Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

Alfa beta 11O/111 Il testo che segue è tratto dall'introduzione al volume Categorie dell'impolitico, in via di pubblicazione presso il Mulino. Esso ripropone al dibattito italiano la categoria di «impolitico» pensata al di fuori del significato che la tradizione (a partire dalle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann) le ha assegnato. In questo senso il termine di «impolitico» è impiegato in un'accezione diversa e anche opposta a quella di «apolitico», alludendo semmai a un'estrema radicalizzazione della riflessione sulla politica che la sposta in un ambito semantico irrappresentabile attraverso gli usuali lessici politici. È appunto dalla consumazione di questi ultimi che nasce una linla «impolitica» nel senso suddetto, alternativa sia a ogni forma di «teologia politica», sia, in egual misura, alla tendenza spoliticizzante della Modernità compiuta. Si tratta di una linea tutt'altro che omogenea, che è ricostruita lungo l'intreccio e la reciproca «reattività» di alcuni grandi testi novecenteschi, dal saggio Sulla rivoluzione di Hannah Arendt alla Morte di Virgilio di Hermann Broch a Masse e potere di Elias Canetti, dall'Enracinement di Simone Weil alla Souveraneité di Georges Bataille ad Al muro del tempo di Ernst ]unger. R.E. Categorie dell'impolitico ' E contro questa compresenza di spoliticizzazione e teologia, di tecnica e valore, di nichilismo e apologia che insorge l'impolitico. Esso, lo si è detto, è altro dalla rappresentazione. O meglio: f altro, ciò che ne resta ostinatamente fuori. Ma tale irrapresentabilità non è certo quella della spoliticizzazione moderna. II suo non è rifiuto del politico. In questo senso esso è radicalmente sottratto alla semantica manniana. Non è il valore che al politico si contrappone. È anzi esattamente il contrario. È il rifiuto del politico portato a valore, di ogni sua valorizzazione «teologica». L'impolitico è critica dell'incanto, anche se questo non significa che esso si riduca al semplice disincanto, all'allegro politeismo del «dopo». Non si riconosce nello sradicamento moderno: pur non ricercando, e anzi denunciando, ogni utopico radicamento. Che d'altra parte esso non coincida da nessun lato con un atteggiamento apolitico o impolitico è comprovato dal rilievo che assume in Hannah Arendt. Può sorprendere l'ascrizione alla semantica dell'impolitico di un'autrice come la Arendt, «eroicamente» attestata - quanto Schmitt, ma diversamente da lui - nella difesa delle categorie del politico nella stagione della loro capitolazione. E infatti tale ascrizione - avanzata peraltro in maniera problematica e parziale: relativa soprattutto alla sua più recente produzione - non riguarda il punto di rifrazione da cui il politico è guardato (a questo sempre rigorosamente interno: tranne forse che per la prospettiva di fuga che l'ultima opera apre al «frattempo» del pensiero); quanto il progressivo restringimento del suo margine di determinazione affermativa: e cioè di sostanziale irrappresentabilità che sperimenta una concezione della politica come pluralità (e natalità: l'origine per la Arendt è sempre plurale). Ogni tentativo logico-storico di rappresentare quella pluralità ne costituisce, infatti, un'evidente negazione, dal momento che la modalità intrinseca della rappresentazione è quella della reductio ad unum. Un destino, originariamente innescato dall'effetto di trascendenza dell'idealismo platonico, e definitivamente «compiuto» dal totalitarismo contemporaneo: non nel senso della sua alterità rispetto allo Stato «borghese» ma in quello di una oggettiva complemenLaboratorio italiano 88/Saggistica tarità (se non proprio sovrapposizione), come testimoniato dalla affinità categoriale che Io lega alle modalità spoliticizzanti non solo della tarda società liberale dal cui seno esso scaturisce, ma dell'intera Modernità. Non a caso è quest'ultima - il nodo, come prima si diceva, che essa allaccia di tecnica e decisione, di volontà e rappresentazione, di neutralizzazione e teologia - il prevalente oggetto di critica (sia pure in chiave né restaurativa né apocalittica) assunto dalla Arendt fin da The human Condition, e soprattutto in quel saggio sulla rivoluzione che costituisce il pivot logico intorno al quale il discorso