I Alfabeta 112 A più voci iva i sessanten11i. a Venezia pagina 3 j Alberto Boatto, Massimo Carboni, Loriana Castano, Aldo Colonetti, Gilio Dorfles, Jean-Jacques Lebel, Francesco Leonetti, Co"ado Levi, Walter Marchetti, Carla Pellegrini, Giarini Sassi F rancesco Leonetti. Vi propongo di dire a voce alcune osservazioni prime sulla Biennale di Venezia 1988. Siamo in trattoria, ci presentiamo come «pubblico», e cioè critici, specialisti, camminatori attraverso le sale, buoni conversatori con gli amici ecc. La nozione di pubblico oggi investe anche gli operatori interni dell'arte, e però non siamo artisti. Comincio io proponendo il titolo da dare al pezzo sulla Biennale: Viva i sessantenni a Venezia o meglio ancora, se volete, Viva i grandi vecchi a Venezia, o ancora, Viva i grandi vecchi a Venezia con nipoti successivi che abbiano i loro stessi occhi. A me pare infatti che la grande riuscita del 1988 sia, anzitutto, l'impianto stesso della Biennale che si presenta come un manuale, con correnti limpide, e qui~di con problemi di perce~ione, di scelta, anteriori alla qualità, o tutt'uno con la qualità, ma riconoscibili anche di per sé. E' quasi un manuale storico dell'arte italiana e i giovani possono orientarsi: è importante questo· primo elemento. Secondo elemento: che ciò che è stato più sorprendente, secondo me, in questi due o tre giorni - siamo a giovedì 24, terzo giorno della vernice - sono stati"i rilanci dei grandi operatori, dei grandi artisti italiani, ovviamente Burri, Pomodoro, anche Tombli, Mochetti. La sorpresa è venuta da loro: sono ancora attivi, e quindi quel meraviglioso filone di sperimentazione degli anni sessanta è decisivo e ha l'Italia fra i luoghi dove più profondamente si svolge ancora. Speriamo che i giovani attingano nuovamente da questi filoni di sperimentazione, facendo scomparire quel decennio di conservatorismo («postmoderno») che ci ha lungamente afflitti nella confusione e nell'emarginazione. Io mi auguro che qualcuno faccia qualcosa di simile anche nella letteratura: sarebbe desiderabile che i grandi vecchi - fra i quali mi metto certamente anch'io - fossero presentati in grandi sale e avessero al loro fianco giovani disposti a maltrattarli ma a sentirne la parola, invece che fare confusione. Debbo aggiungere che l'Aperto è molto dignitoso , con alcuni livelli cospicui dei giovani, particolarmente italiani, e cito volentieri Rossano, Levini, Pellegrin; secondo me, ciò che si vede nell'Aperto non è il «nuovo», cioè una ripresa dell'innovazione in senso profondo; si vede però la scomparsa del postmoderno, che permane in forma assolutamente residuale, e la presenza di un elemento concettuale crescente, in rapporto con l'esercizio formale, o, se volete, una concentrazione di pensiero nella «trovata», spesso, più che un'autentica invenzione; tuttavia, senza un semplice fare pittorico. Dovranno affrontare dunque un periodo di dibattito tra il moderno, il progetto, per il quale ci schieriamo, e il passatismo, o la citazione, o la rimanenza di un contr'ollo sociale sull'arte e sul lavoro intellettuale. Gilio Dorfl.es. No, caro Francesco, devo dire subito che non sono proprio d'accordo con quello che tu dici. Si, è vero che questa Biennale - con la riesumazione dei sessantenni - si presenta molto dignitosamente - come una vecchia douairière con la guepière. (E ìl merito è senz'altro di Carandente che ·ha saputo dare un'impostazione molto rigorosa e organica alla mostra.) Ma - se, come dovrebbe essere, la Biennale vuol indicare lo stato presente - anzi lo stato nascente delle cose dell'arte; allora non ci siamo proprio. Perché il difetto sta appunto nel manico - ossia nei sessantenni che tu lodi. Quello che più (tristemente) mi ha colpito è il loro declino. Senza voler fare nomi; ma per quasi tutti mi è parso che ci sia stato un deciso impoverimento rispetto a quella che era la loro produzione degli anni sessanta-settanta. E lo stesso vale anche per i Kounellis, i Twombly, i Mochetti un punto le cose vanno meglio in questa Biennale: la scomparsa degli uggiosi citazionisti e di altri esemplari, per fortuna tramontati, del cosiddetto «postmoderno». Invece devo segnalare l'ottima e coraggiosa ripresa iperdecorativa di Carla Accardi e riconoscere la notevole qualità delle sale di Paladino (che avrebbe dovuto affastellare meno lo spazio permettendo di far emergere alcune delle sue opere migliori) e di Cucchi che questa volta ha raggiunto un esemplare equilibrio, contrariamente alla desoIgor Stravinskij, La mavra; foto di Ivano Bolondi (e cito artisti che da sempre ho amato e stimato, ma che qui mi sono sembrati irretiti da un velo di stanchezza). E che dire poi della sfilata di scultori? L'idea era ottima: tanto più che la scultura è oggi forse più «viva», meno usurata della pittura. Ma, ahimè, anche in questo caso, ho dovuto constatare il declino di molti eccellenti artisti. A prescindere dalla sempre grandissima (ma purtroppo morta!) Nevelson, e di Chillida, tutti gli altri mi sono sembrati più fiacchi d'un tempo; così Caro, così Ceroli, così Lippold, così Marisol... Segal, ecc. Sono d'accordo con Leonetti che, almeno su lante prova di Chia. E, prima di concludere questo breve colpo d'occhio: vanno ricordate le sale di Liipertz, quella di Anzinger nel padiglione austriaco, quella dell'interessante russo Lentulov, dell'olandese Dibbets (una delle più intelligenti); e, naturalmente quella di Jasper Johns e, tra i pochi che si salvano nel delizioso spazio delle Corderie: gli italiani Pizzi-Cannella, Rossano, Levini, Guaita, De Lorenzo, Rocco Natale; la garbata «vetrinista» Bloom, la jugoslava Sambolec, il greco (troppo ammirato) Lappas, e pochi altri. Jean-Jacques Lebel. E' difficile parlare dopo questo grande oratore, e nel mio italiano d'adozione tenterò di dire due o tre cose. Forse tra i grandi vecchi dei quali parlava Leonetti c'è anche il Veronese, che dà una vera dimensione alla Biennale; fare una mostra d?arte contemporanea in uno spazio che è fuori del tempo (perché se c'è uno spazio speciale, fuori del tempo, nel mondo della cultura e del pensiero, è proprio Venezia). Per me è già una cosa tremenda venire alla Biennale perché negli anni sessanta abbiamo fatto un anti-processo contro la Biennale di Venezia, alla Galleria del Canale, organizzando il primo happening europeo nel 1960, con il seppellimento della «cosa» di Tingely e nel 1988, ci ritroviamo qui, amici di «Alfabeta», internazionali, a parlare ancora della Biennale. Ho trovato opere molto inte~essanti in questa Biennale, su tutti Twombly perché la sua pittura si può leggere da sinistra o da destra, quando la scrittura cade nella pittura da destra, quando la pittura cade nella scrittura. E' un problema fondamentale della nostra cultura, dal futurismo e dal dadaismo in poi; e siamo ancora lì a lavorare ,sulla frontiera, tra questi due linguaggi. Potrei continuare elencando altri artisti, ma vorrei parlare ora della Biennale come strumento di circolazione sociale del lavoro artistico. Mi pare in crisi profondissima e gravissima; bisogna esaminare il nostro lavoro di intellettuali e riflettere sugli strumenti sociali. Il museo, per esempio, mi pare totalmente finito come strumento di circolazione dell'opera d'arte, perché non si può utilizzare lo stesso strumento per conservare la memoria collettiva della cultura passata, e gestire la circolazione delle opere realizzate oggi, dai contemporanei; non si può prendere una bicicletta per andare nel deserto, nella sabbia. Insomma, gli strumenti sono da ripensare, e il fatto che gli artisti invitati abbiano saputo due o tre mesi prima che dovevano fare una sala (mi diceva Piero Dorazzi che è rimasto in studio per due mesi senza mettere il naso fuori perché ha dovuto fare questa sala), è perlomeno contrario ai ritmi della creazione. C'è questo grave pericolo che l'artista diventi pre-programmato dal mercato; per essere invitato bisogna fare un certo tipo di pittura, per avere successo e essere visto è necessario fare grandi quadri di un certo tipo: ti ritrovi a fare, come in una fabbrica, il prodotto mercantile altrimenti non esisti, non hai il diritto di chiamarti artista perché non hai prodotto quello che dovevi produrre. E' un processo chiuso, industrializzato fino alla morte; non credo che la Biennale sia lo strumento giusto per renderci conto di cosa si fa nel mondo dell'arte. I filtri istituzionali per scegliere gli artisti, i direttori, i critici - questa isteria istituzionale della Biennale, ma non solo di Venezia, anche a Parigi è la stessa cosa - non sono adatti a realizzare un rapporto serio, profondo, tra il pubblico e gli artisti. Penso che il lavoro dell'intellettuale e anche quello dell'artista dovrebbe porre al centro del progetto il rapporto tra il tempo dell'immaginario e quello dell'interprete, come avevano fatto i situazionisti e soprattutto gli artisti del Fluxus. Aldo Colonetti. lo cercherei di tornare ad anali~are più lo specifico della Biennale di quest'anno, cioè gli aspetti di carattere lin-
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