Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

pagina 42 Laboratorio italiano 88/Letteratura Alfabeta 110/111 aetano Testa Ra e l'autunno A ttese l'autunno. Si soffiò il naso, con forza, per riconquistare l'olfatto. Trascurò un po' l'erba e le altre piante. Ci pensò su parecchio, nelle circostanze comuni e ricorrenti, e all'improvviso. Attese le prime piogge notturne, giorno e notte, per molte ore consecutive, leggendo senza passione, e con lentezza, libri lontani, scritti con cura, freddamente. E continuò a soffiarsi il naso, con metodo variabile. Riacciuffò una parte dell'olfatto lungamente perduto. Si mise al balcone, la sera, e annasò scrupolosamente l'aria, a nord a sud a ovest a est, con gli occhi chiusi, concentratissimo. E intanto ascoltò, parlò, dormì sognando. Continuò a leggere. Scrisse resoconti, nomenclature, cataloghi, microdizionari. Si profumava, con violento drakkar, le ascelle, si lavava ossesso le mani, ogni due giorni con la cesoietta a scatto si tagliava le unghie. Passeggiò senza tregua, da una porta all'altra. E fu quasi sempre solo, ma per puro caso. Un lunedì, poco prima d'andare a pranzo, incontrò sul balcone un colibrì. Era lungo tre centimetri scarsi, aveva il corpo grigio, la coda arcobaleno con preminenza del turchese e del madreperla; il becco, che era sottile e lungo quasi due centimetri, era nerissimo. «Che ci fa qui un colibrì?» si disse scrutandolo. Poi l'uccelletto scomparve. Fu un lunedì brasiliano, interrogativo. Non riuscì a mangiare. Sudò molto. Ebbe capogiri. Si coricò. Pensò che forse era opportuno credere si trattasse di un calabrone. Ma non ci riuscì. E l'autunno era ancora lontano, lontanissimo. Ebbe sogni elastici. Si pentì di qualcosa che non ricordava. Poi, riattraversò il deserto e approdò al guanciale sudato. Aprì gli occhi, buio. Silenzio artificiale. Li richiuse, la dea cieca era scomparsa. Agli amici che in quei giorni si fecero vedere, a tutti, ripeté l'identica storia, incredibile e quasi ridicola, del colibrì che era venuto a visitarlo. E tutti, uno ad uno, commentarono «be', sì, certo, perché no, sarà scappato a qualcuno». C'era ancora u~ gran caldo. Ma la sera cominciava già a svegliare brevi venti, freschi, mutevoli. L'autunno, secondo Ra, sarebbe dovuto venire armato, luccicante di qualche leggera febbre e coi denti, soprattutto i premolari, cariati. Un autunno infetto. Un bellissimo autunno malato. Nel tardo pomeriggio saliva in terrazza e, senza scorgerle, osservava lungamente, le sezioni a raggiera, dell'ospedale, le grandi querce centenarie che le separavano, gli uccelli che in continuazione trafficavano dentro quelle nuvole nere di foglie. E una volta, in un angolo della ,terrazza, con la pancia in aria e le zampette perfettamente parallele, trovò, stecchito, uno di quei passeri. La sua quotidiana lettura di presagi rimase sconvolta. Quale minaccia, quale svolta imprevista stava in agguato? Cominciò ad esplorare assiduamente le prime pagine dei maggiori quotidiani, del mattino e del pomeriggio, a pesare e scandire i titoli, a badare alla presenza dei numerosi cubitali. La più lieve indisposizione lo turbava tragicamente e quella successiva lo rassenerava di colpo. La sua salute era perfetta. L'olfatto continuava a migliorare. I giorni non si fermavano e le notti non esistevano. In quel periodo non ci fu alcuna eclisse. Niente terremoti. Un treno deragliò in Provenza e finì in un campo di broccoli. Tutto qui. Gli cadde tra le mani una «vita e morte di yukio mishima», l'aprì. Aspettava, senza fare somme, senza calcolare prodotti, senza dividere con altri, senza sottrarsi. Stava tra un ben fermo desiderio di fuga e continue occasioni di immobilità. Bevendo molta acqua, tagliata con altra acqua. Finito di mangiare, un giorno, chiamò se stesso «Ra», e si presentò, compitissimo,'allo specchio del bagno. Scrutò. C'era una faccia magra, invecchiata, seria, e c'erano due occhi che lo fissavano, alieni, che spandevano scintille. Controllò il titolo del giornale del mattino e fu, così, certo d'essere arrivato «secondo» in quella prima tappa. La cosa non gli dispiacque. Con la scusa di esaminarla meglio, contemplò quella faccia per ore. Si fece buio. Accese una luce, una brutta luce che gli cadeva sulla nuca. Gli occhi scintillanti furono subito due gocce capovolte di