Einaudi • . r,i: FernandoPessoa Ilmarinaio nellatraduzione diAntonioTabucchi Il mistero di una notte di sogni: una pièce inedita di Pessoa. «Scrittori tradotti da scrittori», pp. 65, L. 8000 SilvinaOcampo A.BioyCasares Chiama,odia Un albergo isolato, un furto di gioielli, un assassino puntuale e diabolico, un detective che mischia le carte: un «giallo» che si trasforma in un gioco raffinato sul filo di molteplici indizi. A cura di Angelo Morino. «Supercoralli », pp. r 37, L. 16 ooo Raccontaiztechi dellaConquista sceltiepresentati daT.TodoroveG. Baudot Nei racconti dei vinti prende forma una chansondegeste del Nuovo Mondo. A cura di Pier Luigi Crovetto. «Saggi», pp.LXIX-311 con 11 illustrazioni a colori fuori testo, L. 40 ooo FernandBraudel Unalezionedistoria Il Mediterraneo, la cultura materiale, il capitalismo, la Francia d'oggi: Braudel ridiscute i suoi temi alla luce dell'attualità. Traduzione di Pie~o Arlorio. «Pbe», pp. xn-224, L. 15 ooo Ramusio Navigazionei viaggi VolumeVI La conquista del Messico e del Peru, la ricerca dell'Eldorado, l'estremo nord del Nuovo Mondo nel volume che conclude la monumentale raccolta ramusiana delle navigazioni e dei viaggi conosciuti nel Cinquecento. A cura di Marica Milanesi. «I millenni», pp. Xlii· I 295 con 15 illustrazioni a colori fuori testo, L. I IO 000 AndréChastel FavoleFormeFigure Dal '400 al '900 la tradizione dei generi, l'evoluzione delle tecniche, i significati simbolici di immagini e figure della sto- , ria dell'arte. Traduzione di Marisa Zini e Maria Vittoria Malvano. «Biblioteca di storia del!' arte», pp. xx1-282 con 155 illustrazioni fuori testo, L. 65 ooo pagina 20 ne che ha assunto, per quel che riguarda i fatti più specificamente attinenti all'arte, l'aspetto di una dicotomia tra artistico ed estetico, che hanno finito co.nil volgersi reciprocamente le spalle e procedere in direzioni opposte: l'artistico si è chiuso dentro i confini rassicuranti di una definizionè disciplinare, paga della propria autosufficienza, spinta, in qualche caso (come nell'arte concettuale) fino ai limiti estremi della tautologia; l'estetico, invece, si è allargato in un'area diffusa e sfumata sottraendosi a qualsiasi impegno strutturante e affidandosi interamente all'esercizio di una soggettività destrutturata, tutta ripiegata su se stessa» (p. 124). A me sembra che Mari, prendendo posizione per il moderno - e così intendo, nella sua conversazione con Pedio, il riferimento e il recupero del «sacro» - dica la difficoltà del moderno stesso: sa che c'è una sua sconfitta, su di essa si interroga; sa quindi che una sua ripensabilità è assai problematica, significa mettere in questione le dicotomie del moderno capitalistico, ritornare alle origini del moderno stesso, per riprendere il senso, le istanze, i sogni e i valori lasciati scoperti o traditi, secondo la teorizzazione di Habermas. O si tratta, forse, come sembra pensare Mari, di correggere un peccato d'origine, di frantumazione e di impoverimento in cui affondano le dicotomie e le esclusioni e di compiere una «correzione» e un recupero di valori antichi. È in questa visione che l'autonomia dell'arte non è l'autosufficienza. È, come si diceva una volta, uno specifico, e il rigore dell'autonomia, di cui Mari è straordinario maestro non solo di purezza formale, ma di consapevolezza tecnica e teorica, può coniugarsi con la funzionalità e il rapporto con il reale. E l'artistico e l'estetico tornano ad essere insieme perché è detto il «senso» dell'arte che le dicotomie annullano svuotando l'arte stessa. La citazione di Duchamp, esibita in Mari in una delle sue allegorie, il Dialogo tra Fidia, Galileo, Duchamp, mi sembra dica che bisogna andare oltre l'artisticità perché l'arte non diventi intossicazione (Aldo Colonetti, «Alfabeta» n. 109). Mari non solo con le cose pensa per concetti, ma struttura allegorie che mettono in relazione l'arte e il suo linguaggio con gli altri