Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

Alfabeta 112 (storici, poeti, critici letterari) a cui preme il lato filosofico del proprio lavoro. A questo scopo è stato inviato a diversi studiosi e intellettuali italiani e stranieri un breve testo in forma di questionario, cui essi potevano rispondere con ampia libertà, prendendo spul)to da uno o da tutti i quesiti, o semplicemente assumendoli come occasione per una loro riflessione autonoma sul nesso filosofia-effettualità. Il primo quesito riguarda, a partire dalle polemiche sul caso Heidegger, il problema di una distonia della filosofia nei confronti del mondo e delle sue esigenze. A partire dal caso Heidegger: benché le relative polemiche siano divenute in questi ultimi mesi perfino invadenti, oltre che inquinate da un certo scandalismo, «aut aut» ha ritenuto di non poter ignorare la questione, tanto più dopo avere ospitato negli ultimi anni saggi del filosofo e numerosi interventi sul suo pensiero. Con «distonia» si è voluto metter l'accento su un aspetto sconcertante dell'intera vicenda: il fatto cioè che a un'elaborazione filosofica che non esitiamo a definire grandiosa - come riconoscono anche interventi molto duri pubblicati in questo stesso fascicolo - si accompagnino prese di posizione anguste, quando non semplicemente penose. La rituale distinzione tra filosofo e filosofia non ci sembrava sufficiente, a.questo proposito: il primo quesito suggeriva perciò un limite costitutivo nello stesso statuto della filosofia. Un secondo quesito riguardava, di conseguenza, il tema della responsabilità della filosofia. Ha senso parlare oggi, in un'epoca di totale disimpegno degli intellettuali, di responsabilità della filosofia, e come può configurarsi? Un terzo quesito riguardava infine la possibilità di una diversa accezione della nozione di responsabilità. Invece di definirsi come vincolo o obbligazione (nel senso di «rispondere di», dell'obbligo a manifestare quel Bene che la filosofia è supposta detenere costitutivamente), la responsabilità potrebbe configurarsi come impegno a «rispondere a», nel senso di una dipendenza da quall'alterità - volta per volta opaca, e sfuggente ma necessaria - che abbiamo indicato sopra come effettuale. «Il Verri» Michele Porzio ~ iniziativa del «Verri» di dedicare un numero monografico alle prospettive del teatro musicale contemporaneo era necessariamente esposta al rischio dell'eterogeneità e dell'incompletezza. Cari Dahlhaus, nel suo circostanziato intervento sul rapporto tra Nuova Musica e teatro d'opera, ci ricorda infatti che quest'ultimo è oggi «un fantasma lessicografico» aperto alle so-· luzioni più disparate: il concetto di «opera del ventesimo secolo» non lascia trasparire una logica e una dialettica insita nella sua evoluzio-. ne, o una problematica centrale capace di giustificare le difformità stilisticqe. In tale pluralismo di orizzonti poetici, dove la provvisorietà è il segno dell'efficacia irripetibile delle soluzioni, l'unico dato che emerge unitariamente dagli interventi di compositori e critici è l'estrema difficoltà di accostare la· musica alla sede teatrale, campo minato da ostracismi sociologici e estetici. Già la ricezione sociale della musica congiura a sfavore della nuova opera, perché il «consumo» del patrimonio musicale classico aumenta tanto quanto si affievolisce la frequentazione del patrimonio letterario classico: la letteratura che oggi «va» è essenzialmente quella contemporanea, la musica che «va» è quella tradizionale (Dahlhaus). E' un paradosso sotto gli occhi di tutti e che dà un'idea di come l'industria culturale riduca l'arte a merce. D'altra parte, se i classici letterari sono soffocati da una produzione di levatura spesso trascurabile che rende possibile frequenti «rilanci» sul mercato, Cfr pubblico si abbina in una desolante miscela alla diffidenza legislativa verso tutto ciò che potrebbe nuocere ai consolidati equilibri culturali e politici. Sotto il profilo estetico, la musica operistica deve dare una risposta convincente alle questioni basilari del rapporto con l'aspetto visivo dello spettacolo e con la «narratività» che esso comporta. Si è ripetuto fino alla noia che la nostra è «l'epoca dell'immagine» (viene in mente Borges che si diceva felice di esserne salvaguardato dalla cecità); ma è indubbio che cinema e televisione non hanno musica», come definì un critico la sua opera Atem. La questione della «narratività» ammissibile in un'opera trova risposte variamente articolate nel panorama italiano, ben scandagliato da Petazzi; ma altre soluzioni, meno conosciute, provengono dai palcoscenici della Germania, sulle cui tendenze riferisce in un approfondito saggio Gianmario Borio. Premettendo le parole di Bernd Alois Zimmermann, che vent'anni orsono denunciava la contraddittoria condizione dell'opera definendola «una forma totalmente impossibile, che malgraClaude Debussy, La scatola dei giocattoli, particolare; foto di Ivano Bolondi l'opera di oggi deve confrontarsi con il peso di una tradizione secolare di capolavori; ed è giusto ricordare