buio turgido. Ora si trattava della faccia di una bestia un po' repulsiva che faceva «wawa». Arrivare «secondo» significava esattamente così. Aveva valicato un fiume retrocedendo. Stava, ora, immobile, in piedi (con dolori alle spalle e ai polpacci), sul confine dell'acqua. E dietro, soltanto il sibilo, ma lontano, del vento. Ra aspettava un autunno inclinato a sinistra. E istantaneo. Se di giorno aveva bruséamente girato il volante a sinistra, affrontando imperterrito l'ingiuria di un giovane guerrigliero jamaha, di notte, nel sogno corrispondente, una divisa femminile sbalordita l'aveva obbligato a girare a destra il volante, fino all'estenuazione. Dalla parte opposta, dunque, probabilmente, l'autunno sarebbe risultato prono a destra. Autunno cartaceo, delnigresco, non esattamente quanto sperava. A lui andava bene un autunno anche inconsistente, non tattile, non visivo, ma anzitutto odoroso, e anche fetido, se si vuole, ma, appunto, nasale. Dal cesso, una mattina all'alba, lo raggiunse, nel letto, un richiamo dilagante di puzze ctonie, forse nasa: cape kennedy. Si alzò con spasmi al ventre. Rotolò a vedere. Niente, nulla. Tranne lo specchìo. E nello specchio, una piccola bacchetta verticale. Un ciglio che si stava scrollando, stretto tra le due congiuntive dell'occhio sinistro. Forte bruciore, lacrimazione. Si soffiò il naso con crudeltà viennese e il ciglio volò via. Passò, poi, così, una giornata lievissima, senza attese, senza invisibilità. Che pareva una notte di sogni tranquilli e di lunghi sonni ovali. Il naso si dimenticò di lui e le mani stettero tutto il giorno altrove, senza rompere. Qualche amico veniva a trovarlo a tarda sera senza farsi precedere da specifiche segnalazioni. In queste visite, propriamente, mancava la simmetria dello spazio. Nel senso che se si fosse trattato d'altra occasione, altra interruzione, persona sconosciuta: sarebbe stata la stessa - la stessa «cosa»?. Ra, perciò, era un ospite esitante fino alla scissione, alla scomposizione. Sarebbe bastata una stretta di mano? Un bacetto? Sfiorargli il gomito con una carezza? Le procedure s'impantanavano; il loro volume, crescendo, invadeva il sonno, risucchiava la paura irriflessa annidata nella memoria. Erano, quelle visite, nella sostanza, noiose occasioni di comicità lessicale. Padre protettore: il piccolo gargantua. Per distrarsi dall'incombente assenza dei progetti, scriveva Carnevale, 1905 ca articolatissime lettere all'europa, sull'europa, dicendola, nel succo, responsabile di questo suo stato d'attendente. Nel primo pomeriggio, subito òopo quark, si metteva a letto e si masturbava, pensandosi accidentalmente, compunto. Avvolgeva la ri~tosa colata in cinque rettangoli di scottex. Asciugava. Voltava le spalle e, rannicchiato, clochard, presumeva di addormentarsi. E dunque, poi, quell'addormentatura presunta, la chiamava «pennichella». «Siesta» gli suonava scostante. E intanto, però, dell'autunno neppure «che cosa vi voglio dire?». Neppure uno scotimento della testa. C'erano i doloretti fisici, indizi coi;itingenti della buona salute istantanea. Dovuti, più che altro, all'insuccesso delle operazioni belliche dell'universo circostante. Il libano, per esempio, stava ancora segnato sulle carte, perché così piaceva a tel aviv. Masochismi incomprensibili. Doloretti d'europeo insulare. Sprecava il suo niente in grande, e non visto. D'altrocanto, uno che aspetta senza sapere cosa che potrebbe far meglio se non sprecare al meglio? Si voglia, poi, considerare che la relazione tra «spreco» e «niente» è tu!ta particolare, una specie d'intimità tanto chiusa e impenetrabile quanto vistosa. Sicché, ogni suo più intenso, per quanto casuale, malessere (maldidenti, acidità, colpo distitichezza, reumi): sprofondava immediatamente in una sfera tiepida, lanuginosa, di entusiastiche geremiadi afone. Certe volte, finendo, si accompagnava con un lp di wladimir horovitz. La polonnaise del fu chopin, attualissima, era uno schifo al cianuro. Insomma, veniva, il Ra, esercitandosi in sodomia della sensazione. Più che decadenza o nichilismo interrotto, il suo, era proprio un «malumore della polvere». Dietro la nuvola tossica, a un tratto, ma soltanto per cinque brevi istanti (do-re-mi-fa-sol), comparvero, nitrendo, alcuni tra i più alti pinnacoli dell'autunno. In quel