A più voci Biennale d'arte Nel 68 Chiocchi Intorno al tavolo Ceruti, Ferraris, Gargani, Porta, Rovatti t• . ~, . <, ..• I I I "' / I , ,, Cfr Poesia Mostre Riviste Recensioni Pacchetti New York Torquato Accetto Rimbaud Kafka Paulhan-Ponge Saggi Idee regolative o evento del senso? Karl-Otto Ape! alfabis.3 1%8-1978: lalegge180 Nuova serie Settembre 1988 Numero 112 / Anno 10 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo III/70 • Printed in ltaly Prove d'artista Marin Sorescu Aldo Mondino \ ~ e i problemidi oggi . •, ~~ ~ ~ vVt/4 ~ ~ .' - ,, .. ): , •• _·-.. -, I . '• .,. ; ;.. , · . •. :'~/ :,~ j;\ ::;;.\'. . '·,. 0····. 1····
pagina 2 Le immagini di questo numero Alfabeto 112 I buratti11i di Otello Sarzi Q ualsiasi rappresentazione della realtà non può fare a meno di un suo linguaggio che in piena autonomia estetica e semantica costruisce un palcoscenico dove gli attori recitano alcune storie che hanno un loro sviluppo ma soprattutto una loro forma espressiva. Non tutte le forme dell'espressione possiedono la medesima forza comunicativa; esiste soprattutto una sorta di discriminante linguistica dove il segno della differenza è costituito dalla tridimensionalità e dal movimento. Il teatro ma, in particolare, il mondo dei burattini, presenta questa magia simbolica per cui, nonostante il gioco interpretativo sia chiaramente scoperto, l'effetto finale è sempre di grande sorpresa e di indubitabile coinvolgimento emotivo. Le maschere dei burattini sono certamente rappresentazioni della realtà senza, con questo, perdere la propria autonomia espressiva, le proprie caratteristiche disciplinari; il vero e il falso, la realtàe il segno sono contemporaneamente presenti nei nostri sentimenti di interpreti, anche se è difficile separare nettamente queste polarità e individuare l'essenza della funzione rappresentativa. Come scrive Ernst Gombrich, a proposito del rapporto tra la maschera e la faccia, «la maschera rappresenta le distinzioni immediate, le deviazioni dalla norma che distinguono una persona dalle altre. Ognuna di queste deviazioni che attragga la nostra attenzione può servirci come segno di riconoscimento· e promette di risparmiarci lo sforzo di una indagine minuziosa; perché non è la percezione della somiglianza ciò per cui siamo originariamente programmati, ma per cogliere la dissimiglianza, la devianza rispetto alla norma che fa spicco e si imprime nella mente». Ecco, le immagini di burattini che «Alfabeta» presenta in questo numero sono nel segno della dissimiglianza, perché ci parlano della realtà attraverso alcune maschere che, più che nasconderla, ne sottolineano gli aspetti semantici, funzionali a un racconto particolare. Otello Sarzi e il Suo Teatro il Setaccio Burattini e Marionette di Reggio Emilia costituiscono, da questo punto di vista, l'esperienza più interessante, non solo in ltaLia, in un settore della rappresentazione dove, spesse volte, domina ancora l'improvvisazione e una certa vena di nai'f Otello Sarzi è un autentico uomo di teatro, figlio e nipote di burattinai, che ha scelto questo particolare settore de~'espressione artistica perché, come scrive Dario Fo nel catalogo L'occhio si è fermato sul burattino dedicato alle sue opere, «le maschere di Otello hanno il quid e il tabù; potreste. vederle esplodere, grondare lacrime, urlare e singhiozzare da sole e al fine sciogliersi sprigionando fumo giallo e nero. Insomma vivono ed esistono da sole» Il movimento è dentro ogni burattino, l'espressione è mobile nonostante la fissità materiale del volto: questa è la magia di Otello Sarzi. In particolare, le immagini di questi burattini sono state realizzate da tre fotografi, Alfonso Zirpoli, Ivano Bolondi e Vasco Ascolini, in occasione di una serie di spettacoli dove protagonisti erano gli attori di Sarzi; il risultato visivo è straordinario perché le facce, i corpi disarticolati dei burattini, le loro maschere, il loro essere nello stesso tempo se stessi Sommario I pacchetti di Alf abeta Paolo Spedicato Dora Bienaimé Saggi Alfabeta 112 settembre 1988 In cerca di New York Kart-Otto Apel Idee regolative ma anche altro, tutto questo rende ambiguo il lavoro semantico della comunicazione, conservando però una funzione estetica inaspettata e imprevedibile che ogni spettacolo dovrebbe avere. La flessibilità della maschera rende possibile qualsiasi interpretazione: Colombina, Il Teatrino di San Cristobal di Federico Garcia Lorca, la musica di Giorgio Gaber, ma anche quella di Hqndel, La pace di Aristofane, l'opera lirica La Mavra di Igor Stravin-• skij, il silenzio di Samuel Beckett, e altre ancora. L'universalità dei risultati ottenuti dalle marionette di Otello Sarzi sta a indicare che non esistono gerarchie tra le arti se non di tipo classificatorio e organizzativo: la finalità di ogni intervento creativo è tutta all'interno del singolo linguaggio, per cui è sempre necessario misurare l'efficacia pratica ma anche il valore artistico del gesto e dell'oggetto come se intorno ci fosse il deserto. Il deserto nel senso ·di altriparadigmi interpretativi, assunti come modello di riferimento: i burattini di Otello Sarzi, pur nascendo molte volte su stimoli di testi preesistenti, rappresentano una lettura del mondo, indipendente e autonoma sul piano dell'autorevolezza espressiva, da ogni altra scrittura. Nel caso, poi, specifico del Teatro il Setaccio Burattini e Marionette di Reggio Emilia, siamo di fronte a un'esperienza particolare e unica nella quale la conoscenza del mestiere, l'utilizzazione inventiva dei materiali, la lettura creativa e per nulla scolastica dei testi, la collaborazione con altre discipline artistiche; tutto questo ha reso possibile un prodotto artistico che deve essere giudicato da una critica contemporanea in grado di dimostrare che, come scrive Giulio Carlo Argan, «ciò che viene fatto come arte è veramente arte e che, essendo arte, si salda organicamente ad altre attività, non artistiche e perfino non estetiche, inserendosi nel sistema generale della cultura». I burattini di Sarzi s'inseriscono nel sistema generale della cultura perché si saldano organicamente con la prima e fondamentale attività dell'uomo: la rappresentazione simbolica della propria internità, della propria irrinunciabile libertà creativa. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari (New York Intellect: a History of Intellectual Life in New York City, di T. Render; In Search of New York, in «Dissent», fall 1987) Carteggio Paulhan-Ponge (Correspondence [/923-1968], di J. Paulhan-F. Ponge; Choix de lettres [1917-1936], di J. Paulhan) pagina 16 o evento del senso? pagine 34-36 Prove d'artista Mensiie di informazione culturale della cooperativa Alfa beta Pubbliche relazioni: Monica Palla Direttore responsabile: A più voci Viva i sessantenni a Venezia pagine 3-5 AntonioChiottbi La lotta armata pagine 5-6 Toni Robertini Rock e politica pagine 6-7 Il linguaaio non è una cosa diversa dalla vita Mauro Ceruti Maurizio Ferraris Aldo Gargani Antonio Porta Pier Aldo Rovatti pagine 7-9 A mso al collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per/ pacchetti di Alfabeta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 pagina 11 Giorgio Patrizi • Torquato Accetto (Dal «Cortegiano» all'uomo di mondo, di C. Ossola; Della dissimulazione onesta e Rime amorose, di T. Accetto; Elogio della dissimulazione, di R. Vi/lari) pagina 12 Gianni De Martino Rimbaud in Africa (Rimbaud en Abyssinie, di A. Borer; Lettere dall'Abissinia e Opere, di A. Rimbaud; Testori in exitu, in «Leggere», n. 1, 1988) pagina 13 Giovanna Bruno Oggi Kafka (Kafka oggi, a cura di G. Farese; Due. La passione del legame in Kafka, di N. Fusini) pagina 14 Catherine Maubon In URSS Gide (Viaggio f!l Congo. Ritorno dal Ciad e Ritorno dal/' URSS, seguito da Postille al mio Ritorno dall'URSS, di A. Gide) pagina 15 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a proce- • dere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei liCfr Cfr/da New York pagina 17 Cfr/Poesia pagine 17-19 Cfr/Mostre pagine 19-21 Cfr/Spettacoli pagine 21-23 Cfr/Altri libri pagine 23-24 Cfr/D lavoro delle riviste pagine 24-25 Cfr/ Recensioni pagine 27-29 Laboratorio italiano 88 Letteratura Patrizia Vicinelli Il tempo di Saturffo pagina 30 Laboratorio italiano 88 Saggistica Umberto Curi La politica sommersa pagina 31 bri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla redazioI nostri amici romeni Mario Sorescu pagine 37-38 Prova d'artista grafica Aldo Mondino pagina 39 Le immagini di questo numero I burattini di Otello Sarzi di Aldo Colonetti Alfa bis. 3 1968-1978:la legge 180 e i problemi di oggi In copertina: disegno di Andrea Pedrazzini ne vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabeta,. è l'esposizione ·degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Marco Santini Antonella Baccarin Editing: Luisa Cortese Edizioni Caposile s.r.l. in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta,. respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici S.p.A. V.le Famagosta 75 20142Milano Telefono (02) 8467545 Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri a"etrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo
I Alfabeta 112 A più voci iva i sessanten11i. a Venezia pagina 3 j Alberto Boatto, Massimo Carboni, Loriana Castano, Aldo Colonetti, Gilio Dorfles, Jean-Jacques Lebel, Francesco Leonetti, Co"ado Levi, Walter Marchetti, Carla Pellegrini, Giarini Sassi F rancesco Leonetti. Vi propongo di dire a voce alcune osservazioni prime sulla Biennale di Venezia 1988. Siamo in trattoria, ci presentiamo come «pubblico», e cioè critici, specialisti, camminatori attraverso le sale, buoni conversatori con gli amici ecc. La nozione di pubblico oggi investe anche gli operatori interni dell'arte, e però non siamo artisti. Comincio io proponendo il titolo da dare al pezzo sulla Biennale: Viva i sessantenni a Venezia o meglio ancora, se volete, Viva i grandi vecchi a Venezia, o ancora, Viva i grandi vecchi a Venezia con nipoti successivi che abbiano i loro stessi occhi. A me pare infatti che la grande riuscita del 1988 sia, anzitutto, l'impianto stesso della Biennale che si presenta come un manuale, con correnti limpide, e qui~di con problemi di perce~ione, di scelta, anteriori alla qualità, o tutt'uno con la qualità, ma riconoscibili anche di per sé. E' quasi un manuale storico dell'arte italiana e i giovani possono orientarsi: è importante questo· primo elemento. Secondo elemento: che ciò che è stato più sorprendente, secondo me, in questi due o tre giorni - siamo a giovedì 24, terzo giorno della vernice - sono stati"i rilanci dei grandi operatori, dei grandi artisti italiani, ovviamente Burri, Pomodoro, anche Tombli, Mochetti. La sorpresa è venuta da loro: sono ancora attivi, e quindi quel meraviglioso filone di sperimentazione degli anni sessanta è decisivo e ha l'Italia fra i luoghi dove più profondamente si svolge ancora. Speriamo che i giovani attingano nuovamente da questi filoni di sperimentazione, facendo scomparire quel decennio di conservatorismo («postmoderno») che ci ha lungamente afflitti nella confusione e nell'emarginazione. Io mi auguro che qualcuno faccia qualcosa di simile anche nella letteratura: sarebbe desiderabile che i grandi vecchi - fra i quali mi metto certamente anch'io - fossero presentati in grandi sale e avessero al loro fianco giovani disposti a maltrattarli ma a sentirne la parola, invece che fare confusione. Debbo aggiungere che l'Aperto è molto dignitoso , con alcuni livelli cospicui dei giovani, particolarmente italiani, e cito volentieri Rossano, Levini, Pellegrin; secondo me, ciò che si vede nell'Aperto non è il «nuovo», cioè una ripresa dell'innovazione in senso profondo; si vede però la scomparsa del postmoderno, che permane in forma assolutamente residuale, e la presenza di un elemento concettuale crescente, in rapporto con l'esercizio formale, o, se volete, una concentrazione di pensiero nella «trovata», spesso, più che un'autentica invenzione; tuttavia, senza un semplice fare pittorico. Dovranno affrontare dunque un periodo di dibattito tra il moderno, il progetto, per il quale ci schieriamo, e il passatismo, o la citazione, o la rimanenza di un contr'ollo sociale sull'arte e sul lavoro intellettuale. Gilio Dorfl.es. No, caro Francesco, devo dire subito che non sono proprio d'accordo con quello che tu dici. Si, è vero che questa Biennale - con la riesumazione dei sessantenni - si presenta molto dignitosamente - come una vecchia douairière con la guepière. (E ìl merito è senz'altro di Carandente che ·ha saputo dare un'impostazione molto rigorosa e organica alla mostra.) Ma - se, come dovrebbe essere, la Biennale vuol indicare lo stato presente - anzi lo stato nascente delle cose dell'arte; allora non ci siamo proprio. Perché il difetto sta appunto nel manico - ossia nei sessantenni che tu lodi. Quello che più (tristemente) mi ha colpito è il loro declino. Senza voler fare nomi; ma per quasi tutti mi è parso che ci sia stato un deciso impoverimento rispetto a quella che era la loro produzione degli anni sessanta-settanta. E lo stesso vale anche per i Kounellis, i Twombly, i Mochetti un punto le cose vanno meglio in questa Biennale: la scomparsa degli uggiosi citazionisti e di altri esemplari, per fortuna tramontati, del cosiddetto «postmoderno». Invece devo segnalare l'ottima e coraggiosa ripresa iperdecorativa di Carla Accardi e riconoscere la notevole qualità delle sale di Paladino (che avrebbe dovuto affastellare meno lo spazio permettendo di far emergere alcune delle sue opere migliori) e di Cucchi che questa volta ha raggiunto un esemplare equilibrio, contrariamente alla desoIgor Stravinskij, La mavra; foto di Ivano Bolondi (e cito artisti che da sempre ho amato e stimato, ma che qui mi sono sembrati irretiti da un velo di stanchezza). E che dire poi della sfilata di scultori? L'idea era ottima: tanto più che la scultura è oggi forse più «viva», meno usurata della pittura. Ma, ahimè, anche in questo caso, ho dovuto constatare il declino di molti eccellenti artisti. A prescindere dalla sempre grandissima (ma purtroppo morta!) Nevelson, e di Chillida, tutti gli altri mi sono sembrati più fiacchi d'un tempo; così Caro, così Ceroli, così Lippold, così Marisol... Segal, ecc. Sono