pagina II alfa bis. 3 Alfabeto 112 L'istituzione inventata A vent'anni dalla pubblicazione de L'Istituzione negata, bisognerà ripetere qualcosa per noi ovvio, da molti disconosciuto: l' «istituzione da noi messa in questione» da 20 anni a questa parte non fu il manicomio ma la follia. Dissenso a fronte di chi divide i due periodi: quello manicomiale dall'attuale non solo per quel che è mutato (surplus di violenza, ruolo della pericolosità sociale, totalizzazione delle persone) proprie dell' «asilo» ma anche per quel che per noi è invece immutato: l'essenza stessa della questione psichiatrica. Così accade sovente di sentire esporre una concettualizzazione della critica istituzionale tutta riferita all'era del manicomio, ridotto quindi a problema di umanizzazione, di eliminazione di una violenza aggiuntiva e superflua. Periodo che quindi si dichiara a ciò limitato e concluso. Credo che questo equivoco sia il frutto di una banalizzazione molto fuorviante, interessata a ridurre e a esorcizzare la portata della rottura epistemologica introdotta dall'Istituzione negata e a riautonomizzare la psichiatria. L'equivoco non è tale, ma una profonda discriminazione sul riconoscimento dell'oggetto della psichiatria. Cosa è stata l'istituzione da negare? L'istituzione in questione era l'insieme di apparati scientifici, legislativi, -amministrativi, di codici di riferimento culturale e di rapporti di potere strutturati attorno ad un ben preciso oggetto per il quale erano stati creati: la «malattia», a cui si sovrappose in più, nel manicomio, l'oggetto «pericolosità». Perché volemmo quella deistituzionalizzazione? Perché per noi l'oggetto della psichiatria può e deve essere non quella pericolosità né questa malattia (intesa come qualcosa che sta nel corpo o nella psiche di questa persona). L'oggetto fu sempre per noi invece l'«esistenza-sofferenza dei pazienti ed il suo rapporto con il corpo sociale». 1 Il male oscuro della psichiatria è stato nell'aver costituito istituzioni sulla separazione di un oggetto fittizio «la malattia» dalla «esistenza complessiva del paziente e dal corpo della società». Su questa separazione artificiale si sono costituiti degli insiemi istituzionali tutti riferiti alla «malattia». Occorreva smontare questi insiemi (negare quelle istituzioni) per riprendere contatto con questa esistenza dei pazienti, in quanto «esistenza malata». Allora le vecchie istituzioni andavano superate perché culturalmente epistemologicamente incongrue (e tali resterebbero le istituzioni previste dai vari progetti di legge di controriforma). La rottura del paradigma fon- ,. dante quelle istituzioni, il paradigma clinico, fu l'oggetto vero del progetto di deistituzionalizzazione: e la rottura del paradigma si fondava anche sulla rottura della relazione-meccanica causa-effetto nell'analisi sui processi di costituzione della follia. Negazione dell'istituzione, ben più che smantellamento del manicomio fu ed è smontaggio di questa causalità lineare e ricostruzione di una concatenazione possibilità-probabilità: come ogni scienza moderna ci insegna a fronte di oggetti complessi. Il progetto di deistituzionalizzazione coincideva con la ricostruzione della complessità dell'oggetto che le vecchie istituzioni avevano semplificato (dovendo esse usare non a caso violenza per riuscirvi). Ma se l'oggetto cambia, se le vecchie istituzioni vanno demolite, le istituzioni nuove devono essere all'altezza dell'oggetto, che non è più un oggetto in equilibrio ma è per definizione (esistenza-sofferenza di un corpo in rapporto con il corpo sociale) in un non-equilibrio: su questo è l'istituzione inventata (e mai data). Non c'è nulla da fare con la «malattia» come la voleva il «modello medico», con il sintomo e il conflitto come lo voleva il modello psicologico, perché è cambiato l'oggetto, il paradigma, e con essi il sensato programma. Alla «malattia» (diagnosi, prognosi, terapia) ai suoi consustanziali rapporti di causa ed effetto, corrispondevano coerenti istituzioni. Alla pericolosità il manicomio, alla «malattia come le altre» l'ospedale generale, alle topiche dell'inconscio e della coscienza i divani analitici, ma rotto il giocattolo,. demistificato l'oggetto, scopertane la miseria, la deistituzionalizzazione quella vera, ha invaso e scombussolato il campo con la forza degli eventi moderni (e con qualche consapevolezza cheznous). La deistituzionalizzazione, quella falsa, ovviamente tenta il contrario, mummificare l'oggetto della psichiatria, spostando solo le forme e modi della gestione, più Franco Rotelli che altro i luoghi, il look, ben poco d'altro; se il vero oggetto è divenuto l' «esistenza-sofferenza del paziente nel suo rapporto con il corpo sociale», ben misero rapporto hanno le istituzioni tradizionali con questo nuovo oggetto (ma anche molte di quelle nuove). Quanto poco pertinenti, inadeguate, un metro per misurare un liquido, una scatola per contenere la corrente del fiume. Deistituzionalizzazione vera sarà allora il processo pratico-critico che riorienta istituzioni e servizi, energie e saperi, strategie e interventi verso questo ben diverso oggetto. Il problema diventerà non la «guarigione», ma «l'emancipazione», non la riparazione ma la riproduzione sociale della gente, altri direbbe il processo di singolarizzazione e risingolarizzazione. Se la follia è spesso la forma più caricaturale del nostro essere replicanti, essa è la caricatura di una Otello Sarzi fotografato da Alfonso Zirpoli dispiegarsi reale della persona all'occhio finalmente