Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

Alfabeta 112 rettezza a leggere in relazione biunivoca e causale le evidenze biochimiche e quelle cliniche. G ià Engel rileva l'incongruenza fra indagine molecolare - cellulare - SNC - persona - due persone - famiglia - collettività. Il rapporto non può che essere «suggestivo». Ciò che significa in uno scenario non significa necessariamente in un altro. Basti pensare al rapporto fra significatività statistica e significatività clinica. Come valutare un tasso statisticamente insignificante di pratiche di contenzionei fisica all'interno di un reparto psichiatrico? Come una non significativa casistica di malpratica farmacologica: il non significato è insignificante? Chi sono, dove vanno a finire quelle frazioni di popolazione numericamente scarse considerate f ailure cioè fallimenti? I fallimenti, i non responders non generano forse più produzione di conoscenza? In altre parole si tratta di verificare il «grado di rilevanza delle tante frazioni di pazienti NR, ricaduti, o persi alfollow-up, per la popolazione presa in esame. Si tratta di ridare centralità a questi portatori di bisogni reali o prioritari che nei trials che fondano la psicofarmacologia vengono recensiti e contati solo come differenza (popolazione totale - R = NR), variabili da controllare, fattore di confusione, e che invece hanno anzitutto una esistenza clinica assistenziale rilevante e quindi un messaggio informativo altrettanto importante (più innovativo?) di quello dei pazienti tipici». Ancora Bohr rileva come a seconda del set sperimentale gli stessi fenomeni osservati possono essere spiegati solamente con la teoria dell'onda o solamente con la teoria delle particelle quantiche: notate bene «solamente» eppure, afferma Bohr, entrambi i modelli teorici sono necessari per spiegare l'universo dei fenomeni osservati. Indagare per identificare le radici della malattia è diverso da indagare per identificare le relazioni nella malattia. La necessaria e dialettica complementarietà del P enso con questo breve scritto di non rompere la consegna del silenzio, il rifiuto cioè di teorizzare in modo astratto sulla soggettività che ha da sempre caratterizzato lo stile triestino. La nostra «leggerezza», il presentarsi nudi di fronte alla persona in crisi, sono l'unica garanzia perché l'incontro con l'altro abbia il carattere dell'unicità e dell'ineffàbile rivelazione. L'eleganza di questo stile consente al soggetto in crisi di rimanere protagonista centrale non solo nella ricerca conoscitiva sottratta all'incontrollabilità schematica, o nel migliore dei casi intuitiva dell'operatore, ma anche nel processo di ricomposizione della propria identità. quantitativo e del qualitativo in psichiatria non elimina la differenza fra i due sguardi, fra le due scritture: la scrittura (racconto? cultura?) di quanto visto e udito, la scrittura (epidemiologia) degli eventi, delle loro associazioni significative (e già abbiamo rilevato la doppiezza di questa nozione). È forse tempo di recuperare le certezze del qualitativo e le incertezze del quantitativo, disperdere la assertività definitoria dei «dati» e condensare la dubitatività in progress delle «esperienze vissute»: evocare la fantasia là dove manca (nel quantitativo) ed evocare la sperimentalità là dove manca (nel qualitativo). In questo senso ci pare che i progressi in psichiatria da ormai molto tempo vengono dalle pratiche di trasformazione dell'assistenza e della epidemiologia, osservatori entrambi ove l'abitudine-necessità a non ragionare per cause, a diffidare delle categorie (potremmo dire della ideologia), è la caratteristica metodologicamente più rilevante. Dall'idea di caso clinico all'idea di popolazione il passaggio è riodale e «critico»: le infinite singolarità (storie, memoria, sofferenze di cura e curanti), mantengono la individualità del ciascuno ma contemporaneamente assumono lo spessore dei «tut-. ti». Non mancano degli esempi di ricerca ove sperimentalità e fantasia, intelligenza delle ipotesi e rigore metodologico si sono incontrati. Così come non mancano gli esempi di pratiche di trasformazione la cui consistenza teorica