Alfabeta - anno X - n. 112 - settembre 1988

Alfabeta 112 I pacchetti di Alfabeta pagina 13 Ritnbaud inAfrica Alain Borer Rimbaud en Abyssinie Seuil, Parigi, 1985 pp. 382, FF. 99 Arthur Rimbaud Lettere dall'Abissinia La Rosa, Milano, 1979 pp. 110, lire 4500 Opere A cura di Ivos Margoni Feltrinelli, Milano, 19641 pp. 500, lire 2000 Testori in Exitu Intervista di Gianfranco Colombo in «Leggere», n. 1, maggio 1988 R imbaud arriva ad Harar, ai confini dell'Etiopia allora chiamata Abissinia, il 13 dicembre 1880, a ventisette anni. È l'ultima e definitiva partenza del poeta, il cui silenzio è da allora diventato uno dei più inquietanti enigmi della letteratura europea. Alain Borer, un giovane scrittore francese nato nel 1949 a Tours dove insegna alle Beaux Arts, ha rifatto questo viaggio circa cent'anni dopo - nell'epoca in cui, parafrasando un nuovo poemetto di Paolo Volponi, «non si possono più intraprendere viaggi, né sono praticabili percorsi di conoscenza; non ci sono più luoghi di contrasti e di formazione». La prima pagina del libro di Borer si apre su un deserto di neve in cui avanza il poeta «dalle suola di vento» («Ce ne peut etre que la fin du monde, en avançant») e terminano in un altro deserto, in Egitto davanti a un blocco di marmo del tempio di Luxor, dove al sole una mano anonima ha inciso la firma enigmatica di Rimbaud. In questa parabola sono come racchiusi i temi sottesi all'opera e alla vita di Rimbaud: il deserto - il deserto nella testa - e l'impossibile «alba di.fraternità» ora perseguita attraverso il movimento, anche fisico, verso l'altrove, ora spinta in solitudine nello spazio della visione e l'urgenza di un'azione collettiva che cambi la vita radicalmente («Quand irons-nous, par delà les grèves et les monts, saluer la naissance du travail nouveau, la sagesse nouvelle, la fuite des tyrans et des démons, la fin de la superstition ... »). Lo scacco del Vate responsabile e fraterno, riconosciuto nella Stagione all'Inferno, ha come risvolto storico lo scacco subito dalla Comune dopo il 1871, durante il peggior periodo reazionario che la Francia abbia mai conosciuto, l'ascesa al potere di una «rispettabile» e sanguinaria borghesia nazionalista di bottegai e di scientisti. In Italia è stato Ivos Margoni a sottolineare, per primo, la paradossale «semplicità» della mente di Rimbaud. Opponendosi al «coro delle rane metafisiche» che avevano arruolato Rimbaud tra le armate brancolanti di un cattolicesimo anarchico e in antinomia con il resto del mondo (il mondo non è altro che illusione e miraggio?), il curatore di Rimbaud-Opere (1964) mostrava come la personalità dell'«enfant de colère» fosse tutta nello scontro, catastrofico ma chiaro, fra un carattere «moralista», una cultura, una società. Restituendoci un profilo più critico dell'opera e del destino di Rimbaud, questa lettura compiuta alle soglie del 68 dimostrava come in una società in cui i tiranni e i demoni sono subdol{ e l'organizzazione della rivolta collettiva non è matura, il fallimento dei processi alti di accomunamento insurrezionale finisca con il lasciare in alcuni - probabilmente nei più giovani e nei più generosi - l'angoscia di un'azione singola individuale, sterile ai fini della salvezza collettiva. È così che leggevamo quel passaggio dal «noi» di Matin all'«io» di Alchimie du verbe. È l'incipit che fa impazzire: «A moi. L'histoire _d'une de Gianni De Martino mes folies». A moi, così come si grida: «Aiuto, annego!», o si urla help! in un videoclip e nei fumetti. La lettura di Borer vuole essere, invece, più «profonda» e dirci tutto della favolosa corsa di Rimbaud in Africa. È straordinaria la voglia di scrivere che la lettura di Rimbaud ancora comunica! Borer si lascia contaminare, se non «inseminare» (come scriveva Claudel) dai testi, dalle corrispondenze e dall'ultima partenza di Rimbaud («l'homme qui fuit»), e percorre il paese africano, interroga i luoghi, i testimoni, gli archivi - raccoglie persino decine di oggetti legati al nome di Rimbaud come se fossero collages o nuove scritture. Per Borer, la stessa forma dell'lmpossible segna sia l'opera precedente che la vita in Africa. Rimbaud continua a trafficare