arendtiano si ribalta in direzione sempre più accentuatamente impolitica. Appunto il Moderno - giulivamente interpretato (spesso, ahimè, in nome della stessa Arendt) come ambito genetico della politica-pluralità - ne costituisce la più determinata negazione in termini di unificazione coatta. Entrambi i poli entro cui oscilla la sua costituzione politica - quello della rappresentanza e quello della rivoluzione - ne sono originariamente (non contingentemente) segnati. È così per la rappresentanza, avvitata, fin dalla sua genesi hobbesiana, in un meccanismo di autonomizzazione trascendente (non in senso metafisico, ma funzionale) del rappresenEgitto, 1935 ca tante nei confronti del rappresentato: con il doppio risultato di una «divinizzazione» della sovranità (già in Hobbes dotata degli attributi divini dell'interpretazione della legge e della «creazione» della soggettività politica) e di una de-politicizzazione del sociale. È vero, infatti, che nella costituzione moderna il sovrano è tale solo se rappresenta, ma è altrettanto vero che la rappresentazione non può darsi che in forma sovrana - «teologica» in alto e spoliticizzante in basso: e cioè come reductio ad unum - il popolo, la nazione, lo Stato - degli individui rappresentati. È per questo che la molteplicità in quanto tale resta irrappresentabile: perché la rappresentanza non può che inchiodarla all'unità della propria forma «immaginaria» (non sostanziale, ma trascendentale). La rappresentanza ma - da qui la progressiva afasia affermativa del discorso arendtiano - anche la rivoluzione: inizialmente sottratta allo scivolamento monistico dalla sua anima costitutivamente plurale, «antirappresentativa» ma poi essa stessa necessariamente tradita - perciò ricondotta alla matrice restaurativa del proprio etimo premodemo di revolutio - da un'esigenza autolegittimante che la vincola a un modello tradiziof\'lle: e dunque, ancora e fatalmente, alla sua rappresentazione «teatrale», come sperimentato da quella stessa rivoluzione americana dalla Arendt indicata come la più resistente al cortocircuito teologico-politico, e tuttavia di esso inesorabilmente preda. Il problema, inquadrato in chiave storica nel"6aggio sulle rivoluzioni, è riproposto nell'incompiuta trilogia finale in chiave più strettamente teorica come paradosso della volontà. La quale, pur metafisicamente fondata in termini di libertà - e cioè di impredicabilità, di contingenza - è destinata dalla propria natura binaria, eternamente divisa tra volere e non-volere, a non potersi tradurre in azione politica. O a poterlo fare solo attraverso la soppressione violenta di quell'alterità conflittuale che la costituisce, e dunque attraverso un'unificazione ancora più forzata di quella rappresentativa: uscendo da se stessa. Facendosi, soppressione, imposizione, dominio. L'irresolubilità di tale situazione - di cui lo smottamento impolitico dell'ultima opera arendtiana è il più evidente portato - è resa perfettamente dalla specularità di rappresentazione e decisione: entrambe esclusive di quella pluralità fuori dalla quale ogni forma politica è spinta a rovesciarsi nel proprio opposto informe (la Tecnica) o deforme (il totalitarismo). È la stessa irresolubilità che inquieta (fino a «vietargli» la conclusione) il «libro politico» di Hermann Broch. Che il suo nome e la sua opera trovi posto in un saggio di filosofia politica può sorprendere solo chi non conosca, non dico le migliaia di pagine da lui dedicate a temi di teoria politica e di filosofia della storia, ma neanche quel breve e violento «condensato» di politica proprio dalla Arendt edito e introdotto. Esso parte, si può dire, nonostante la sfasatura cronologica, esattamente lì dove l'opera arendtiana si arresta: con in più una nettezza di prospettiva dovuta al passaggio da una analitica ancora a sfondo pre-hobbesiano, come quella della Arendt, a un'antropologia decisamente post-hobbesiana: e cioè all'assunzione dell'origine non solo come pluralità ma anche e soprattutto come conflitto. Irriducibile conflitto di potere. Dietro questo passaggio non c'è, naturalmente, solo Hobbes: c'è soprattutto quel triangolo di pensiero «forte» costituito dai tre più terribili testi di filosofia politica contemporanea: e cioè Zur Kritik der Gewalt di Benjamin, Totem und Tabu di Freud e