d'accordo con Leonetti che, almeno su lante prova di Chia. E, prima di concludere questo breve colpo d'occhio: vanno ricordate le sale di Liipertz, quella di Anzinger nel padiglione austriaco, quella dell'interessante russo Lentulov, dell'olandese Dibbets (una delle più intelligenti); e, naturalmente quella di Jasper Johns e, tra i pochi che si salvano nel delizioso spazio delle Corderie: gli italiani Pizzi-Cannella, Rossano, Levini, Guaita, De Lorenzo, Rocco Natale; la garbata «vetrinista» Bloom, la jugoslava Sambolec, il greco (troppo ammirato) Lappas, e pochi altri. Jean-Jacques Lebel. E' difficile parlare dopo questo grande oratore, e nel mio italiano d'adozione tenterò di dire due o tre cose. Forse tra i grandi vecchi dei quali parlava Leonetti c'è anche il Veronese, che dà una vera dimensione alla Biennale; fare una mostra d?arte contemporanea in uno spazio che è fuori del tempo (perché se c'è uno spazio speciale, fuori del tempo, nel mondo della cultura e del pensiero, è proprio Venezia). Per me è già una cosa tremenda venire alla Biennale perché negli anni sessanta abbiamo fatto un anti-processo contro la Biennale di Venezia, alla Galleria del Canale, organizzando il primo happening europeo nel 1960, con il seppellimento della «cosa» di Tingely e nel 1988, ci ritroviamo qui, amici di «Alfabeta», internazionali, a parlare ancora della Biennale. Ho trovato opere molto inte~essanti in questa Biennale, su tutti Twombly perché la sua pittura si può leggere da sinistra o da destra, quando la scrittura cade nella pittura da destra, quando la pittura cade nella scrittura. E' un problema fondamentale della nostra cultura, dal futurismo e dal dadaismo in poi; e siamo ancora lì a lavorare ,sulla frontiera, tra questi due linguaggi. Potrei continuare elencando altri artisti, ma vorrei parlare ora della Biennale come strumento di circolazione sociale del lavoro artistico. Mi pare in crisi profondissima e gravissima; bisogna esaminare il nostro lavoro di intellettuali e riflettere sugli strumenti sociali. Il museo, per esempio, mi pare totalmente finito come strumento di circolazione dell'opera d'arte, perché non si può utilizzare lo stesso strumento per conservare la memoria collettiva della cultura passata, e gestire la circolazione delle opere realizzate oggi, dai contemporanei; non si può prendere una bicicletta per andare nel deserto, nella sabbia. Insomma, gli strumenti sono da ripensare, e il fatto che gli artisti invitati abbiano saputo due o tre mesi prima che dovevano fare una sala (mi diceva Piero Dorazzi che è rimasto in studio per due mesi senza mettere il naso fuori perché ha dovuto fare questa sala), è perlomeno contrario ai ritmi della creazione. C'è questo grave pericolo che l'artista diventi pre-programmato dal mercato; per essere invitato bisogna fare un certo tipo di pittura, per avere successo e essere visto è necessario fare grandi quadri di un certo tipo: ti ritrovi a fare, come in una fabbrica, il prodotto mercantile altrimenti non esisti, non hai il diritto di chiamarti artista perché non hai prodotto quello che dovevi produrre. E' un processo chiuso, industrializzato fino alla morte; non credo che la Biennale sia lo strumento giusto per renderci conto di cosa si fa nel mondo dell'arte. I filtri istituzionali per scegliere gli artisti, i direttori, i critici - questa isteria istituzionale della Biennale, ma non solo di Venezia, anche a Parigi è la stessa cosa - non sono adatti a realizzare un rapporto serio, profondo, tra il pubblico e gli artisti. Penso che il lavoro dell'intellettuale e anche quello dell'artista dovrebbe porre al centro del progetto il rapporto tra il tempo dell'immaginario e quello dell'interprete, come avevano fatto i situazionisti e soprattutto gli artisti del Fluxus. Aldo Colonetti. lo cercherei di tornare ad anali~are più lo specifico della Biennale di quest'anno, cioè gli aspetti di carattere lin-
pagina 4 guistico, le novità nelle scritture v1S1vae verbale. La prima considerazione è che il padiglione Italia fa il punto non soltanto della situazione italiana ma indica una serie di tensioni linguistiche che vanno al di là del perimetro italiano. Sono presenti testimonianze, alcune che già conosciamo, altre parzialmente nuove, che indicano una grande vitalità nel segno di una integrazione tra pittura, scultura, architettura. Inoltre vi sono alcune sale dove la ricerca si rivela in modo più forte, mettendo anche in discussione - vedi Pomodoro e altri artisti - un modo di produrre e di scrivere consolidati. Questo è un segno di grandissimo interesse, al di là della qualità del risultato finale. La seconda osservazione è questa: sia nello spazio dei Giardini, sia alle Corderie, riemerge finalmente un interesse nei riguardi di una progettualità consapevole. Cosa significa questo? A me interessa questo tipo di ricerca non soltanto dal punto di vista artistico, ma soprattutto per ragioni etiche e politiche. Alcuni artisti, sia ai Giardini sia nello spazio '88, finalmente parlano con chiarezza un linguaggio, dichiarano in modo esplicito i patti del contratto comunicativo, non mescolano storie, stili, archeologie diverse, senza conoscenze culturali adeguate, come era accaduto in alcune Biennali precedenti con risultati di scarso interesse conoscitivo. Riemerge un interesse nei riguardi della specificità artistica, che non significa però, in questa Biennale, un linguaggio autoreferenziale: ci sono il mondo delle cose, la materialità degli oggetti, la curiosità verso ciò che è esterno, almeno tradizionalmente, all'arte. La terza osservazione è questa; mi è piaciuto molto il discorso della scultura all'aperto perché cerca di riconsiderare il rapporto con il pubblico. L'arte è un problema aperto, che non potrà mai essere chiuso definitivamente. Il giorno in cui si risolverà, l'arte finirà, perché è in questa dialettica tra l'opera come sistema chiuso e l'opera come sistema aperto che forse ha ragione d'essere l'attività artistica. Ecco, questi Giardini disseminati di sculture sono molto interessanti, perché si cerca un rapporto nuovo con un pubblico che non è soltanto il pubblico degli addetti ai lavori; è anche quello generico, domenicale, di diversi livelli culturali. L'arte, e in particolar modo la scultura, ha bisogno di una contestualizzazione di' questo tipo. Ultima osservazione; finalmente, come diceva anche Leonetti all'inizio di questa conversazione, sembrano finiti i tempi di operazioni destoricizzanti, di citazionismi gratuiti, di mescolamenti fieristici. Non è tanto un giudizio su alcuni artisti o su alcuni critici; è una riflessione che va al di là di queste esperienze. Il fenomeno, mi interessa come segno positivo, al di là della ricerca artistica, di un nuovo concetto di razionalità, non dogmaticamente intesa nel senso proprio di progettualità. Walter Marchetti. Come musicista mi trovo a disagio a dover parlare di questa Biennale, nel senso che sarebbe bello per me sognare di poter partecipare a una Biennale Musica così concepita. Non c'è mai stata e credo proprio che sarà molto difficile che possa mai verificarsi, viste le strutture organizzative