con l'ignoto, e scrive anche quelle lettere decisive (Blanchot le definiva «banali») che strapparono a Gide accenti di fastidio e delle quali Camus, l'Homme révolté, scrisse che «pour maintenir le mythe» bisognava ignorare. Sono le lettere in cui Rimbaud stende rapporti da contabile per la Société de géographie, o scrive alla madre che «forse» sarà il momento di radunare i risparmi e «venirmi a sposare lì in paese» o, ancora più, «trovare una famiglia e avere A nalizzando la forma complessa dell' «oeuvre-vie» scorgiamo la eermanenza della rinuncia, del ripetersi dell'abbandono, della passione per lo scacco. Non vi sono «due» Rimbaud e sarebbe illusorio legare la questione rimbaudiana a una frattura nella sua vita. Qui la letteratura, evidentemente, non s'identifica con l'opera, né con i testi né con i libri. Certo, la rivolta e la ricerca di Rimbaud sono nella sua «opera», ma si può anche pensare che quest' «opera» non sia che una delle forme della sua rivolta e della sua ricerca. II problema è in una relazione che l'analisi di tipo universitario non può pensare: la non-separazione dei testi di Rimbaud e dei suoi differenti aspetti (l'omosessuale, l'africano ... ), perché non si tratta di un problema strettamente letterario. L'emergere di una forma enigmatica e complessa che potremmo chiamare - per tranquillità e provvisoriamente - «opera-vita», solleva formidabili problemi di confine riconducibili, mi pare, a problematiche insi- • stenti e ancora irrisolte, legate ai movimenti e alle teorizzazioni degli anni settanta sulla logica del desiderio. Per Borer, la struttura dell'opera-vita di Rimbaud si aprirebbe su una dimensione assoluta, metafisica. Per lvos Margoni. al Aristofane, La pace; foto di Alfonso Zirpoli almeno un figlio da allevare» e «vederlo diventare un ingegnere famoso, un uomo potente e ricco grazie alla scienza». Un Rimbaud che scrive passi del genere, non è forse imbarazzante come un hippye che diventa yuppie, o un brigatista che si avvia, coscienziosamente (si capisce), alla carriera di «pentito»? Per il «moralista» che forse è in ciascuno di noi, si tratta di lettere sacrileghe - come lo è talvolta la verità. Ma Rimbaud - ed è questo il cuore interpretativo, mi pare, del libro di Borer - non fa ritorno ai valori borghesi; vorrebbe tanto! È il problema di Rimbaud l'Africano: continuare a chiedere l'Impossible. La normalità, infatti, resta nella lontananza, e il disperato tentativo di conformità sociale e di salvezza attraverso la ricchezza e il matrimonio resta come il miraggio di una qualche isola corallina. L'idea della felicità coniugale, così come il rimpianto di non aver preso un diploma, o il progetto di arricchirsi, contraddicono le ambizioni del poeta in rivolta. E probabilmer:ite egli ha anche rinnegato l'omosessualità un tempo concepita come un aspetto - «tigresque» e di carattere iniziatico - del «raisonné dérèglement de tous !es sens». 1 Ma questa contraddizione morale resta superficiale: lo scacco di reintegrare l'ordine «borghese» da lui fuggito ripete, puntualmente, l'lmpossible. «Che è in lui», scrive Borer. In lui: non dispiegato nella società del suo tempo! contrario, fu la morale borghese, «databile e fotografabile», a essere il fato di Rimbaud. In tal caso, restiamo all'interno di una struttura storica, temporale, non metafisica. L'urto di Rimbaud (della sua visione e della sua energia) con i limiti del suo tempo resta non conciliato, e quindi ancora aperto alle frontiere di tutte le rivolte ancora possibili, o anche impossibili. Nel caso, invece, dell'interpretazione metafisica, sprofondiamo (più che approfondire) in una sorta di volatilizzazione del limite storico della visione e della grande energia dei poeti, così come di quell'ostacolo al cambiamento contro cui ancora oggi si urtano i più diversi cammini del sapere. La lettura che va dall'abiezione (magari dall'omosessualità come mortificazione) al Verbo e quindi allo scacco, al silenzio e all'adorazione, non è nuova. Anche recentemente, in una intervista a Gianfranco Colombo, Giovanni Testori ha riassunto tutto Rimbaud con una formula - a suo modo geniale - che esprime molto bene l'impasse in cui sprofonda