partecipe dello psichiatra. È vero che abbiamo sempre pensato che essa non sia una realtà ontologica ma una realtà inventata, ma pur sempre una dura e viva realtà. «Lo sguardo medico non incontra il malato ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia ma una patologia, dove la soggettività nel paziente scompare dietro l'oggettività di segni sintomatici che non rinviano a un ambiente o ad un modo di vivere, a una serie di abitudini dove le differenze individuali che si ripercuotono nell'evoluzione della malattia scompaiono in quella grammatica di sintomi con cui il medico classifica le entità morbose come il botanico le piante. Ma quando i sintomi da espressione di un disagio e di uno squilibrio nelle condizioni di vita, diventano semplici segni di una malattia che, invece di iscriversi ripetizione; altre volte fine della nel mondo sociale, si iscrive nel ripetizione, esaurimento totale di mondo patologico, la malattia vieogni possibilità di ripetizione. ne sottratta al controllo del grupIn ogni caso occorrerà pure im- po con cui non si può scambiare, maginare che l'unica cosa sensata per essere affidata all'osservaziopossibile è la deistituzionalizzazio- ne di uno sguardo, quello medico, ne di quella scena, l'invenzione di -che, autonomo, si muove in un un modo altro, e la creazione di cerchio dove non viene controllato opportunità, di possibilità, di pro- che da se stesso e dove sovranababilità per il «paziente». mente distribuisce sul corpo del E questo era il lavoro dentro le malato quel sapere che ha acquisimura, questo è il lavoro fuori delle to» (Galimberti). mura. E per questo occorrono laboratori, non ambulatori, laboratori pieni di consapevolezze, macchio~ di deistituzionalizzazione. In sintesi: «uno statuto di razionalità dell'azione terapeutica indi-. ca una concezione della conoscenza (e della scienza) che non solo è ben lontana dall'ideale cumulativo, ma riconduce la conoscenza nell'ambito dell'esperienza urna-· na: essa è un processo aperto, costituito di incertezze e di decisioni» (De Leonardis). Altro che «negare l'esistenza della malattia mentale». La malattia fu un tempo messa fra parentesi solo in funzione dell'esistenziale M a non è solo uno sguardo, la clinica. Allora la malattia, ben fuori di parentesi, si svela come il luogo geometrico delle incrostazioni giudiziarie, diagnostiche, scientifiche applicate soprattutto e senza contraddittorio alle classi subalterne. Insieme di apparati ben oggettivanti la malattia, amministrativi, disciplinari, scientifici, normativi, coerenti con il suo vecchio statuto epistemologico: fu quindi (altro che tra parentesi), luogo centrale del nostro lavoro, l'oggetto della pratica critica, e in ciò ha svelato il suo essere consustanziale alla follia, come introiettata istituzionalità, altri direbbe come soggettività indotta e prodotta. «Quando lo sguardo non è clinico è il malato e non la malattia a essere considerato e visto» (Galimberti). Ma lo «sguardo» si limita nella migliore delle ipotesi a considerare l'essere gettato là (nel mondo) del malato. Purtroppo la clinica non è fondata solo a partire dallo sguardo medico ma anche da una profonda interiorizzazione che viene da molto più lontano. Lo sguardo è già incorporato nell'esperienza-sofferenza, ne è parte non secondaria, è già costituito dal linguaggio della follia che è sempre frutto di un «potere che produce». Occorrerà allora contrapporgli un altro «potere che riproduce». La produzione di vita e la riproduzione sociale che sono lo scopo e la pratica dell'istituzione inventata, devono sfuggire alle ridotte vie dello sguardo clinico, come dell'indagine psicologica, come della pura comprensione fenomenologica, e farsi tessuto, ingegneria di ricostruzione di senso, di produzione di valore, tempo, presa in carico, identificazione di situazioni di sofferenza e di oppressione, reimmissione nel corpo sociale, consumo e produzione, scambio, nuovi ruoli, altri modi materiali di essere per l'altro agli occhi dell'altro. Siamo sempre più convinti che il lavoro terapeutico sia questo lavoro di deistituzionalizzazione volto a ricostruire le persone come attori sociali, a impedirne il soffocamento sotto il ruolo, il comportamento, l'identità stereotipata e introiettata che è la maschera sovradeterminata di malati. Che cura significhi occuparsi qui e ora di far che si trasformino i modi di vivere e sentire la sofferenza del paziente e che insieme si trasformi la sua vita concreta quodidiana. Ecco allora il perché della necessità in psichiatria oggi di istituzioni inventate. Tale è la nostra esperienza «seconda» a Trieste, figlia «autopoietica» dell'esperienza «prima», l'istituzione negata. L'«istituzione negata» fu la descrizione dura di una contaminazione, la pratica che la svelava. L'istituzione affermata è la pratica assunta, consapevole, organizzata, di questa contaminazione. È anche un po' il «muro che riequilibra le vite» come lo vuole Blanchot: di fronte alla anomia del territorio, «di fronte a uno spazio, infinito e infinitamente deserto, è necessario innalzare nuovamente un muro, chiedere un po' di indifferenza, la pacata distanza che squilibra le vite». Nascono così i centri territoriali e allora «il deserto si ripopola». Gli operatori solo in quanto si riconoscono e si ricostituiscono come istituzione scoprono che la città è intessuta di istituzioni, e il malato è un'istituzione, e che c'è bisogno di potere istituzionale per usarle, piegarle, trasformarle. Ta-
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