pagina 8 sua traduzione in realtà: cioè ancora in potere. Nessuna storia possibile può contrastare il passo dell'unica reale. Anche in questo senso l'Uno resta la caratterizzazione «teologica» del potere: come ciò che è coestensivo al reale perché esclusivo di ogni altra possibilità irrealizzata. In questa «unicità» del reale - è il punto decisivo che le letture utopico-liberatorie di Canetti (cioè pressoché tutte) non hanno il coraggio di tematizzare - si consuma ogni alternativa al potere: compresa quella della molteplicità, della metamorfosi, della massa, solo apparentemente contrapposta, ma in realtà interna, o incorporabile, alla sintassi teologico-politica dell'Uno. È il più inquietante «segreto» della scrittura canettiana: non semplicemente, come si ripete, la vittoria dell'Uno sul molteplice, del carnefice sulla vittima, della morte sulla vita, Laboratorio italiano 88/Saggistica ma la loro tendenziale unificazione: non morte contro la vita, ma vita che produce morte. Il discorso finora fatto porta a un'ulteriore approssimazione all'essenza dell'impolitico. Già si è visto come essa sia espressa dalla critica della teologia politica nella sua doppia accezione cattolico-romana (la rappresentazione) e hobbesiano-moderna (la rappresentanza). In questa seconda direzione l'impolitico si costituisce in opposizione diretta ad ogni forma di spoliticizzazione: e dunque in un rapporto tutt'altro che semplicemente oppositivo con il politico. Ma ciò non basta. Non basta dire che l'impolitico non rifiuta pregiudizialmente la dimensione del politico. Occorre dire che esso, da un certo punto di vista - quello, come accade in Canetti, situato precisamente alle sue spalle - coincide con essa. Diciamo meglio: l'impolitico è il politico guardato dal suo confine esterno. È la sua determinazione, nel senso letterale che ne profila i termini (coincidenti con l'intera realtà dei rapporti tra gli uomini). In questa accezione impolitico è stato tutto il grande realismo politico - cioè il pensiero non teologico della politica - a partire da Machiavelli (che la grande tradizione interpretativa, da Croce a Meinecke, ha infatti letto, sia pure inconsapevolmente, anche come pensatore impolitico: se l'uomo fosse buono ... ma dal momento che non lo è, non restano che le categorie del politico, circondate dal loro non poter essere altro che tali: e cioè dall'altro che esse non possono essere), e, prima di lui, da Tucidide che, nel dialogo tra gli Ateniesi e i Melii, prefigura l'intero rapporto tra diritto (il tutto del politico) e Giustizia (il nulla Alfabeta 1101111 politico). Non a caso Canetti predilige quei grandi pensatori negativi - Hobbes, De Meistre e Nietzsche - che gli svelano nei termini più semplici quello che già La Boétie considerava l'enigma della «servitù volontaria», e cioè l'irresolubilità dei rapporti di potere. Non esiste reale alternativa al potere, non esiste soggetto di antipotere, per il motivo basilare che il soggetto è già costitutivamente potere. O, in altre parole, che il potere inerisce naturalmente alla dimensione del soggetto nel senso che è precisamente il suo verbo. Per questo la conclusione che ne ricava non solamente Broch, ma tutto il pensiero impolitico, dallo stesso Broch a Kafka, a Simone Weil - quest'ultima con abbacinante chiarezza - è che l'unico modo di contenere il potere è quello di ridurre il soggetto. Eleonora Fiorani Ho quasi terminato un piccolo libro di epistemologia: e il frammento dato qui è introduttivo. lo mi interrogo sulla mutazione antropologica in corso (di cui la crisi ecologica è L'aspettoeclatante). In essa c'è la perdita del paesaggio, e insieme del nostro corpo e dei nostri sensi, in una malintesa artificializzazione. A mio giudizio viene da qui un'attuale condizione di evanescenza o di non identità, nella perdita di storia e di memoria: e ci ridefiniamo allo specchio della macchina. Tuttavia il Moderno mi appare un atteggiamento e un parametro irrinunciabile e prezioso, non solo per la laicità e la democrazia, ma per la sua propria materialità e il suo senso del finito, dove si pensa L'uomo tutt'insieme come essere del bisogno e del desiderio. Non ho ceduto all'ossessione della storia: né come valore né come passato. Occorre un occhio visionario in avanti. E ho cercato le tracce della materialità dissolta, in buona parte non note ancora in Italia: mi riferisco specialmente a una disciplina nuova, l'etnobotanica, e i suoi teorici, Haudricourt, Barrau, Acot. Con Barrau ho parlato di recente per accertare il percorso più maturo di una indagine che lo ha portato via via a riscoprire embrioni vegetali nel tropico e a ridefinire la «scienza naturale». E.F. La riscoperta della preistoria Sono stato un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare L Empedocle, Frammento 117 a durata della storia si