e la tenuta nel tempo ne fanno riferimenti imprescindibili di produzione di sapere scientifico. Penso al Pilot Study on Schizophrenia dell'OMS del 1979 condotto in nove paesi che ha dimostrato con un follow up di due anni sostanziali differenze di esito della schizofrenia evidenziando trend più favorevoli nei pazienti dei paesi in via di sviluppo (Nigeria, India, Colombia) cioè mostrando una forte associazione fra fattori di contesto macroculturale ed evoluzione della malattia. Penso agli studi di Brown e Il pudore di fronte all'altro è l'unico atteggiamento ammissibile per riparare i danni della vecchia psichiatria biologica che riduce il paziente al silenzio ricorrendo ad ogni mezzo, fino alla violenza fisica più brutale (elettroschock, isolamento ecc.). Il silenzio rimane d'obbligo rispetto alla rumorosità dei teorici dell'ascolto (i cosiddetti tecnici della psiche). Parlano così forte che non si accorgono che l'altro è ammutolito o si è semplicemente sottratto al divano o allo specchio (i modelli psicoterapeutici rispondono solo all'uno per cento della domanda psichiatrica). Incuranti dell'irrilevanza pratica, i detentori di questi modelli, nella lotta tra loro per conquistare la centralità alfa bis. 3 Vaughn e Leff del 1976 che hanno mostrato come la probabilità di ricaduta di pazienti schizofrenici dimessi sia significativamente più elevata fra i soggetti che rientrano in famiglie high expression emotion, quanto i neurolettici siano indispensabili per proteggere questi pazienti e quanto invece siano meno utili per i soggetti che rientrano in famiglie meno ostili, cioè mostrando la stretta interazione fra fattori microculturali (ambiente familiare) ed evoluzione della malattia e potenza «relativa» del farmaco. Penso agli studi di Bleuler, Huber, Ciompi, Zubin sulla cronicizzazione della schizofrenia che mostrano, a partire da un confronto fra storia naturale e istituzionalizzazione, la caratteristica di «artefatto sociale» (cioè anche iatrogeno) della cronicità della schizofrenia, cioè mostrando la stretta connessione fra storia naturale della malattia e carriera psichiatrica del malato mentale. Penso infine, a quella complessa opera scientifica che ha in Basaglia il suo fondatore, in Trieste e Arezzo i suoi luoghi di realizzazione, nella attuale scuola di Trieste la sua continuazione e crescita: ove si è mostrato che la deistituzionalizzazione non è una modificazione gestionale della malattia (dall'ospedale al territorio) ma un processo che implica ben altro che i «luoghi» ma i modi, i metodi, la malattia stessa. La deistituzionalizzazione è stata anche deospedalizzazione ma è soprattutto un processo critico di trasformazione degli statuti della malattia e della cura. La dimostrazione è sperimentale: sono mutate le forme della malattia e le forme della cura, cioè si è mostrata la profonda dipendenza della malattia mentale dalla sua cura, cioè si è mostrata la dipendenza dei modi dell'ammalare e del migliorare dalla organizzazione sociale della cura identificando nelle forme del politico e dell'affettivo le strutture della terapia. Questo procedere attraverso le associazioni, le probabilità, le correlazioni, fonda il procedimento delle istituzioni culturali ed accademiche, non esitano a svendere l'anima dei pazienti. Pur di accattivarsi i favori di chi detiene il potere utilizzano le intuizioni ed elaborazioni originarie (sulle quali si fondano i vari modelli) per un'azione di controllo più raffinata. Le tecniche psicoterapeutiche stanno sostituendo così il troppo screditato modello biologico. Per esempio, sembra che nei servizi ospedalieri psichiatrici di Bologna l'uso delle fasce di contenzione venga teorizzato come necessario a rinforzare la debolezza dell'Io. Il nostro silenzio ha significato anche lasciare spazio ai movimenti della persona verso la riconquista dei diritti elementari calpestati da ogni tipo di tecnica psichiatrica, della epidemiologia psichiatrica ma può e deve diventare il procedimento generale per una lettura della malattia mentale e della sua cura che consente di considerare contemporaneamente il qualitativo e il quantitativo. Michael Shepherd ha