pagina 6 Durkheim, Maus, Malinowski ecc.) può diventare anche una chiave chiarificatrice per l'arte dei nostri giorni, solo in apparenza liberata dall'impaccio dei miti e dei riti che un tempo la governavano. Ora sopravvalutata, ora considerata come curiosità etnologica, ora invece giudicata addirittura come responsabile di talune correnti delle avanguardie storiche (cubismo e picassismo), quest'arte ancora oggi non è stata definitivamente sistemata né storicamente né esteticamente, proprio perché sfugge tanto alle partizioni storiche quanto a quelle estetiche. In realtà, pur riconoscendo la preminenza dei Grandi Stili delle maggiori civiltà mondiali - Grecia antica, Cina, India-Egitto - non si può misconoscere l'apporto delle culture «separate» primitive, tribali, sia per l'influenza - diretta o indiretta - che hanno avuto su quelle più emergenti, sia perché nella creazione artistica di questa parte d'umanità, rimasta ancora spontanea e non «contagiata» dalla civiltà tecnologica, è possibile rintracciare alcune chiavi interpretative del fenomeno artistico allo «stato nascente». Il problema che confonde maggiormente chi indaga oggi sulla consistenza e l'originalità delle arti «primitive» (o meglio: sugli artefatti, utensili, monili ecc., che appaiono ai nostri occhi come «artistici» anche se il loro significato per quelle popolazioni era - o è tuttora - sacro, magico, apotropaico), è proprio quello di decidere come si verifichi sin dai primi gradini dell'evoluzione umana l'impulso a disegnare, plasmare suppellettili, indumenti, decorazioni, a contenuto estetico e al tempo stesso provvisti di un indubbio valore funzionale. Che di un contenuto estetico si tratti, non devono ·esserci dubbi; anche se parecchi antropologi hanno preferito svalutare la componente estetica di tali oggetti, riconoscendovi soltanto quella magico-simbolicorituale. Secondo Robert Layton, ad esempio,2 è indispensabile ammettere il valore artistico di simili oggetti. E, per sfruttare questa opinione, egli analizza parecchi casi, tratti da ricerche «sul campo» presso gli aborigeni australiani, nonché attraverso le testimonianze dei maggiori antropologi che si sono occupati di simili problemi. Un'indubbia volontà di «abbellimento» non manca mai presso le culture primitive (sia odierne che dell'antichità): basterebbe a provarlo l'esistenza costante di acconciature, tatuaggi, e la creazione di oggetti simbolici nei quali non fa mai difetto un quoziente artistico. Ma, quello che più conta, non solo a un Laboratorio italiano 88/Saggistica fine scientifico ma estetico, è la presenza d'una intenzionalità in queste operazioni. Altra cosa, infatti, se l'oggetto o la statuetta rituale o totemica sono stati creati con una finalità decisamente artistica o per tutt'altra ragione. Un'interessante prova ci viene offerta da alcune statuine di creta, appartenenti alla cultura Lega (africana)· che a noi appaiono come sgraziati modelli raffiguranti una figura umana obesa, mentre, per quelle tribù, hanno il significato di «donna incinta che ha commesso adulterio». Sicché la statua vale da ammonimento per l'intera tribù. Un caso analogo, ma appartenente a una grande cultura storica è quello - da me spesso citato3 - delle cosiddette «Ombre della Sera» del Volterrano. Si tratta di statuine di bronzo estremamente esili che a noi appaiono come progenitrici di certe allungatissime sculture di Giacometti; mentre, per gli Etruschi, avevano soprattutto, se non esclusivamente, un valore apotropaico: quello di «far crescere» l'infante presso la cui culla venivano appositamente collocate; e anche il compito di tenere lontane le divinità malefiche che avrebbero potuto danneggiare la crescita del bambino. Ecco, dunque, come le motivazioni delle statue di Giacometti e quelle delle Ombre della Sera - pur essendo del tutto divergenti - hanno portato a un risultato esteticamente affine anche se totalmente diverso per la sua significazione effettiva. Che poi si diano, in generale, inattese e incredibili affinità nelle forme espressive di popolazioni e culture tra di loro distantissime tanto nel tempo che nello spazio è cosa ben nota e lo prova in maniera esemplare il tanto discusso fenomeno delle split representations - delle immagini sdoppiate - proprie alle culture della costa del nord-occidentale degli Stati Uniti (Alaska)! Queste rappresentazioni sdoppiate hanno dato molto filo da torcere agli antropologi. Lo stesso Layton si rifà alla nota descrizione di Boas che ne chiarisce l'origine ammettendo, in quelle popolazioni, un tentativo di ottenere una raffigurazione schematica, ma anche minuziosamente naturalistica, attraverso la proiezione, sopra una superficie piana, d'un disegno tridimensionale come quello raffigurante un animale, un pesce, un volto umano. Quello su cui, peraltro, l'autore sorvola, è di ricordare come già Leonhard Adam e più di recente Lévi-Strauss abbiano preso in considerazione queste stesse split representations mettendole a confronto con altre molto simili a queste che si trovano presso i Maori della Nuova Zelanda presso gli indiani Caduveo del Sud del Brasile, e - fatto ancora più sensazionale - con alcuni vasi in bronzo cinesi del I e II millennio a.C. Il che farebbe pensare che, a un determinato gradino