iscrive nello spazio: vi è dunque una sovranità dello spazio, anche se è il tempo umano che in esso comanda la spartizione degli uomini. Lo spazio costituisce la struttura materiale della civiltà: esso è l'ambiente, è il territorio. Se dunque storia e civiltà sono innanzitutto elementi organizzatori dello spazio, non sono da questo separabili, se non per astrazione. Ed è iIJutile cercare la causa prima o sondare i livelli o interrogarsi sul prima e sul poi. Ciò che determina e ciò che è determinato stanno insieme, si intrecciano inestricabilmente e si scambiano di posto nel processo concreto e materiale della vita. È il bisogno di ordinare, classificare, separare della mente umana, è la sua devianza incasellatrice che suscita fantasmi e pone falsi problemi. Ordinare, controllare, persino vendere lo spazio non ne fa una realtà meno dura, non toglie la presenza che non può essere ignorata senza conseguenze catastrofiche. L'uomo occidentale ha invece creduto di sfuggire al tempo e allo spazio, di poterli porre come pure categorie della mente o del sociale. È occorsa la crisi degli anni sessanta e settanta, l'incubo atomico, la desertificazione del Sahel, il clima impazzito, perché, lentamente, trovassero ascolto i teorici che sulla materialità avevano richiamato l'attenzione e allora si ricominciasse a interrogare il cielo, l'acqua, la terra e si prestasse attenzione ai sensi dell'uomo. C'è voluto tutto questo per accorgersi nuovamente che le civiltà sono innanzitutto organizzazione del tempo e dello spazio e così riscoprire che sulla terra gli uomini sono ripartiti in modo ineguale e c'è dunque un rapporto tra tipo di civiltà e entità della popolazione. Siamo così tornati a dire con Platone che gli uomini sono «sparsi intorno al mare come formiche o rane intorno a una palude» (Fedone, 109b), oppure con Vidal de la Blache che gli uomini non si sono sparsi sulla terra a macchia d'olio, ma si sono uniti come dei coralli. 1 Di nuovo dobbiamo considerare quanto conti la densità in rapporto alla civiltà. 2 La verifica dunque del rapporto dell'uomo con la natura è momento essenziale della decifrazione delle civiltà. Nel mondo strano e sorprendente dell'albero e del vegetale, laddove si determina il rapporto uomo-piante, si iscrive anche la materialità. E l'uomo si determina correttamente come essere del bisogno. Né il bisogno è qui una categoria essenzialmente filosofica, affascinante come tale, ma strutturalmente fenomenica. Qui il bisogno è corpo, tecnica, alimentazione con le relative strutture simboliche. L'uomo è la grande bocca, il grande ventre con il suo immaginario che può anche impazzire. La stessa divisione dei sessi è apparsa negli studi recenti solidale con il cibo.3 È dunque qui il nodo centrale del rapporto produzione-riproduzione: e qui sono inseriti i rapporti di vita e di morte della civiltà e dell'individuo singolo. Ora l'ineguale ripartizione degli uomini nello spazio è in rapporto con l'attitudine a produrre cibo.' La dipendenza alimentare è struttura profonda della storia, senza che ciò abbia nessun senso deterministico. Significa solo che numeri degli uomini, densità, tipo di civiltà, sono elementi in rapporto stretto con l'uso dell'ambiente, che certo è sociale, tecnico, quindi culturale e non semplicemente dipendente dalle naturali disponibilità del cibo in un determinato territorio. Conta l'uso che ne fa una determinata civiltà e conta la tecnologia che rispetto a ciò essa elabora. .. Le strutture profonde ci conducono alla preistoria e a mondi dimenticati, la cui ricostruzione modernissima e, talvolta, marginale, ci costringe a percorrere sentieri che il tempo e la dimenticanza hanno cancellati. Ed emergono paradisi perduti che nella moderna ricostruzione appaiono come società vive e non disarticolati reperti museari. I popoli «primitivi», allo stato di natura, mettono in discussione il nostro percorso, la nostra scienza, il nostro sapere. Occorre saper ascoltare, per ritrovare un sapere senza scrittura, e occorre svestirsi dei pregiudizi e di una razionalità astratta e onnivora. Dagli abissi della preistoria siamo condotti alle società del tubero e alla orticoltura forestale, alla scoperta di un «altrove», di un luogo «altro» dove ogni pianta abita la categoria della singolarità, non ha subito la cosalizzazione, non è diventata massa indistinta né dono della divinità all'uomo, al suo servizio. È dio lei stessa. Qui l'intervento dell'uomo è morbido, felpato, interstiziale, non turba gli equilibri. Qui l'uomo gode i tempi lunghi di una natura signora. I nuovi studi hanno sottratto questi mondi al silenzio e h.anno fatto emergere dati sorprendenti che mutano i quadri e le certezze codificate. Ai tropici ci sono civiltà del vegetale che mettono in crisi il nostro più sottile etnocentrismo, quello relativo alle piante alimentari, che ha visto nella cultura dei cereali il passaggio determinante della civiltà e il fondamento della alimentazione umana: è una convinzione radicata e ovvia, che risale a Erodoto, ritrovabile ancora nei testi per altro importanti e belli del botanico O. Amess o dello storico della preistoria G. Childe. 