della musica. Vedete, da anni, molti anni, le diverse Biennali che si sono succedute hanno sempre presentato, oltre ai soliti padiglioni ufficiali dei paesi invitati, delle rassegne interessantissime. In un modo o nell'altro chi visita o ha visitato le Biennali passate ha sempre avuto una informazione dal vivo su tutto quello che era avvenuto recentemente o addirittura di quello che stava avvenendo nel panorama presente e, tutto questo su un piano internazionale di qualità. Provate un po' a (requentare la Biennale Musica. A parte l'olezzo cadaverico che da sempre la distingue, ogni Biennale Musica presenta, presentava, ha sempre presentato i suoi concerti e le sue rassegnette con uno spirito così provinciale da sembrare il calendario delle attività dell'Oratorio di quartiere; salvo pochissime eccezioni di alcuni anni fa, ma sempre sono stati eventi molto rari, dovuti per lo più alle qualità dell'artista invitato più che al criterio di selezione dei curaA più voci tori. Sempre gli stessi musicisti anno dopo anno. Questa sezione della Biennale si è sempre sforzata di esistere solo per poter presentare le novità degli artisti di sempre, come se non bastassero già le istituzioni diverse del nostro paese. Ma me la sogno io la Biennale Musica come quella delle Arti Visive che sto visitando e ho sempre visto da anni. Ma tornando a questa conversazione è indubbio che la rassegna più interessante è quella delle Corderie, è pacifico. Ma rassegne come questa la Biennale le ha sempre presentate, sono sempre esistite in seno a questa manifestazione e questo non è certo una novità ma, comunque, sempre più interessante del resto, ed è questo che fa la sua forza. Informare e illustrare con le opere tutto quello che sta avvenendo o che si è fatto recentemente e... non è poco. Provate, provate ad assistere a quella della sezione Musica! Certo c'è odor di mercato .. Ma anche i musicisti hanno il loro mercato e che mercato! Tutto fatto di commissioni Gianni Sassi. Le riflessioni che ho sentito fino ad ora sono state molto variegate, e mi hanno stimolato. Per me la situazione di quest'anno è una situazione da «vent'anni dopo». E' dal 1968 che io non partecipo a dei vernissage della Biennale, non per polemica radicale, ma per una certa caduta di interesse nei confronti di queste manifestazioni. Quest'anno ho deciso di partecipare perché alcuni segnali mi sembrano lasciar intravvedere una certa ripresa; anche l'istituzione cerca quest'anno di ricoprire il proprio ruolo in modo più preciso, un ruolo di documentazione e non tanto di sollecitazione nei riguardi del mercato. Debbo dire che questo rapporto tra arte, mercato, istituzione e promozione è molto presente. Non so se l'istituzione, la Biennale nello specifico, sia in grado di stimolare fortemente ancora il mercato; però vedo che la presenza del mercato ha ancora una fortissima influenza sugli artisti, soprattutto sui giovani. Dando per scontato che la Giorgio Gaber, Un pelo; foto di Alfonso Zirpoli da parte di Enti Lirici o istituzioni diverse, e tutto questo denaro che è poi denaro pubblico, va a finire nelle tasche dei soliti musicisti di sempre, come al solito, anche in questo aspetto, mai una novità. Dunque trovo il mercato delle Arti Visive molto più divertente e più rischioso per gli artisti. Provate un po' a chiedere quanto spende lo Stato in attività musicali? Cifre da capogiro. Certo non è un vero e proprio mercato, sa piuttosto di beneficienza! Dunque, il mercato, visto che si fa un gran parlare di mercato, della pittura e della scultura è preferibile. Per il resto, non ho molto da aggiungere, salvo acc.ennare alla sceneggiata nel padiglione degli Stati Uniti dove era chiaro che si stava svolgendo una cerimonia per propiziare un eventuale premio a Jasper Johns, e questo è stato penoso molto penoso per un grande artista come lui, oltre che volgare. Ma alla fine si può solo dire che questo grande spettacolo è divertente. Tanti artisti, tanti operatori culturali tanta bella gente ... sezione italiana, con le generazioni di artisti che ormai sono consolidati come maestri e che hanno riverificato la propria vivacità e la propria attività culturale anche nei confronti del mercato - mi riferisco ad Arnaldo Pomodoro, a Barucchello, ad altri che si ripresentano con forza, anche con coraggio innovativo rispetto al proprio linguaggio usuale, che il mercato aveva sclerotizzato e contestualizzato - alle Corderie i giovani presentano in modo molto diversificato le proprie pratiche. Questa vivacità però, secondo me, non ha ancora il coraggio di esprimersi al di fuori del mercato: c'è una subalternità di tipo creativo nelle nuove generazioni, che tiene troppo in conto le regole del gioco; c'è uno sforzo di piacere, c'è una volontà di essere bravi, di fare delle cose finite, mentre mi sembra assente una certa carica di ricerca radicale, anche eversiva. Devo dire che questa manifestazione mi sollecita, personalmente, ad avere un interesse più preciso nei confronti dell'arte, Alfabeta 112 I perché è un momento molto interessante in cui un contributo di tipo teorico potrebbe dimostrarsi utile per stimolare le qualità più profonde che nelle nuove generazioni sono presenti e che spesso, per un certo affanno al successo, sono schiacciate da una volontà di piacere e di funzionare esclusivamente come merce. Loriana Castano. Volevo dire velocissima- . mente alcune cose su quanto ho visto. La Biennale quest'anno mi ha stimolato e interessato, ma ho sentito effettivamente molto quello che è emerso negli altri interventi; cioè questa preponderanza, forse eccessiva, del mondo dell'istituzione e del mondo del mercato. Gli artisti li ho sentiti, in un certo senso, un po' soffocati da questa situazione; però ho anche notato nei giovani alcune partecipazioni forti e interessanti. Questo mi è piaciuto molto, perché intravvedo nei loro lavori un'apertura verso il nuovo. lo spero che le cose siano per loro molto più aperte e molto più generose. Jean-Jacques Lebel. Vorrei aggiungere qualche cosa; bisogna chiedersi se questa presenza castratrice dell'istituzione mercato sulle scelte, sugli artisti stessi può essere evitabile. lo credo che sia inevitabile, perché è la condizione dello Stato, della burocrazia, dei luoghi da cui vengono i soldi per fare la manifestazione. E' strutturale. Forse mi sbaglio, ma per me è così. Se il mercato e i mercanti internazionali sono lì per imporre subito, come diceva Marcuse, il principio di prestazione, cioè la produttività immediata nell'arte del plusvalore dell'opera, non può esistere più la ricerca artistica. La ricerca esiste quando non si sa dove si va, non c'è un indirizzo imposto da un'istanza superiore, istituzione, Stato, partito, università. Francesco Leonetti. E' indubbio che il rilancio dell'invenzione, della progettualità, di una possibilità di darsi un futuro comprensibile, orientato con elementi di utopia, debba ricercarsi in sede neo-umanistica; purtuttavia è vero che la forza tecnocratica ci condiziona e ci emargina, ed è proprio per questo che, secondo me, non è la compatibilità ma la tensione col mercato, che il progetto presso gli