una lettura metafisica dell '«opera-vita» di Rimbaud. Ripensando alla frase famosa «sono schiavo del mio battesimo», Testori ha concluso: «Ebbene è questa schiavitù che è la libertà». È la prigione metafisica, l'implosione delle energie vitali e della storia! In Borer non c'è una lettura orientata in senso cattolico, ma il movimento verso l'annullamento è lo stesso sostenuto dalla tradizione rimbaudiana di orientamento cattolico (Jacques Rivière, per esempio, Paùl Claudel, o l'inglese Henry Furst). In queste correnti interpretative che ritornano alla fine degli anni ottanta (sono correnti reazionarie), ritroviamo la vecchia e coriacea idea di esperienza, di origine romantica. Restando inerti - a propria insaputa - all'interno di uno stesso ordine comprendente sia la trasgressione che l'obbedienza, si crede d'insorgere compiendo esperienze trasgressive (vediamo cosa succede, facciamo delle esperienze!). Dalle emozioni singolari che così si «sperimentano» non s'impara proprio niente, ma si ha tuttavia l'impressione di aver fatto cadere la repressione e di aver realizzato qualche virtù. Dalla fine dell'Ottocento ai nostri giorni, «trasformare in coscienza una esperienza più larga possibile» (come scriveva Malraux nell'Espoir) è il nuovo trucco, la nuova morale - soprattutto per quegli intellettuali che si possono permettere di «andare sui limiti», come si dicono «tentati» di fare. Evidentemente è più facile seguire la larga corrente (neo-gnostica, o cattolica, la questione non cambia) di un desiderio frustrato di annullamento, che risalire, magari zoppicando, a quella positiva istanza di giustizia che ci rende tutti, collettivamente, corresponsabili del «Male» - di questa prigionia sociale, storica, temporanea. Rallegrarsi di veder passare il mondo e credere (religiosamente, cioè cinicamente) di saperlo votato alla distruzione, porta oggi molti intellettuali europei a quella seconda repressione (quella «piega» o curvatura della psiche) che Foucault chiamava «répression d'hypocondrie»: quella dell'uomo che - pretendendo di avere un'anima e di essere immortale - ha preteso l'impossibile da se stesso ed è passato all'interiorizzazione. Che è oggi il regime delle solitudini comuni, l'imbuto del privato dove il tempo si ritira, e la storia sembra finire in un guazzabuglio di raggi mistici e luci tecnologiche. Quando Rimbaud muore, a Marsiglia, il 10 novembre 1891, all'età di 37 anni («la mia vita è passata, non sono più che un troncone immobile») mancano sei anni - per rendere simboliche queste date - ai Tre saggi sulla teoria della sessualità, in cui Freud osserva, per la prima volta, che la «perversione» non si gioca nell'opposizione etero/omosessualità (norma/trasgressione) ma, per schematizzare, nella ripetizione ossessiva. L'originalità del libro di Borer è, mi pare, quella di iniziarci a una conoscenza «profonda» del destino di Rimbaud, oltre che chiarire con documenti inediti la figura dell'avventuriero. Quello che invece ci risulta difficile accettare è la cifra metafisica che egli ha voluto dare persino a quel suo disperato desiderio di diventare normai - di diventare straight, come dicevano gli hippies americani e, prima di loro, i Beats: tutta una generazione smarrita, ossessionata dalla leggenda di Rimbaud, dal suo fantasma e da scorribande di confine. Nota (1) Una trentina fra le lettere di Rimbaud dette «martyriques», in cui è questione di «projets tigresques», furono ritenute compromettenti e distrutte (forse bruciate) da Mathilde Verlaine. Un documento prezioso, ma tardivo, ci viene da Izambard, il professore di Rimbaud nel 1870 a Charleville. In una lettera finora inedita del 1928 a uno studente psichiatra, il dottor Delattre, Izambard scrive, fra due parentesi: «(Homosexuel, je crois qu'il l'a été - et, malgré mon degout [invincible] pour cette engeance lui ne me dégoute pas parceque j' ai pénétré !es mobiles [plutòt nobles] auxquels il a obéi ... Pour se mortifier, oui, vraiment!. .. Parfaitement: la catharsis, ou du moins son envers)». Cfr._Izambard lettre inedite, di Alain Borer e Alain Prike, in «Masques», n. 1, gennaio 1986.

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