momento, tuttavia, lui stava, delicatissimamente, cercando di pulire i vetri degli occhiali con i polpastrelli (sarebbe quasi più esatto dire: con la peluria dei polpastrelli). Capita. E capita anche così. E se stai particolarmente attento, una particolare distrazione capita che, eccetera. Mishima, con incipriato livore, gli stava parlando male dei vecchi. I vecchi sono un vomito. Anzi, più che dei vecchi, yukio, gli stava dicendo peste e corna di «quel processo che conduce al declino e al crollo». Vedi tu quale fosse, appunto, «quel processo» che comincia dove e quando la forma dell'astro e la forma della cometa, più forte e veloce, s'inglobulano reciprocamente (ià!). Lui, infine, inforcò gli occhiali e guardò fuori. E pensò che a quel giapponesino non era mai venuta per la mente l'idea di appollaiarsi nel principio della primavera per godersi la fine dell'autunno. Mancò, a la debolezza della ragione che consente, come si diceva, un Spreco Forte. O, se si preferisce, un Autunno Immaginario. Sempreché possa considerarsi immaginario l'estremo declino del.millennio, che va dal 193... al 199... , qualche minuto, o ora, prima dello scoccare del 2000 postscriptum natum. E non è poi tanto difficile attribuire alla latinità dei tempi più o meno storici una qualche intrinseca qualità del concetto di immaginario. Non tanto nel senso che «se tutto è coscienza, l'esistenza non può essere provata». Quanto nel senso secondo cui «se stai male, qualcosa o qualcuno fuori di te si lamenta». Ra aspettava l'autunno per .!-Incontrollo di somiglianze. Ra non era propriamente vecchio. Gli ultimi due decenni del secondo millennio indicavano un'estrema decrepitezza del medesimo. L'autunno, per definizione, viene va viene. Perciò: che cosa stava aspettando Ra? Oppure, soltanto col suo starsene così, presumeva di poter contestare radicalmente, e spesso con semplice e per semplice allegria, quanti continuavano a temere l'autunno? Qui si dovrebbe annotare «Ra ruttò. Poi si aggiustò, con tutta la mano, la coglia». In ogni caso, poiché nulla costava, nella lettera pensata (e neppure, per la verità, in quella scritta), l'autunno immaginario venne. Arrivò. Giunse. Fu qui. Eccovelo. Un autunno orizzontale, estesissimo, non, voglio dire, steatopigico. Ra non capì se stava osservando da molto lontano o se, in effetti, quest'autunno fosse un desolato tavoliere. Perché desolato? No, non desolato, ma insomma tale da promettere non poche fatiche per animarlo un po' alla vista. In qualche modo, perciò, peggio che desolato. Poiché Ra, tra l'altro, mancava delle' risorse muscolari dello sciacallo, ovverossia del commentatore, giornalista sociologo poeta o altro felice. Ra era armoniosamente dedito all'inerzia delle dita e dei piedi; il suo immaginario era senza arti e sconnesso, neppure strisciava, era sterile e talvolta inopportunamente chiassoso. Ra non capì se stesse guardando un autunno personalizzato, adattato alla sua clamorosa precarietà motoria, o se stesse cominciando a formulare una specie di sfida. Ma bisogna dire che Ra trovava più agibile il sospetto metafisico che l'esperienza del non capire. Controllò porte, serrature, finestre, saliscendi, rinforzò, richiuse. Aprì il gas. Attese. Ricominciare a sessantanni è indizio di longevo buonsenso e di sana memoria. Da cinquant'anni non si scorgeva, nelle immediate vicinanze, una guerra, una guerricola. Non che tutto e tutti vivessero in pace, anzi: stavano in iperagitazione orientata contro ogni possibilità di insorgenza propriamente bellica, ferrigna, squarciatoria, livellante. Era un subbuglio incessante, noiosissimo. Nella memoria di Ra crebbe e si perfezionò la tecnica del rispetto severo per ogni Dopoguerra. L'autunno atteso e formulato assunse perciò la fisionomia di un tale dopoguerra. Il primo atto di omaggio, nel principio del ricominciamento, da parte di Ra, fu perciò quello di chiudersi in casa ed elaborarsi, nella comoda e attrezzata cucina, un pranzo connotativo, bretone, un fattoriale di pranzo. Ra non aveva mai patito la fame. Bene. Si organizzò un pranzo che potesse persuaderlo del contrario. Si mise a tavola intorno alla mezzanotte, dopo sedici ore di minuetti alchemici. Gradatamente, verso le cinque del mattino, smise di cibarsi. Sazio e persuaso.

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