artisti e gli scrittori deve rimettere in moto. E' sempre accaduto che la pratica di cambiamento, il nuovo, si siano manifestati, almeno a livello di tensione inventiva, presso gli artisti. E' per questo che con tutti i limiti che hanno dalle vecchie istituzioni labirintiche e ipercontrollate non ci si deve aspettare molto. Però è indubbio che, dentro spazi ancora interstiziali, l'artista possa manifestare una sua tensione e, quanto meno, determinare un forte - come dice il mio amico Filiberto Menna - cambiamento dell'arte, una forte, diciamo, attenzione a valori che contengono implicitamente un'alternativa, o, quanto meno, un'ipotesi più piena di percezione autentica e di realizzazione libera dell'arte. Aldo Colonetti. Secondo me, noi vogliamo caricare gli artisti di responsabilità che tutti gli uomini, non solo gli intellettuali, dovrebbero avere. Il fatto che qualcuno si scandalizzi del mercato che condiziona, non è una novità. Ma il mercato è.il contesto con il quale ciascuno che opera nell'ambito culturale, ha a che fare. Non è mai esistita situazione creativa dove non esista la condizione materiale, che tu, Jean-Jacques Lebel, chiami il mercato, le istitµzioni, private o pubbliche. Il mercato è la condizione perché l'arte esista come artefatto, se non ci fosse il mercato l'arte non esisterebbe come prodotto. Altro è il discorso che afferma che il momento ideativo dell'arte è altrove; non è nel mercato. lo conosco, però, l'arte perché esiste il mercato, perché esistono le istituzioni, i musei che mi danno la possibilità di memorizzare, di ricordare, di confrontare. In questa tensione opera la creatività. Ernst Cassirer quando riflette intorno all'attività artistica, parla di «costruzione», non di «creatività»; quindi di un rapporto, che è sempre dialettico, tra le costanti, le regole, le costrizioni e le condizioni materiali esistenti e l'elemento ideativo. E' lì che nasce l'arte, non altrove. Jean-Jacques Lebel. E' interessante, e sono mille volte d'accordo, ma mi sono spiegato
Alfa beta 112 male. Non volevo dire che il mercato è un fatto negativo; volevo solo dire che il mercato non deve pensare al posto dell'artista. La crisi permanente fra l'individuo e il contesto sociale fa sì che non si possa vivere senza ripensare continuamente se stessi facendo arte, poesia, filosofia, musica, architettura, politica. E' questa crisi permanente che crea la necessità della ricerca, non il mercato, non la ricerca di un prodotto vendibile. Francesco Leonetti. Non sono d'accordo con Jean-Jacques Lebel perché mi pare che egli ponga delle esigenze di fondo che sono fortemente datate in senso surrealista. C'era allora una forma di auto-organizzazione degli intellettuali, di alternatività nella gestione dell'opera d'arte, che purtroppo oggi abbiamo perduto. L'esigenza più profonda è di realizzare il nuovo, in forme inedite, in forme di elaborazione progettuale profonda, attraverso una strategia capac~ di essere contraddittoria alle grandi istituzioni. E' necessaria una strategia anti-istituzionale, esplicita e vigorosa, come più o meno si è fatto con strumenti, circolazione di idee, documenti, schieramenti, scelte, proposte, durante il periodo sfortunato e nello stesso tempo molto vivo, che noi ricordiamo insieme, quello degli anni sessanta-settanta. Noi quindi dobbiamo pensare a una tensione molto elaborata, su più fronti, in più modi, e uno di questi modi è l'arte, la sua gestione, la sua circolazione, le sue problematiche, senza contare sulle istituzioni, se non per aspetti occasionali, come quello della Biennale. Corrado Levi. Non si capisce perché quando uno è invitato alla Biennale, deve fare sempre grandi opere, un terzo più grandi di quello che dovrebbe fare. Massimo Carboni. Dividiamo il discorso in due settori, che è poi la divisione istituzionale della Biennale. Il padiglione centrale: secondo me qui c'è subito un discorso, molto sintetico, da fare. Come sappiamo, per questa Biennale la decisione è stata quella di assegnare ad ogni artista una sala. Le conseguenze sono di ordine positivo e di ordine negativo. Di 1 Che il rapporto tra etica e politica sia uno dei nodi decisivi della ri- • flessione contemporanea sul «politico» trova ulteriore ed ennesima conferma in molte delle vicissitudini che sta conoscendo l'attuale dibattito sulla lotta armata e sul posto da essa occupato nei conflitti degli anni settanta e dei primi anni ottanta. A ben guardare, la discussione in corso sul rapporto tra lotta armata e conflitti sociali, fatte poche e rigorose eccezioni, appare viziata da alcuni limiti di fondo, i quali reticolano uno sdoppiamento di posizioni, per dir così, «fondamentaliste». Da una parte: la più o meno teorizzata impossibilità, a fronte della crisi del «politico», di addivenire a un politicamente fondato giudizio critico sulla lotta armata, per cui lo scandaglio di fondo e fondamentale non potrebbe essere che di tipo etico. Dall'altra: la sottolineatura della portata strettamente politica del fenomeno, altrettanto più o meno teorizzata, la quale sospenderebb~ o relegherebbe in secondo piano il «giudizio etico» e le sue dimensioni. Questo sdoppiamento di conclusioni non pare convincente e non regge all'approfondimento storico, politico ed etico. Presupposto fondativo della lotta armata è stata una finalizzazione etica, è stato un sistema di identità e di valori: la fissazione ideale e ideologica, prima ancora che storica, di un orizzonte di «società giusta», la società comunista; ossia la perfezione utopico-ideale tradotta e organizzata in società A più voci ordine positivo per l'occhio: dopo tante Biennali della mente e del concetto, abbiamo finalmente una Biennale per l'occhio. Per l'allestimento questa Biennale piacerà molto al pubblico, al pubblico indifferenziato e anche al pubblico minimamente interessato all'arte. Non so se piacerà così tanto alla critica. La conseguenza negativa, secondo me, per alcuni artisti è questa: alcuni artisti hanno fatto un comizio invece di una mostra, nel senso che hanno riempito troppo, hanno affollato la sala in misura eccessiva di opere; per cui, in qualche modo, si ricrea un equivoco che pensavamo di esserci lasciati alle spalle, e cioè quello dell'identificazione tra la qualità del lavoro, il tonnellaggio, e la sua qualità concettuale, il significato linguistico dell'opera. A me sembra che alcuni artisti credano in questa trappola. Per quanto riguarda i padiglioni stranieri, mi sembra che il padiglione di Tony Cragg, lo scultore inglese, sia il migliore. Mi sembra che la Germania continui, con Felix Droese, la pesante linea espressionistica boysiana; mi sembra più un cantiere di tagliaboschi della Selva Nera heideggeriana che non un padiglione di un artista che conosce la misura. Per quanto riguarda Aperto '88, mi sembra che sia una sezione che va analizzata più con occhio sociologico che non specificamente artistico. Mi spiego molto brevemente: oggi nessun giovane artista è sprovveduto, perché tutti conoscono i materiali. E' molto difficile trovare un artista sprovveduto in questo senso. Però si origina, in quest'Aperto '88, una fascia media piuttosto