linguaggi, mettendo con ciò profondamente in causa il sistema dell'arte stessa. L'arte in Mari è ritrovata e ripensata nel suo fondamento problematico in cui lavoro e creazione nell' «operare» umano non sono separati e nel «fare» sta la poiesis tutta intera, o per rimanere nell'allegoria, Fidia che pen- ~a il sacro è coniugabile con Duchamp che lo nega. Fuori dall'allegoria l'arte, nel porre un oggetto, insieme nega la realtà data e ne ipotizza una nuova: la esige, la configura. Mari vuole l'opera e l'oggetto come veicoli della comunicazione, elementi e funzioni del quotidiano; forme essenziali di una progettazione, del reale. L'arte è dunque capace di mutare il reale stesso in un'invenzione che interessa l'uomo e la società globalmente. Vengono da qui la scelta e il senso delle allegorie. È sull'allegoria che di nuovo dobbiamo fermare la nostra attenzione. Francesco Leonetti, nel suo lungo e prezioso saggio per il catalogo, ne ricostruisce il senso citando innanzitutto Hegel, l'inizio e la Bibbia dell'eCfr stetica moderna, e Heidegger alle fonti dell'ermeneutica, ma soprattutto insiste su Benjamin perché rappresenta la più clamorosa rivalutazione dell'allegoria (nel riferimento portante, lo ricordiamo, al barocco). Leonetti cita il testo del 1936 L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, e la lettura complessiva che in Italia ne ha fatto Romano Luperini e il gruppo della rivista «L'ombra d'Argo»: interessa a Leo netti che i'allegoria valga straordinariamente insieme nel linguaggio visivo-artistico e verbale letterario. E cita di Benjamin la stupenda frase del testo sul barocco: «Mentre nel simbolo, con la trasformazione della caducità, fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, nell'allegoria si propone agli occhi dell'osservatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primitivo. La storia in tutto quanto ha, fin dall'inidà luogo a una lunga serie di opere: l'Atlante secondo Lenin (con Leonetti), le 44 valutazioni in cui la falce si scompone e si ricompone, la ruota che segna sempre la Restaurazione se non la si tiene saldamente fissa su Rivoluzione o Riformazione, il Modulo del 1967 in cui lo spettatore vede della sua immagine solo il proprio busto, il Romanzo storico (con Carla Vasio), il già citato Dialogo, dove la bandiera rossa è spaccata con una scure e il cartello dell'Idiota dice «È necessaria un'idea non soggettiva della Natura-Dio». Ora Mari ci provoca con due nuove allegorie, che, secondo Menna e Leonetti, lo portano vicino alla ripresa attuale dell'arte concettuale (per es. Beuys). Sono l'allegoria della morte e quella della dignità. Nell'allegoria della morte ci sono tre tombe con i segni della croce, della falce e martello e della svastica: ed è verso quest'ultima che si muovono le macchine; e il sogno Claude Debussy, La scatola dei giocattoli, particolare foto di Ivano Bolondi zio, di inopportuno, di doloroso, di sbagliato, si configura in un volto - anzi: nel teschio di un morto». E la commenta come rapporto tra l'allegoria e il bisogno di progettare. È, come scrive Luperini ripreso e svolto da Leonetti, uno «spostamento, da una concezione della verità come fondamento assoluto o come oggettività scientificamente constatabile, a una piuttosto legata alla prassi, e cioè all'esperienza e alla progettualità di comunità determinate, mentre è garanzia sufficiente contro ogni deriva nichilistica, salvaguarda anche la possibilità stessa del dialogo fra esseri umani e della sua verifica pratica, dalla distruzione» (pp. 105-106). L'allegoria è infatti, diversamente dal simbolo che intrattiene qualche referente con la cosa, un valore che rinvia ad altro. È nell'allegoria dunque che l'opera d'arte riconfigura il reale. La scelta dell'allegoria in Mari è essenziale e presente fin dal 1954, è di quella data la falce e martello, e del paradiso nell'al di là e quello su questa terra sembrano essersi definitivamente