che, ora come un tempo, le opere destinate ad arricchire il repertorio non possono essere che un'esigua minoranza rispetto alle tante meno longeve che appaiono ·e scompaiono repentinamente. Vi è poi il tasto dolente della committenza, impietosamente percosso da Pestalozza, ossia della scarsa propensione degli enti lirici a mantenere il passo con la Nuova Musica (a parte l'eccezione della Scala); un quadro reso anche più fosco dal crescente impegno nella vita musicale degli sponsor privati, per cui la legge del profitto del repertorio che «piace» al grande fatto che accentuare all'estremo quel predominio dell'occhio sull'orecchio che già nei secoli scorsi obbligava l'operista ad adeguarvi le sue strategie. Ma se allora poteva stabilirsi una feconda alleanza, il compositore contemporaneo preferisce attenersi alla irriducibile diversità dei propri mezzi: emblematici i casi di Guarnieri, che dichiara di sentirsi in una ciclica fase pre-teatrale paragonabile a quella delle sacre rappresentazioni rinascimentali, e di Donatoni che, giudicando la musica perdente nel confronto con lo strapotere della percezione v1z1ata dall'immagine, preferisce la separazione totale, il «matrimonio bianco fra scena e do la sua impossibilità continua a vivere», Borio si domanda le ragioni \della clamorosa inversione di tendenza che ha consentito, all'inizio degli anni ottanta, a vari esponenti dell'avanguardia (Stockhausen, Ligeti, Kagel, Cage e anche i compositori tedeschi dell'ultima generazione come Rihm, von Bose e Miiller-Siemens) di scrivere musica per il teatro. Il riavvicinamento all'opera coincide con la crisi del progetto dell'avanguardia, inteso come segmento del «progetto della modernità» nell'accezione di Habermas. La nozione di «progresso», che garantiva la praticabilità di uno stile perché in sintonia con le tendenze di un'epoca e la condannapagina 25 bilità di un altro in quanto consumato dalla storia, non è più proponibile. E in questa incertezza di prospettive, ora libere dai dogmi che; l'avanguardia severamente imponeva ai suoi adepti, s'inserisce il movimento «neoromantico» presentato con favore da Marco Russo. Nella sua analisi, i neoromantici (Marco Tutino, Lorenzo Ferrero e molti altri) sarebbero, nientemeno, che i legittimi eredi dell'epoca moderna e anche di quella postmoderna: gli esponenti di quest'ultima fase avrebbero rappresentato un indubbio momento di rottura con l'avanguardia, restando però vincolati «alla sola dimensione colta della produzione artistica». Qui sta il punto: a parte la disinvoltura con cui si accostano compositori come Tutino e Ferrero a personalità come Boulez o Kagel - ma non si tratta di emettere giudizi di valore - ciò che stupisce _nell'apertura neoromantica alle dimensioni extracolte del linguaggio musicale è il candore (alla malafede non voglio pensare) con cui si giustifica tale operazione definendola un mezzo per «riavvicinarsi al pubblico»; possibile che Russo, e con lui i neoromantici, non si rendano conto che un artista, chiunque sia e in qualsiasi epoca viva, non scrive per il pubblico né per un élite, ma per se stesso, sempre e unicameente per se stesso? Rifarsi ai moduli operistici settecenteschi e a quelli ottocenteschi credendo di ripristinare una «verginità dell'ascolto» significa invece proporre al pubblico nient'altro che una variante aggiornata di quel rapporto reificato, di evasioni e di consumo, che esso intrattiene con i classici, del passato; proporre al pubblico ciò che vuole e già si aspetta è come· non proporre nulla. Sono tutt'altri i criteri con cui riflettere sul passato (passato come dimensione postmoderna del presente, non come ritorno al passato plauso del pubblico all'autore); è il caso, esaminato da Borio, dell'argentino naturalizzato tedesco Mauricio Kagel. Nel suo Aus Deutschland Kagel continua la sua ricognizione nella storia culturale della Germania, secondo una certa analogia con la ricerca cinematografica di Fassbinder, Herzog, Kluge e Wenders. Aus Deutschland è uno sguardo retrospettivo sul romanticismo musicale e letterario: Schubert e Goethe compaiono in scena come personaggi, assieme a figure caratteristiche della letteratura liederistica, quali la morte e la fanciulla, Hyperion, Mignon; le musiche di Beethoven, Schumann e Brahms diventano oggetto e materiale di . composizione. Tutto ciò attraverso procedimenti di estraneazione e di distanziamento dalla citazione; Kagel evita sempre la citazione letterale, facendo oscillare l'ascolto tra il riconoscimento di un testo familiare e la crisi dell'orizzonte delle aspettative. Tale dialettica non prevede mai la sussunzione di un termine nell'altro, perché gioca su quel sottile equilibrio tra fusione delle dimensioni temporali e loro alterità che risponde al principio ermeneutico di Gadamer in cui la «traduzione» è spostamento in un contesto nuovo, imprevedibile discontinuità dall' ~<originale». di Verri~ Il teatro musicale contemporaneo A cura di Rossana Dalmonte marzo-giugno 1988 • pp. 210, lire 16.000

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