Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

Alfabeta I 12 analisi heideggeriana della «prestruttura» dell'essere nel mondo che comprende «già sempre» se stesso nel suo «conessere» con gli altri - un'analisi che la nostra comprensione fa dipendere a priori dalla deiezione nel «ciò» e, dunque, dal «destino dell'essere» storicamente contingente - ha trascurato fin dall'inizio un aspetto essenziale della «pre-struttura», ha dimenticato di darsi conto dei presupposti del/'argomentare - addotti nelle tesi 1 e 2 - che soli rendono possibile un'analisi filosofica della struttura esistenziale dell'essere-nel-mondo - e si tratta d'una analisi che pretende di valere universalmente! In ciò - cioè nel trascurare le condizioni di validità della propria analisi - scorgiamo ancora una volta l'oblio del logos della filosofia di Heidegger. Da Heidegger in poi è diventata un'abitudine in filosofia considerare banale l'apriori della riflessione sulla validità e abbandonarlo per adottare l'apriori - che si presume sia più profondo - della costituzione pre-riflessiva e vitalistica del senso. Se si ammette dunque I' apriori del logos del linguaggio nel senso delle tesi 1, 2 e 3, diventa secondo me possibile introdurre un principio metodologicamente rilevante dell'ermeneutica filosofica, il quale dimostra come il puntiglioso rispetto dei presupposti dell'argomentazione formalmente e riflessivamente incontestabili non sia privo di conseguenze e infecondo, come invece fa intendere Gadamer. Questo sarebbe vero in un senso che forse Gadamer ha in mente, ossia soltanto se, sul piano del discorso filosofico, si potesse bensì assumere l'incontrovertibilità dei presupposti illustrati, ma contemporaneamente, sul piano della concreta interpretazione di testi, non si potesse ciononostante fare a meno di ammettere che la verità del relativismo storicistico sia il principio della dipendenza totale della comprensione dalla pre-comprensione storicamente condizionata e quindi dalla completa diversità d'una interpretazione da ogni àltra (il «comprendere sempre diversamente»), principio questo che esclude la concepibilità d'un progresso misurabile in base al grado di realizzazione di norme regolative. Ma, come vedremo, le cose non stanno proprio così. Tesi 4. Se QOn si può concedere che il presupposto di ogni argomentazione filosofica sia l'irriducibile apriori del logos, ciò comporta contemporaneamente che si debba ammettere anche che questo apriori del logos sia parte di quel- !' apriori del!'effettualità del!'essere-nel-mondo (Heidegger) che noi dobbiamo oggi in ogni caso presupporre. Ma questo significa che ogni tentativo di una ricostruzione critico-erSaggi Novak, Ballata degli anni venti, Berlino; foto di Vasco Ascolini meneutica della evoluzione della cultura o della storia della società e dello spirito, sottostà a priori al principio regolativo di dover comprendere i propri presupposti, nel senso dell'apriori del logos, come risultato possibile ed effettivo - dunque come telos - dell'evoluzione o della storia. Questo principio l'ho chiamato principio dell'autoadeguazione a sé delle scienze critico-ermeneutiche, o per dirla con Habermas, delle scienze ricostruttive. Per chiarire la portata metodologica di questo principio, sono necessarie alcune spiegazioni: il mio riferimento alle quattro istanze di validità dell'argomentazione, nonché la mia applicazione di questo apriori dell'argomentazione alla ricostruzione del/'evoluzione della cultura, debbono molto, come è facile vedere, alle concezioni di Habermas d'una pragmatica universale del linguaggio e della ricostruzione delle competenze umane. D'altro canto, però, ho sempre protestato fin dall'inizio contro la dilapidazione e sottovalutazione che Habermas fa della sua concezione delle sue acquisizioni filosofiche, in quanto si rifiuta di distinguere, all'interno della sua concezione delle scienze ricostruttive, la ricostruzione pragmatico-trascendentale dei presupposti irriducibili della argomentazione, che costituiscono il logos della filosofia, della ricostruzione empirico-ipotetica della evoluzione della cultura ovvero della storia concreta. Qui Habermas sembra ancora condividere con Gadamer e con i primi esponenti della Scuola di Francoforte la tesi dei Giovani hegeliani che, dopo il compimento della metafisica teoretica da parte di Hegel, sia giunto il tempo dell'autosoppressione della filosofia, che per esempio si fonderebbe senza residui con le scienze sociali critiche e interpretative. Questo modo di vedere mi sembra insostenibile per vari motivi, dei quali qui potrò esporne solo alcuni. a) Se si condivide con Habermas l'opinione che in epoca posthegeliana sia importante instaurare una cooperazione tra la filosofia e le scienze, che preveda anche un reciproco sostegno ed una scambievole correzione dei rispettivi risultati secondo un principio di coerenza, non ci si può esimere dal sottolineare la necessità di distinguere accuratamente le differenti pretese di validità ed i diversi metodi di controllo della filosofi; e delle scienze, per esempio delle scienze sociali critico-ricostruttive. Soltanto a questa condizione, infatti, le convergenze e le divergenze di queste impostazioni complementari possono avere rilievo metodologico. Ciò pagina 35 comporta fra l'altro, che le correzioni che la filosofia e le scienze sociali si apportano reciprocamente non possano mai esser percepite direttamente, sulla base del confronto dei risultati contenuti in enunciati appartenenti al medesimo piano. Tale ricezione è indiretta: le correzioni vengono apportate mediante gli strumenti metodici propri della filosofia e delle scienze sociali, accogliendo ciascuna lo stimolo proveniente dall'altra. Dunque proprio quando vuol cooperare con le scienze, la filosofia deve tener fermo alla sua funzione peculiare di fondazione ultima, non già per esercitare in tal modo una funzione gerarchica di tutela (siffatte proteste retoriche di modestia sono provocate, a mio giudizio, da una confusione ideologica di categorie metodologiche con categorie sociologiche o psicologiche), ma per conservare il proprio ruolo di interlocutrice delle scienze. Illustriamo questo con un esempio: secondo me non ha nessun senso, né serve alle scienze, suggerire, come Habermas, che i presupposti irriducibili dell'argomentazione siano empiricamente controllabili seguendo un metodo analogo a quello della linguistica, ossia interrogando i parlanti competenti. Infatti anche solo per capire cosa voglia dire «controllo empirico», si deve presupporre già almeno la validità dei presupposti dell'argomentazione. Appunto questa prova pragmatico-trascendentale della funzione della presupposizione, e non un'affermazione empirica, è in grado di distinguere gli enunciati filosofici dotati di validità universale dagli universali ipotetici della scienza empirica, per esempio gli universali della capacità innata nell'uomo di apprendere una lingua (Chomsky). b) Se deve essere possibile derivare dalle pretese di validità universale del discorso umano un criterio normativo per la fondazione delle scienze sociali critico-ricostruttive - criterio che, con Habermas, considero possibile e necessario - allora non basta partire dalle pretese di validità empiricamente ricostruibili, reperibili nei processi comunicativi del mondo della vita. Queste pretese, infatti, in quanto sono relative a forme di vita storicamente condizionate non sono irriducibili e, addirittura, possono esser.e considerate insoddisfacibili in linea di principio nell'età del post-Illuminismo, come ha mostrato Max Weber. È inveçe necessario ricorrere ai presupposti del discorso argomentativo, che neppure lo scettico e il relativista possono contestare senza incorrere in contradd(zione, e «ricostruirli» anzitutto come presupposti pragmatico-trascendentali irriducibili d'ogni ri-

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