6 È questa convinzione che motiva lo schema a tutti noto del processo evolutivo semplice e lineare che parte dall'uomo predatore selvaggio, cacciatore e raccoglitore e giunge al sedentario contadino coltivatore di grani. La rivoluzione agricola si identifica con la domesticazione dei cereali e da essa parte la civiltà e la storia. Certo è un passaggio importante: ma non è il solo modo di esistenza e soprattutto non è la civiltà, ma solo uno dei suoi modi possibili. Metodologicamente, la generalizzazione dello schema occidentale della evoluzione comporta un determinismo ecologico, l'unico sopravvissuto nella modernità novecentesca che di determinismo certo non ha mai peccato ... tranne che su questo punto, che è il nodo cruciale della società occidentale: la rivoluzione neolitica è il momento antecedente la rivoluzione industriale. E viene da entrambi questi passaggi l'ideale del «dominio sulla natura», iniziale e, nel nostro secolo, esasperato. Ai tropici, ai tropici umidi, la civiltà parla un altro linguaggio: qui stanno ancora, nostri contemporanei, civiltà primitive che difendono in modo commovente la propria identità, il proprio rifiuto alla civiltà neolitica. Noi, colonizzatori instancabili, non ci siamo accorti che non si tratta di un'assenza di domesticazione dei vegetali, ma di una diversa domesticazione, precedente quella del grano e dell'orzo. Haudricourt e Hedin, 7 in seguito Sauer hanno richiamato la nostra attenzione sull'originalità di questo insediamento, sollevando questioni che vanno al di là del problema della domesticazione delle piante. Sono questioni che mettono in dubbio il primato del clima temperato come culla della civiltà e sottraggono il clima dei tropici al ghetto di habitat delle scimmie e delle popolazioni «primitive» in ritardo. Per Haudricourt, anzi, i contrasti climatici favoriscono l'esistenza di piante di riserva sotto forma di tuberi, bulbi, grossi grani che l'uomo ha utilizzato prima della scoperta della cucina. Qui è il regno dei vegetali tropicali perenni. Qui c'è una culla di civiltà e di domesticazione dei vegetali che non ha bisogno di trasformare culturalmente l'ambiente. È sufficiente la raccolta ed è sufficiente proteggere le piante alimentari, favorirne la moltiplicazione, tanto è ricca la foresta tropicale Questa raccolta non è la raccolta selvaggia, ma non è neppure la domesticazione agricola: sono sufficienti le tecniche di utilizzazione del territorio. Sono queste le società dell'abbondanza, di cui ci parla M. Sahlins.9 Sono società della raccolta specializzata e di un'ortocultura forestale, per la quale Braidwood e Reed10 hanno coniato la definizione di «vegetocultura», perché trasforma l'ambiente forestale, senza intaccarne gli equilibri, in ortocultura, in addomesticamento dei vegetali perenni come il taro, l'igname, la Dioscorea alata, 11 secondo modi peculiari di apertura di brecce nella foresta. È importante rilevare che qui non è avvenuta una rottura tra il «selvaggio» e la «cultura», ma vi è compresenza e continuità. Su questo tema e sulle culture del Sud Est asiatico è oggi decisivo il lavoro condotto da Jacques Barrau 12 che anche da botanico ha studiato le piante della foresta tropicale. Assistiamo allora a interessanti capovolgimenti: l'attenzioge nuova alla preistoria e alle civiltà selvagge comporta la scoperta insieme della loro peculiarità, dei loro valori, in una complessità e ricchezza di esperienza a contatto con la natura. Il punto di partenza, che appare semplice e povero a una visione piattamente evoluzionistica e lineare, può essere assunto paradigmaticamente come paradiso perduto, alternativa tecnologica alla moderna società in Martin Harris. 13 Oppure, come nell'ipotesi Sapir-Whorf, sulla relatività linguistica e globalmente nell'analisi di Whorf, 1 • può rivelare nella lingua la maggiore ricchezza e pregnanza dell'esperienza preistorica e selvaggia rispetto ai livelli di riduzione e semplificazione astratta della modernità. La riscoperta della preistoria come momento cruciale della storia è propriamente della seconda metà del Novecento. L'assunzione della preistoria come società e come presente ha comportato anche l'estensione dell'archeologià alla lettura complessiva del passato. Tutta la visione del passato viene modificata; cade l'immagine di una storia unitaria, tutta centrata e dominata dalla classicità greca e romana. La classicità stessa cambia timbro e ricomincia a parlare il linguaggio indoeuropeo 15
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