilatato, nell'ambiente tecnologico costruito dall'artista giapponese; le ossessioni «troppo umane», i segnali di un uomo smarrito nel pozzo della propria «perdizione», nei foglietti visionari dell'italiano. pagina s 1 E poi, all'interno di questi riferimenti prospettici: l'energia tutta volta verso l'ottimismo delle recenti sculture di Mattiacci; gli «ossi di seppia» di Pomodoro; l'ironia ai margini della frana dello scultore Ranaldi; la solenne liturgia spaziale di Kounellis; le «illustrazioni» eseguite da Clemente per un fantomatico romanzo indiano-newyorkese, capricciosamente riportate su troppo vaste dimensioni; l'inventario-manipolazione del mondo dell'inglese Tony Cragg; le scostanti gabbie di metallo della spagnola Susana Solano; l'unica tela che conosco del colombiano Angel Loochlartt, alzata al vento come una vela; gli oggetti spiritati e in levitazione dell'americana Barbara Bloom. La scultura e l'installazione marcano alcuni punti a loro vantaggio rispetto alla stanchezza della pittura e solo pochi artisti si oppongono alla marea fatta di eloquenza, di gigantismo e di decorazione che sommerge troppe opere (anche quelle di Sol Lewitt ma non, per contro, dell'Accardi). I premi fanno centro con la Bloom, il padiglione italiano e le segnalazioni a Cucchi e a Cragg. Il premio internazionale a Johns - che richiama, a molti anni di distanza, il premio (allora) tempestivo conferito a Rauschenberg, l'epico compagno di strada dell'americano - onora l'orgoglioso tramonto di un astro di prima grandezza. Francesco Leonetti. Infine aggiungiamo una «classifica» firmata, come già usiamo fare paradossalmente per i libri in «Alfabeta». E la chiediamo a Carla Pellegrini, gallerista, che nel grande spazio della Galleria Milano non ha mutato nel decennio scorso la sua scelta fondamentale del moderno, dall'espressionismo astratto al concettuale. Carla Pellegrini. Direi: nel Padiglione Italia: Burri, Baruchello, Mochetti;-per gli altri paesi: Markus Raetz (Svizzera), Aristarch Lentulov (URSS); alle Corderie, per l'Aperto: Barbara Bloom (USA), Iorgos Lappas (Grecia), Meg Webster (USA). E in fine, o in principio, anzi, fuori della Biennale: Osvaldo Licini. ata Antonio Chiocchi attraverso il «politico». Alle radici della lotta armata v'è, dunque, un logos progettuale in cui è reperibile una strettissima interconnessione tra etica e politica. Fine e valore della politica, come in una lezione che risale ai Sofisti, a Socrate, Platone e Aristotele, restano il «giusto», la «vita buona». L'elemento utopico e programmatico presente nel nucleo della riflessione politica ed ermeneutica dei grandi pensatori greci, che da Machiavelli e Hobbes arriva fino a Locke, Rousseau e Marx e da Lenin fino a Mao, viene ritradotto comunisticamente. Su questa «base comunista» l'uso, che non consegue assiomaticamente e necessariamente da questa, della «forza fisica» e della lotta armata come mezzo di coercizione e «risoluzione stra te-' gica» delle contraddizioni sociali trova la sua scaturigine motivazionale. Ma, in questa architettura etico-politica, etica e politica non si fondono (come nel pensiero politico greco), né si dissociano (come nel pensiero politico moderno), né si escludono (come in gran parte del pensiero politico contemporaneo). Piuttosto, si supportano a vicenda: dove non arriva la politica, là subentra l'etica; e viceversa. Parafrasando un celebre enunciato strategico: l'etica «continua» la politica, ma con i mezzi dell'etica; la politica «continua» l'etica, ma con i mezzi della politica. In questo modello teorico e questa struttura genealogica, etica e politica si erodono l'un l'altra, l'un l'altra divorandosi. Si fondono, si dissociano ed escludono in un unico composto esplosivo, a volte indivisibile e non disaggregabile e altre schizzofrenicamente lacerato e irricomponibile. Il sistema dei fini etico-politici che costituisce la rete di senso e, insieme, la mappa fondativa dello sviluppo della lotta armata rivela qui un'abissale eccentricità rispetto ai flussi più profondi dell'accadimento storico. Esso non metabolizza le immani trasformazioni di cultura,· del «politico» e del «sociale» che hanno segnato il trapasso dalla società moderna a quella contemporanea (in una parola: la «secolarizzazione»), restando in posizione di estraneità al suo cospetto. È questa indigenza abissale, del «profondo» dell'ethos e del «politico», che, a fortiori, non può far «vedere» e «ascoltare» la società complessa, la cui nascita in Italia segue l'intensissima fase di «accumulazione originaria» che va dalla «ricostruzione» al «miracolo economico». Piazza Statuto e il biennio 1968-1969 parlano già di una «complicazione sociale» dei conflitti e del loro rapporto con le istituzioni politiche, sociali e culturali; stanno già oltre lo schema e la struttura dell'industrialismo celebrato dalle analisi della lotta armata. Esemplificando: estremamente più ricca, avanzata e pregnante è la lettura che Panzieri e i nascenti Quaderni Rossi danno di Piazza Statuto, del «neocapitalismo» e delle «lotte operaie nello sviluppo capitalistico» di quella che le Brigate Rosse danno del. 68 e dell'autunno caldo (prima) e dei movimenti in tutto il corso degli anni settanta e al principiare degli anni ottanta (dopo). La lotta armata pur nascendo dentro un'insorgenza sociale di conflitti ne dà un'interpretazione regressiva, non condividendone né il senso, né il destino. La sua internità regressiva alla conflittualità sociale la porta ad avere, contemporaneamente, una base relativamente di massa e uno sviluppo sempre più divaricato dalla dinamica di processo descritta dai momenti dell'azione collettiva. Questa contraddizione originaria è una delle ragioni primarie del suo fallimento e della sua sconfitta. Essa fallisce nell'atto stesso di insediarsi, poiché gli sbocchi delle trasformazioni sociali e della mobilitazione collettiva la trascendono tanto sul piano politico quanto su quello del senso. È sconfitta, allorché la divaricazione originaria perviene al punto estremo di rottura, a cavallo tra gli anni settanta e gli ottanta. In ambedue i casi, i movimenti le sopravvivono: lavorano ad altre modificazioni di senso, ad altre esperienze di cambiamento, di socialità e socializzazione. Il declino dei movimenti parla di un'altra crisi; non di quella della lotta armata. Come la crisi della lotta armata non parla della crisi dei movimenti. Soltanto in un grande processo di estensione storica, la «lunga durata», crisi della lotta armata e crisi dei movimenti possono essere legittimamente ·inscrjtte in un contesto unitario. 2. Se così stan le cose, è agevole demi-

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