l'intera opera di Nietzsche. Sullo specifico contributo di quest'ultima alla «tradizione» dell'impolitico torneremo più avanti. Quello che comunque di quest'incrocio si riflette nel discorso di Broch è non solo la divaricazione radicale tra diritto e Giustizia, che costituisce il centro focale e la misura semantica della sua critica alla teologia politica, ma l'acquisizione di un fallimento epocale (e anzi della Storia nel suo compagina 7 plesso) che esclude qualsiasi ricomposizione storica (ma anche escatologica) tra politica ed etica. Da qui lo sdoppiamento, interno allo stesso politico, tra il livello, il «polo», come Broch preferisce, della sua effettualità necessariamente negativa, perché sospesa alla sovrapposizione strutturale di libertà (propria) e asservimento (altrui), e quello ineffettualmente affermativo che ne costituisce l'irrappresentabile presupposto. In quest'assoluta differenza tra una realtà puramente negativa e la sua idea puramente positiva si racchiude l'impolitico brochiano. Impolitico non nel senso di una fuga dal politico che, in quanto reale, è dichiarato «ineluttabile» - l'intera linea dell'impolitico è interna, perché la dà per scontata, non esterna, alla koselleckiana «politica come destino» - ma in quello della sua sottrazione a ogni prospettiva di valorizzazione etica. È vero, infatti, che proprio a quest'ultima - al disegno di fondazione etica della politica - era stata da Broch funzionalizzata quella filosofia neo-kantiana della storia che costituisce l'oggetto, mai interrotto, della sua ricerca filosofica. Ma ciò non toglie che non solo tale progetto fallisca per intima contraddizione, ma che proprio da tale contraddizione nascano le più intense prove narrative dell'autore: dai Sonnambuli a quella Morte di Virgilio che, soprattutto nell'incontro-scontro tra Augusto e Virgilio (qui ricostruito in diretto rovesciamento dell'interpretazione corrente), dell'impolitico brochiano rappresenta l'ultima, contraddittoria, «sistemazione»: nel senso che contraddittoria, consapevolmente contraddittoria, non è solo la sua forma - il tentativo di raggiungere la Parola attraverso quel linguaggio che ne esprime la negazione discorsiva (così come la pratica è la degradazione dell'idea a ess&presupposta) - ma anche il suo oggetto. Perché contraddizione, «composizione» (essa stessa antinomica) di contraddizioni, non può che essere la logica sottratta al linguaggio (non contraddittorio) del Nomos. Questo spiega insieme l'opposizione e la sconfitta di Virgilio, cioè la restituzione finale dell'Eneide ad Augusto. L'Eneide, poema del politico, non può appartenere che ad Augusto dal momento che inappropriabile è l'idea che vi proietta Virgilio. Quell'idea - la giusta distanza dal mondo del proprium ( cioè da tutto il mondo) - non è riproducibile in immagine. Immagine si dà solo di ciò che è riducibile a proprietà. Ma la Giustizia di Virgilio non è mediabile dialetticamente con il diritto. È perciò che il dialogo con Augusto non perviene a nessuna ricomposizione, a nessuna sintesi etico-politica. L'etica è l'irrappresentabile del politico, ciò che esso può ascoltare solo attraverso quella «parete di rimbombante silenzio» che chiude l'universo dei Sonnambuli. È la stessa parete su cui batte anche il linguaggio di Canetti, con una consapevolezza del proprio limite interno anche superiore a quella di Broch: nel senso che il «polo» positivo inteso da Broch come l'alterità, certo inesprimibile, ma in qualche modo identificabile come presupposto esterno (l'idea) del politico, viene da Canetti drasticamente riassunto nella rappresentazione senza resti del negativo. Non c'è altra dimensione, nel mondo di Canetti, dalla semantica di un potere che riempie di sé tutta la realtà reppresentata: e che solo da questa pienezza lascia trasparire, non all'esterno, ma alle proprie spalle, come rovescio o ombra di un'illimitata pr:esenza, il non-potere di ciò che non è. In quest'assenza - l'inespresso, l'impensato, il dimenticato - si racéoglie per Canetti l'impolitico. Esso è il silenzio che avvolge il potere. La lama di luce che trapela dalle maglie notturne della storia del potere. Del potere come-storia. La storia è ciò che sanziona la subordinazione del possibile al potere. La

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