dell'evoluzione umana, si verifichino identiche premesse psicologiche e percettive tali da giustificare rappresentazioni figurative omologhe. Non è che questo genere di parentele tra culture lontane nel tempo (3000 anni!) e nello spazio (Alaska, Brasile, Cina) sia molto frequente, ma sembra abbastanza accettabile ammettere che culture «primitive» dei nostri giorni, di ieri, e di tempi remoti, possano sviluppare gli stessi principi tanto nell'organizzazione dei loro riti e cerimoniali, magici o religiosi, quanto nelle loro figurazioni artistiche. Anzi, il fatto che si diano - o si possano dare - analogie e addirittura identità formali, tra artefatti di civiltà così distanti tra di loro è semmai una riprova di quella atemporalità del mito di cui dovremmo ormai essere convinti. Un altro dei punti interessanti nel saggio di Layton accomuna le ricerche di de Saussure sul rapporto significante - significato a quelle di Durkheim sul valore di certi disegni totemici. Senza entrare nel merito d'un eventuale reciproco influenzamento tra i due studiosi (secondo Barthes, de Saussure avrebbe risentito dell'influenza di Durkheim), la tesi di quest'ultimo - secondo cui il rapporto tra disegno totemico e sua significazione sarebbe puramente convenzionale - si può senz'altro sovrapporre a quella sostenuta dal semiologo svizzero circa l'arbitrarietà del segno linguistico. Durkheim, analizzando lo stile astratto-geometrico dell'arte di alcuni aborigeni dell' Australia centrale, considera irrilevanti le qualità «rappresentative» di tali disegni, mentre una studiosa posteriore come N. Munn ha dimostrato all'opposto che i disegni sono in larga misura rappresentativi. Un'osservazione, questa che va di pari passo con quella relativa a un altro curioso reperto australiano (non citato dall'autore): i «churinga»5 (o churunga), quelle misteriose «pietre sacre», graffite con tracciati geometrici (molto simili, sia detto tra parentesi, e senza voler fare nessun'illazione scientifica! a certi disegni di Klee) che, dopo lunghi studi, si sono rivelate quali veri e propri ricettacoli di racconti e leggende interpretati dagli aborigeni attraverso una «decriptazione» delle linee disegnate e costituenti dunque un'autentica «notazione» semantica efficiente. A suffragare l'opportunità di questo rapporto tra significante e significato - sia nel Alf abeta 1101111 caso dei disegni totemici che in quello del linguaggio verbale - è stato ormai spesso provato come esistano legami tutt'altro che tenui tra valore fonematico d'un vocabolo e sua significazione, e addirittura tra l'aspetto «iconico» delle lettere (del nostro e di altri alfabeti) e suo primitivo significato. Ebbene, qualcosa di molto simile al rapporto tra tracciati astratti totemici e loro significato «occulto» vale non solo per le parole o per i segni alfabetici (e tanto più per quelli ideogrammatici), ma per ogni oggetto inventato dall'uomo con una finalità in apparenza soltanto pratica e utilitaria, ma con una intenzionalità più o meno cosciente che potrà essere simbolica o magica. La presenza di alcune costanti formali, di alcuni schemi pseudo-iconici, fa sì che quasi sempre sia possibile scoprire il legame segreto esistente tra significanti e significati nelle creazioni artistiche non solo delle Grandi Civiltà ma anche delle «culture ristrette tanto dell'antichità che dei nostri giorni. Ed è questo fatto che ci permette di guardare con più fiducia al problema della comprensione (e dell'incomprensione) dell'arte e della sua funzione, tanto ai suoi albori che nei suoi ultimi sviluppi. L'uomo, con ogni evidenza, crea con le sue mani, o con gli attrezzi di cui può disporre, dei simulacri, dei feticci di se stesso, delle sue divinità, dei suoi fantasmi. E questi feticci - a chi li sappia decifrare, sia pure con l'aiuto di dottrine scientifiche, antropologiche, psicologiche - finiranno per avvalorare la presenza di una Urform (proprio nel senso goethiano di matrice originaria) che varrà a suffragare la compresenza d'un dato utilitario e funzionale e di uno artistico magico, mitico, o addirittura la loro coincidenza. Note (1) Cfr. Franz Boas, The Mind of Primitive Man, CollierBooks, NewYork, 1963. (2) Robert Layton, Antropologia dell'arte, Feltrinelli, Milano, 1984. (3) Cfr. le mie Oscillazioni del gusto, Einaudi, Torino, 1970. (4) Cfr. Lévi-Strauss, Anthropo/ogie structurale, Plon, Paris, 1958. E si veda anche Lévi-Strauss, cit. pp. 270-275,«Le dédoublement de la représentation»,a proposito delle split representations, dove sono citati altresì i lavori di Leonhard Adam, Franz Boas (cit.) e F.D. McCarthy. (5) A proposito dei «churinga»si veda Herbert Read, Art and Society, Faber & Faber, London, 1936,pp. 33-36,dove sono analizzatele diverse opinioniattorno al significatodi questi disegniapparentemente astratti - tracciati su certe pietre dagliaborigeniaustralianie che, secondoalcuni autori, corrisponderebberoa veri e propri tracciati topografici. '8r1e11i dà visita Il piccolo Hans diretto da Sergio Finzi Natura intricata La psicoanalisi e le macchie di V. Finzi Ghisi. Forme della natura e del soggetto: la «nevrosi di guerra in tempo di pace» e una teoria psicoanalitica dei colori di S. Finzi. 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