neutrale di artisti incerti: non si sa se fanno un bel lavoro o un brutto lavoro. Sapete perché, secondo me? Perché tutti noi leggiamo le stesse riviste d'arte, c'è una circolazione intensissima per cui i lavori di questi artisti partono da altri lavori, fotografati, riprodotti, e non partono dal mondo. Secondo me, allora, c'è un tratto proprio da sociologia dell'arte da far emergere qui, perché tutti sono destinatari delle stesse immagini, delle stesse riviste: «Art forum», «Art in America», «Flash Art», ora s1 e aggiunta questa nuova rivista che si chiama «Contemporanea di Torino». In particolare, per Aperto '88 mi hanno interessato l'americana Meg Webster, il russo Igor Kopistiansky, l'inglese Simon Linke, il tedesco Oroshakoff e l'americana Barbara Bloom. Se posso, farei tre nomi in positivo, due nomi in negativo. Tre nomi in positivo: dopo lunga meditazione, e naturalmente con molto diverse specificazioni causali, dico: Eliseo Mattiacci, Carla Accardi e Mimmo Paiadino .... Per quanto riguarda quelli che sono due veri e propri tonfi, Clemente e Chia, artisti che non ho mai amato. Alberto Boatto. Mi ha fatto piacere - lo confesso francamente - il modo in cui, nel1' Unter den Linden della Biennale, Gillo Dorfles mi ha presentato a tre sofisticate signore: «Ecco un anticritico che, per di più, si occupa di altre cose». Allora, in veste di «non critico» dirò la mia su questa 43• edizione. Meglio è reagire ai malumori, alle stroncature e ai bilanci in perdita che circolavano tra i cosiddetti addetti ai lavori, e che trovano purtroppo una anche troppo ampia corrispondenza negli appunti da me buttati giù durante il mio svagato tour attraverso i Giardini. Decido così di strappare questi pochi foglietti carichi di notazioni in nero e di tener conto unicamente degli incontri in positivo. O, in forma ancor più privata, solo di quelle opere che per qualsiasi ragione hanno toccato la mia intelligenza, smosso la mia fantasia e la mia curiosità, confermato una mia opinione o un mio ben radicato pregiudizio. Tutti questi incontri si iscrivono dentro una prospettiva di cui Il mare del tempo di Tatsuo Miyajima e i disegni macchiati di figure nere di Enzo Cucchi segnano rispettivamente l'apertura massima e quella minima. Il tempo spazializzato, uno scenario smisuratamente dilatato, nell'ambiente tecnologico costruito dall'artista giapponese; le ossessioni «troppo umane», i segnali di un uomo smarrito nel pozzo della propria «perdizione», nei foglietti visionari dell'italiano. pagina s 1 E poi, all'interno di questi riferimenti prospettici: l'energia tutta volta verso l'ottimismo delle recenti sculture di Mattiacci; gli «ossi di seppia» di Pomodoro; l'ironia ai margini della frana dello scultore Ranaldi; la solenne liturgia spaziale di Kounellis; le «illustrazioni» eseguite da Clemente per un fantomatico romanzo indiano-newyorkese, capricciosamente riportate su troppo vaste dimensioni; l'inventario-manipolazione del mondo dell'inglese Tony Cragg; le scostanti gabbie di metallo della spagnola Susana Solano; l'unica tela che conosco del colombiano Angel Loochlartt, alzata al vento come una vela; gli oggetti spiritati e in levitazione dell'americana Barbara Bloom. La scultura e l'installazione marcano alcuni punti a loro vantaggio rispetto alla stanchezza della pittura e solo pochi artisti si oppongono alla marea fatta di eloquenza, di gigantismo e di decorazione che sommerge troppe opere (anche quelle di Sol Lewitt ma non, per contro, dell'Accardi). I premi fanno centro con la Bloom, il padiglione italiano e le segnalazioni a Cucchi e a Cragg. Il premio internazionale a Johns - che richiama, a molti anni di distanza, il premio (allora) tempestivo conferito a Rauschenberg, l'epico compagno di strada dell'americano - onora l'orgoglioso tramonto di un astro di prima grandezza. Francesco Leonetti. Infine aggiungiamo una «classifica» firmata, come già usiamo fare paradossalmente per i libri in «Alfabeta». E la chiediamo a Carla Pellegrini, gallerista, che nel grande spazio della Galleria Milano non ha mutato nel decennio scorso la sua scelta fondamentale del moderno, dall'espressionismo astratto al concettuale. Carla Pellegrini. Direi: nel Padiglione Italia: Burri, Baruchello, Mochetti;-per gli altri paesi: Markus Raetz (Svizzera), Aristarch Lentulov (URSS); alle Corderie, per l'Aperto: Barbara Bloom (USA), Iorgos Lappas (Grecia), Meg Webster (USA). E in fine, o in principio, anzi, fuori della Biennale: Osvaldo Licini. ata Antonio Chiocchi attraverso il «politico». Alle radici della lotta armata v'è, dunque, un logos progettuale in cui è reperibile una strettissima interconnessione tra etica e politica. Fine e valore della politica, come in una lezione che risale ai Sofisti, a Socrate, Platone e Aristotele, restano il «giusto», la «vita buona». L'elemento utopico e programmatico presente nel nucleo della riflessione politica ed ermeneutica dei grandi pensatori greci, che da Machiavelli e Hobbes arriva fino a Locke, Rousseau e Marx e da Lenin fino a Mao, viene ritradotto comunisticamente. Su questa «base comunista» l'uso, che non consegue assiomaticamente e necessariamente da questa, della «forza fisica» e della lotta armata come mezzo di coercizione e «risoluzione stra te-' gica» delle contraddizioni sociali trova la sua scaturigine motivazionale. Ma, in questa architettura etico-politica, etica e politica non si fondono (come nel pensiero politico greco), né si dissociano (come nel pensiero politico moderno), né si escludono (come in gran parte del pensiero politico contemporaneo). Piuttosto, si supportano a vicenda: dove non arriva la politica, là subentra l'etica; e viceversa. Parafrasando un celebre enunciato strategico: l'etica «continua» la politica, ma con i mezzi dell'etica; la politica «continua» l'etica, ma con i mezzi della politica. In questo modello teorico e questa struttura genealogica, etica e politica si erodono l'un l'altra, l'un l'altra divorandosi. Si fondono, si dissociano ed escludono in un unico composto esplosivo, a volte indivisibile e non disaggregabile e altre schizzofrenicamente lacerato e irricomponibile. Il sistema dei fini etico-politici che costituisce la rete di senso e, insieme, la mappa fondativa dello sviluppo della lotta armata rivela qui un'abissale eccentricità rispetto ai flussi più profondi dell'accadimento storico. Esso non metabolizza le immani trasformazioni di cultura,· del «politico» e del «sociale» che hanno segnato il trapasso dalla società moderna a quella contemporanea (in una parola: la «secolarizzazione»), restando in posizione di estraneità al suo cospetto. È questa indigenza abissale, del «profondo» dell'ethos e del «politico», che, a fortiori, non può far «vedere» e «ascoltare» la società complessa, la cui nascita in Italia segue l'intensissima fase di «accumulazione originaria» che va dalla «ricostruzione» al «miracolo economico». Piazza Statuto e il biennio 1968-1969 parlano già di una «complicazione sociale» dei conflitti e del loro rapporto con le istituzioni politiche, sociali e culturali; stanno già oltre lo schema e la struttura dell'industrialismo celebrato