persi. Occorre allora ritornare a riflettere sull'allegoria nei termini di Benjamin perché vi è un nesso stretto tra l'allegoria e annientamento del mondo profano: «Allegorie sono nel regno delle idee ciò che le rovine sono nel regno delle cose»: sono idee archetipe, dunque, con potere di dissolvimento, con potere di distruzione delle forme compiute, dello stesso soggetto che si è contrapposto al reale. Hanno valore sociale e politico di messa in questione: ci pongono di fronte a un vuoto. Viene in luce nel vuoto un fondo oscuro e un peccato d'origine che è quello della scissione. Leggo così in riferimento al vuoto l'effetto degli specchi che ossessivamente e lucidamente ritornano in Mari, nel Modulo, nel Dialogo, dell'Allegoria della dignità. E ci dicono, mi sembra, insieme la sua rabbia e la sua consapevolezza tragica. L'allegoria sta di fronte a una natura e a Alf ab_eta112 . una realtà sociale devastate. C'è allora Fidia e ci sono i nani o le colonne ... : il ricordo infatti, è la figura-chiave dell'allegoria, che ci mette in grado di parlare là dove c'è la scissione, ma non si vuole abbandonare l'universalità e la storia. L'allegoria ripresenta la problematica del senso, il grande rimosso, il grande assente. Ritrova nell'arte la stratificazione dei significati e le «ideologie» o le «concezioni del mondo». Il senso può essere detto parlando del futuro come da sempre fa Edipo, con gli occhi rovesciati all'indietro. E Mari vuole per l'arte la possibilità eteronoma di riferirsi all'altro da se stessa e, come dicevamo, nega che l'autonomia sia autosufficiente. Il reale, come la testa staccata di Orfeo, continua a cantare o a dirsi nell'arte: cui ritornano il represso, il rimosso. Così, sorprendendoci con l'allegoria della morte, Mari ci obbliga a vedere ciò che viene occultato, rompe il silenzio e ci chiama alle nostre responsabilità. C'è in ciò la fiducia - illuministica per Menna - nella razionalità, che si differenzia dal razionalismo perché è ragione capace di contenere l'altro da se stessa e c'è la fiducia che la comunicazione sia possibile e che si possa progettare il reale a misura di un uomo-re, di un uomo-Dio in una natura non più franta e restituita a se stessa. Lo specchio della allegoria della dignità ci pone di fronte alla nostra immagine a un vuoto che è dell'uomo ora. Nessuno osa o può inginocchiarsi di fronte alla propria immagine. Ci accorgiamo alla fine del percorso, che anche il tempo scritto nella mostra rimanda a un altrove e che c'è una motivazione forte della mostra: è essa stessa un immenso, straordinario marchingegno o trappola della dignità e della responsabilità che ci chiama in causa tutti, con ostentata provocazione. Le tre vie della riconfigurazione del reale, ci accorgiamo, sono state collocate da Mari, tutte insieme nella prima sala, nella terza stanno solo le ultime allegorie, l'una di fronte all'altra. E la forma nulla può di fronte a quella morte e lo specchio è un vuoto che solo noi possiamo riempire. Su un lato, in piccolo, in riproduzione, ma è grande nella realtà, c'è l'allegoria del lavoro, una macchina archetipo del lavoro umano, lacerto macchinico la chiama Leonetti e la descrive come invenzione riduzionistica (e dada) di Mari, come archeologia. È ricordo e memoria. È splendida: la guardiamo incantati: la testa di Orfeo continua veramente ancora a cantare. Enzo Mari Modelli del reale San Marino Palazzo dei Congressi 11 giugno - 24 agosto 1988 Catalogo Mazzotta editore Incisioni italiane del Seicento Michele Sovente U na mostra singolare quella recentemente allestita all'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli: un cospicuo numero di incisioni italiane del Seicento, selezionate da una collezione vastissima di stampe che appartengono alla raccolta d'arte Pagliara, donata al Suor Orsola per fini squisitamente culturali. Le centocinquanta e più incisio-
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