parlato di psichiatria epidemiologica in luogo di epidemiologia psichiatrica, intendendo così non solo la applicazione delle tecniche epidemiologiche alla psichiatria ma la introduzione di uno sguardo complessivo. Tale sguardo se da un lato sancisce la fine dei mondi separati: la psicofarmacologia, la psicoterapia, la psicopatologia, la diagnostica ecc.; dall'altro mette in relazione intelligente la biologia e la storia, i ciascuni e i tutti. Questa fase importante della ricerca in psichiatria è possibile in quanto i malati di cui lo psichiatra si occupa sono usciti (o possono uscire) da quel ghetto in cui ciò che era proprio di ciascuno si perdeva nella categorizzazione violenta e ciò che era di tutti (memoria collettiva, classe) si perdeva nella individualizzazione del «caso clinico»: anni di miseria, di solitudine, di esclusione, di emigrazione vengono contenuti nella astrattezza senza storia della diagnosi, cosicché sia negata ogni individuale connessione con le vicende e i luoghi ma al tempo stesso e all'opposto sia affermata una tranquillizzante privatezza di ogni sofferenza, inclusa dentro il cervello ammalato, reclusa dentro l'istituzione antica o moderna. La questione, la sfida, che oggi si apre è quélla dei metodi della ricerca, del dove, del cosa e come misurare: il malato~ migliorato allorché è inscrivibile nella colonna dei no more symptoms oppure in quella, non necessariamente sovrapponibile della community tenure, oppure, ancora, quali sono le variabili e gli indicatori da considerare per valutare un trattamento, un esito, un servizio? Il laboratorio naturale della ricerca non può essere quello della realtà dei servizi e la complessità, le eterogeneità, le memorie storiche, i linguaggi non possono essevecchia o nuova, che toglie al soggetto la centralità nel rapporto terapeutico. Questa tensione etico giuridica verso le tecniche psicoterapeutiche è lontana dal rifiuto del valore culturale insito nelle esperienze ed elaborazioni che sono alla base delle varie articolazioni del paradigma psicologico. In riferimento al contesto nel quale queste brevi note appaiono, vorremmo fare alcune osservazioni. Sorprende che in molti spazi di cultura venga accettata una vistosa discontinuità, una barriera tra crisi soggettiva cosiddetta normale, analizzata e affrontata da filosofi, poeti, artisti ecc. e crisi psichiatrica delegata ai tecnici. Sorprende che molti uomini di cultura siano pagina V re considerati variabili di confondimento bensì elementi costitutivi dello scenario della ricerca; il tempo, lo spazio, l'organizzazione, la affe,.ttività,si costituiscono come le variabili «vere» e le dinamiche che determinano l'evoluzione delle malattie, il loro peggiorare o migliorare. Da qui dobbiamo partire. È di uno sguardo ciò di cui abbiamo bisogno per ricercare, capace non di fornire spiegazioni ma di generare ipotesi. Bibliografia G.W. Brown - T. Harris, Socia/ origins of Depression, Tavistok, London, 1978. N. Bohr, Discussion with Einstein on epistemologica/ problems in atomic phisics, cit. in L. Eisenberg Mindlessness and Brainlessness in psychiatry, «British J. Psychiatry» 148, 1986. L. 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Gallio - M.G. Giannichedda - O. De Leonardis - D. Mauri, La libertà è terapeutica?, Feltrinelli, Milano, 1983. M. Shepherd, Psychiatric epidemiology and epidemiologica/ psychiatry, «American J. Pubi. Health», 75, 1985. così chiusi nelle loro istituzioni in un campo, quello delle crisi soggettive, diventato laboratorio di sperimentazione conoscitiva e progettuale per giuristi, economisti, legislatori, architetti ecc. Spesso i discorsi sulla crisi soggettiva sono caratterizzati da una netta separazione tra mente e corpo, mimando una specializzazione e una parcellizzazione ormai rifiutate dalle stesse scienze esatte, lanciate alla ricerca dell'abbattimento della barriera tra fisica e metafisica. Quando, in difficoltà ad entrare in sintonia con i movimenti avanzati dei soggetti in cri~i, si cercano riferimenti culturali, si rimane delusi dall'ipertrofia dei linguaggi che escludono l'importanza dei

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