dalle analisi della lotta armata. Esemplificando: estremamente più ricca, avanzata e pregnante è la lettura che Panzieri e i nascenti Quaderni Rossi danno di Piazza Statuto, del «neocapitalismo» e delle «lotte operaie nello sviluppo capitalistico» di quella che le Brigate Rosse danno del. 68 e dell'autunno caldo (prima) e dei movimenti in tutto il corso degli anni settanta e al principiare degli anni ottanta (dopo). La lotta armata pur nascendo dentro un'insorgenza sociale di conflitti ne dà un'interpretazione regressiva, non condividendone né il senso, né il destino. La sua internità regressiva alla conflittualità sociale la porta ad avere, contemporaneamente, una base relativamente di massa e uno sviluppo sempre più divaricato dalla dinamica di processo descritta dai momenti dell'azione collettiva. Questa contraddizione originaria è una delle ragioni primarie del suo fallimento e della sua sconfitta. Essa fallisce nell'atto stesso di insediarsi, poiché gli sbocchi delle trasformazioni sociali e della mobilitazione collettiva la trascendono tanto sul piano politico quanto su quello del senso. È sconfitta, allorché la divaricazione originaria perviene al punto estremo di rottura, a cavallo tra gli anni settanta e gli ottanta. In ambedue i casi, i movimenti le sopravvivono: lavorano ad altre modificazioni di senso, ad altre esperienze di cambiamento, di socialità e socializzazione. Il declino dei movimenti parla di un'altra crisi; non di quella della lotta armata. Come la crisi della lotta armata non parla della crisi dei movimenti. Soltanto in un grande processo di estensione storica, la «lunga durata», crisi della lotta armata e crisi dei movimenti possono essere legittimamente ·inscrjtte in un contesto unitario. 2. Se così stan le cose, è agevole demi-
I. pagina 6 stificare un diffuso quanto inconsistente luogo comune. Quello secondo cui la lotta armata non avrebbe fatto altro che portare epigonalmente alle estreme conseguenze il teorema maledetto della politica: «il fine giustifica i mezzi». Che sarebbe come dire: il fine politico della lotta armata ha soppiantato il fine dell'etica. Oppure, ancora più pervasivamente: i mezzi della politica (della lotta armata) nel perseguimento del fine (politico) sono negatori dei fini etici e perciò stesso affossatori dei mezzi dell'etica. Il punto è, invece, un altro: è proprio un sistema di fini di natura etico-politica che fonda la scelta della lotta armata. Il nodo irrisolto non sta nell'intreccio di «mezzo» e «fine», anche se pure di questo si tratta, ma in un non sufficientemente problematizzato rapporto tra etica e politica, in cui i fini etici e i fini politici si soppendono alternativamente e a rotazione. La questione è esattamente questa: nella grammatica della teoria e prassi della lotta armata convivono un'etica fondamentalista e una politica fondamentalista, egualmente universalistiche e totalizzanti. Il fondamentalismo politico come non aveva letto la «secolarizzazione» così non legge la «complessità sociale». Il fondamentalismo etico si sostituisce alla politica nella presa delle decisioni estreme, giustificando la terribilità e la tragicità delle scelte e degli eventi limite, facendoli rientrare in un duro e tremendo destino di necessità storica in movimento verso l'emancieazione integrale della comunità umana. E sempre una cattiva infinità politica che sospende l'etica; è sempre un intransigente integralismo etico che sospende la politica. Dalla cattiva infinità politica discendono i più tragici guasti per l'etica; dall'integralismo etico conseguono le maggiori perversioni della politica. 3 Dunque: sin dall'inizio, la lotta armata ha contenuto un errore • strategico e di prospettive tanto sul piano politico che su quello etico. Detto questo, rimane da storicizzare meglio. Non poteva essere, così come andava disegnando nell'immagine di sé che costruiva, la soluzione dell'acutizzarsi dei conflitti sociali. Ma rimane indubbio che acuti conflitti sociali siano stati in campo. Di questa acutizzazione la lotta armata non è stata la migliore interprete, sul piano politico e sociale. Anzi, il suo rapporto con i movimenti della mobìlitazione collettiva è andato sempre più rarefacendosi, fino al punto da risultare essa - la lotta armata - una delle A più voci complicazioni più duramente strutturate di contro alla crescita dei movimenti e delle ipotesi della trasformazione sociale. All'opposto, il suo rapporto con lo Stato è andato sempre più contrapponendo machina artificiale a machina antiartificiale, in una vertigine che cancellava la «società civile» nell'equivalenza tra diritto e guerra e tra quest'ultima e la trasformazione. Si tratta di riflettere sia sui limiti e sugli errori di fondazione, di prassi e di strategia della lotta armata, come sugli elementi di labilità presenti nella struttura dell'azione A ciascuno il suo: è tempo che questo elementare principio di responsabilità politica venga ripristinato e valorizzato estesamente. Di responsabilità si tratta; non di assoluzioni incrociate o cancellatorie. Ricostruire un quadro completo e aperto di discussione, senza compiacenze e senza veli: questa pare una delle esigenze che più premono. Che questa urgenza sia particolarmente impellente per la Sinistra appare fin troppo evidente. Le ragioni del cambiamento e della trae çtogiornalequestogiornalequestogiornalequestogiornalequestogio Associazione culturale Franco Basaglia una rivista per lo scambio e contro l'interdizione • le lingue colte e consapevoli con quelle mute e del silenzio • le immagini non banalizzate, ma autonome e date come testo • la salute mentale quale generale salute sociale • di nuovo l'aggiramento dei settori, delle discipline e corporazioni; tralasciando le figure normate e affrontando le quasi infinite diversità • per le vie dopo l'emergenza e la maniera dei media una rivista quadrimestrale di materiali, scritture, poesia, narrazioni, fotografia e pittura spedizioni in abbonamento v. San Cilino, 16 - 34126 Trieste 040/574200 4 fascicoli L. 32.000 c/c postale n. 11385341 è nelle principali e più intelligenti librerie è nella distribuzione alternativa di esperienze, gruppi, centri collettiva. Il «muro» che la lotta armata ha eretto di contro ai movimenti non assolve questi dai loro limiti. Come, su un versante tutt'affatto diverso, gli effetti di stabilizzazione in senso autoritativo-conservatore che la lotta armata ha innegabilmente scaricato sul quadro politico-istituzionale non assolvono sistema politico e opposizioni dalle loro responsabilità: in questi ultimi venti anni, in Italia, è stato costruito un ordigno extra-normativo di eccezionalità a catena, non unicamente imputabili alla «emergenza terroristica». sformazione, la necessità di lavorare a un «ordine sociale» più equo, giusto ed emancipante, che la lotta armata non ha saputo interpretare e organizzare, rimangono. Per chi è stato interno all'esperienza della lotta armata, ripensare il senso politico del proprio percorso vuole dire ritrovare le ragioni e la problematica alla base della sua propria scelta. Ritrovare il nucleo originario e denso di quei problemi significa mettersi in cammino alla ricerca di altre soluzioni politiche e sociali possibili. La lotta armata non 'è stata la fine, il seppellimento definitivo e Alfabeta 1121 autodissolutivo delle politiche della trasformazione e del cambiamento: una sorta di «ultima spiaggia» della rivoluzione e della trasformazione. Al contrario: ha costituito l'acme della crisi di emancipazione che vivono i nostri tempi, in una delle sue forme più dure e radicali. Ma se quelle ragioni restano, rimangono da pensare nuovi modelli di azione politica, nuovi percorsi di trasformazione, nuovi moduli teorici, sulla base di una presa di congedo che emancipa da una esperienza fallimentare e fallita, ma non per questo esorcizzabile e demonizzabile. È questa una responsabilità che incombe in capo soltanto a chi porta addosso il segno drammatico di questo fallimento? Oppure è terreno di «responsabilità collettiva», in cui più di una forza politica, più di un attore sociale, più di un soggetto istituzionale - se non tutti - è chiamato a cercare e trovare risposte adeguate? In realtà, il campo dei rapporti tra responsabilità, etica, politica e conflitto, particolarmente nel tornante che sta attraversando la società italiana, sembra essere il «terreno minato» su cui la democrazia politica ha sempre pericolosamente danzato. Su di esso tutti debbono procedere con la perizia di un artificiere, pena la deflagrazione. Una danza diversa è pensabile e costruibile? Dai «limiti» e dai «paradossi» della de-· mocrazia, con tutta probabilità, si esce soltanto pensando la democrazia a un più alto livello di problematicità politica e destinalità storica. Conservando dei modelli democratici le insuperabili conquiste e le irrinunciabili lezioni. Cercando nuovi e più emancipativi «centri»' di unità politica. Disegnando sistemi più congrui ed elastici di soddisfacimento delle aspettative sociali. Ricostruendo i meccanismi della rappresentanza politica, schiodandoli dal reticolo stretto dell'interesse. Ridisegnando il rapporto tra sovranità e cittadinanza politica. Il pericolo che incombe è veramente grande: le democrazie arrivano all'autodistruzione proprio a causa del «difetto di democrazia», processo perverso connaturato alla loro evoluzione storica. Il «programma della trasformazione» salva la democrazia, eccedendola. Al di sopra della soglia democratica c'è l'emancipazione e il suo cammino; al di sotto, l'incancrenirsi di conflittualità mai risolte e ricomposte e i colpi di fendente tra contrapposte oligarchie. Rock èccuini otitica Ri Robertini P er un paradosso tutt'altro che infrequente, nonostante il rock sia organicamente collegato all'industria (e oggi più che mai, vista la complessiva decadenza delle etichette indipendenti, le indies ), pure esso ha sempre rivendicato una propria politicità: a fronte di una totale integrazione nei confronti dell'industria culturale, esso si è sempre dichiarato, in un 1 modo o nell'altro, all'opposizione. Non è questa la sede per valutare, da un punto di vista per così dire «sociologico», quanto tale discorso sia contraddittorio (e comunque chi è immune da coinvolgimenti con l'industria?). Il problema è semmai quello, un tempo lungamente dibattuto, di stabilire in che misura un musicista abbia il • diritto di definire la propria musica politicamente impegnata: in altre parole, se esistono dei criteri (al di là della coscienza soggettiva del musicista che più é> meno sinceramente aderisce a questa o ·quella causa), criteri «oggettivi», che permettano di discriminare la «buona» dalla «cattiva» musica politica. Problema forse non ozioso, visto che recentemente il cosiddetto impegno è prepotentemente tornato alla ribalta, e anche con risultati eclatanti (si pensi all'iniziativa di Live Aid). Ma esso ha coinvolto musicisti così eterogenei che viene da chiedersi se la politicizzazione non sia solo una formùla vuota, priva di conseguenza sul piano formale: solo una sorta di «plusvalore culturale», ininfluente sulla natura della musica, e utile semmai in termini di marketing. Un problema a lungo dibattuto, diceva- • mo. E più che nel resto dell'Europa, nell'Italia degli anni settanta. Allora le coordinate culturali che fecero da sfo~do alla discussione erano strettamente implicate col marxismo. Fu così che la critica di sinistra si imbatté in Adorno, e la sua frase chiave («la musica non è ideologia tout court, ma è ideologia nella misura in cui è falsa coscienza») divenne_il passepartout al cui cospetto valutare il grado di «politicità» di questo o quel musicista. Si finì col produrre proprio ciò che Adorno avrebbe maggiormente aborrito (a parte il fatto che Adorno, com'è risaputo, in realtà aveva sempre disprezzato la cultura di massa in generale, jazz compreso): musica «con le dande» che (soprattutto per ciò che riguardava i titoli... ) dichiarava la propria fedeltà al socialismo ma che, utilizzando acriticamente il sistema tonale tradizionale, armonia compresa, contraddiceva penosamente i propri intenti rivoluzionari (e nel mucchio vanno messi proprio tutti: dai cantautori, ai jazzisti cantori di «fabbriche occupate», ecc.). La questione centrale era quella dell'uso delle dissonanze, e solo un ristrettissimo manipolo di musicisti sfuggì alle ingenuità del periodo. Tra i gruppi sinceramente militanti vanno messi innanzitutto gli italiani Area e gli inglesi Henry Cow. Comune ai due gruppi un radicalismo sonoro che tentava di scardinare i fondamenti stessi dell'armonia attraverso un uso continuo di dissonanze e rumore. Pur tra le innegabili differenze, Area e Henry Cow tentarono di costruire un rock «critico» che distruggesse alla base il carattere normativo dell'armonia classica, lasciando irrompere, proprio col tramite delle dissonanze, quelle che Adorno aveva chiamato le «antinomie sociali». E se gli Henry Cow propesero per un sound debitore nei confronti delle avanguardie colte (Eisler, Weill) - dunque suscettibile di un certo accademismo di riporto - gli Area fecero di più e di meglio: a parte l'enorme talento di un vocalist come Demetrio Stratos, attraverso l'inserimento di timbri e sonorità «etniche» (Luglio, agosto, settembre nero), mostrarono che se il rock vuol dar voce ad una qualche alterità deve inscrivere nel proprio stesso corpo (anche grazie ad un eclettismo che è connaturato al proprio linguaggio), tracce delle culture subalterne. Difficile dire quanto di quelle esperienze • sia oggi proponibile. A entrare in crisi è stata senza dubbio la stessa nozione di «falsa coscienza»: si dà per scontato, e non senza ragione, che ogni coscienza è falsa e dunque la pretesa di trovare musica che esprima «oggettivamente» le contraddizioni di un'epoca è fondata su un equivoco. Eppure il pensiero di Adorno, debitamente riletto e «indebolito», potrebbe servire come strumento di analisi: soprattutto perché l'ipotesi tutta hegeliana che la storia degli uomini si riflette nello «spirito oggettivo» sembra ancora convincente (e gli stessi esiti dell'ermeneutica contemporanea sembrano andare in questa direzione). L'indebolimento starebbe nella consapevo-
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