Alfabeta 1101111 Laboratorio italiano 88/Letteratura pagina 41 Felice Piemontese È curioso, forse, dirlo qui, ma all'origine del romanzo (il primo mio romanzo che non abbia bisogno delle cautelative virgolette che designavano l'eccentricità avanguardistica della definizione) di cui si possono leggere i due primi capitoli in questa occasione, c'è proprio un articolo pubblicato su «Alfabeta». . Un articolo (intitolato A Napoli la zoccola) che ebbe qualche eco, e nel quale mi sforzavo di indicare i sintomi di una malattia che, in un ·certo periodo storico, ha colpito una certa città italiana. Avvertivo, nell'articolo, che una realtà siffatta avrebbe dovuto sollecitare, comunque, ben altri approcci, Ci vorrebbe un Céline, dicevo. Ammesso che ce ne fosse qualcuno in circolazione. Nacque così l'idea di fare un remake de La peste. E, all'inizio, con il tono oggettivo e quasi cronistico della narrazione, mi sono tenuto abbastanza vicino al modello di Camus. Me ne sono del tutto distaccato' in seguito (quanto a Céline, è spesso «citato», all'inizio e in seguito, e ci sono personaggi presi dal Voyage), fino a un finale che è del tutto antitetico e quello de La peste, Il romanzo è intitolato L'epidemia. F.P. L'epidemia ' E cominciata così, questa storia. In una domenica di fine aprile, già molto calda. Quasi estate. Quando è perfino piacevole starsene in città, perché tutti si riversano sulle spiagge fetide a divorare enormi quantità di cibo, a contendersi pochi centimetri di spazio, tra bambini che urlano, radio a tutto volume, sporcizia. Ce ne sono tutt'intorno alla città, di queste spiagge. Distanti pochi.chi- , lometri. Ma per raggiungerle ci vogliono ore, e altrettante la sera per tornare. Ma, insomma, affari loro, di chi ci va. M'è bastato provarci un paio di volte per decidere che non l'avrei fatto mai più, per nessun motivo al mondo. Ma non è di questo che devo parlare. Non ero quella domenica né sulla spiaggia né in giro per la città. Ma nel grattacielo dell'ORTI, nel mio ufficio al quinto piano. Nel mio loculo, usavo dire. Proprio la domenica era l'unico giorno in cui si riusciva a stare abbastanza tranquilli. Di solito. A meno che non accadessero catastrofi. Perché la domenica all'ORTI ci si occupa solo di sport, e chi di sport non si occupa può starsene tranquillo a leggere, a vedere la televisione, a dormire. O, è il caso mio, a fare progetti letterari. Perché ho scritto qualcosa, in passato, e sono convinto che posso uscire da questa situazione di blocco in cui sono da anni, che posso superare questa dolorosa sensazione di impotenza di fronte alla pagina che a volte mi fa star male addirittura. Sono convinto, ho detto. Ma avrei dovuto dire: ero. Perché gli avvenimenti che sono cominciati in quel pomeriggio di domenica sono tanto straordinari da rendere incerto e secondario tutto il resto. Rimanevo in redazione fino alle otto, la domenica. Sempre con la paura che un avvenimento improvviso (com'è accaduto tante volte) mi costringesse all'ultimo momento a trattenermi. Stavo male, da qualche tempo. Peggio del solito. Improvvisi sudori, violente tachirnrdie, forti dolori all'addome. Succede così, quando i nervi cominciano a cedere. I primi tempi, all'ORTI, mi consolavo dicendo che non ci sarei rimasto a lungo, in quella fogna, che me ne sarei andato. E lo ripetevo ancora. Ma sempre meno convinto. E anche questo mi faceva star male. Dovrei avere più coraggio, dicevo. Piantare tutto. Ma a quarant'anni quasi compiuti ... Con una moglie e un figlio... L'alibi di tutti i mediocri. La domenica, comunque, si stava tranquilli. E, alle otto, sono già andati via quasi tutti. Mi avvio dunque lungo il corridoio ricoperto da una spessa moquette marrone. Nessun telefono squilla, nessuna voce concitata mi richiama indietro. Non uso mai l'ascensore, nemmeno per salire. Per le scale, dunque. E lì la sorpresa. Un grosso topo morto, una zoccola come li chiamano qui, nel pianerottolo fra il terzo e il secondo piano. Un topo, all'ORTI, non s'era mai visto ..II palazzo era stato costruito da poco e gli addetti alle pulizie, beh si può dire che erano gli unici a lavorare davvero. Qualcuno prima di me aveva visto la zoccola. E per le scale s'era formata anzi una piccola folla. Usceri, guardie, addetti alla sorveglianza, telefonisti. Discutevano animatamente. Quasi litigavano. Nessuno riusciva a spiegarsi come mai quel topo era venuto a morire proprio lì. E non riuscivano a mettersi d'accordo su come portarlo via. Soprattutto, a chi spettava quest'incombenza. Decisero, alla fine, di lasciarlo lì. Ci avrebbero pensato gli addetti alle pulizie, la mattina dopo. Dal momento che per la loro negligenza si era arr~vati a questo punto. ... Mi fermai poco, in verità. Perché i topi mi fanno schifo. Mi provocano brividi di repulsione. Sia da vivi che da morti. Anche se ero costretto a conviverci. Come tutti i miei concittadini. Perché la zoccola, di questa città, è da sempre padrona. Si diceva che ce ne fossero cinque o sei milioni. Come avessero fatto il calcolo non lo so. Ma forse erano anche di più. Se ne vedevano dappertutto. Grasse e proterve. Uscivano in branchi di centinaia, la sera, per scavare negli enormi mucchi di spazzatura che per giorni e giorni, talvolta per settimane, rimanevano a ogni angolo di strada. I gatti avevano provato a contrastare una simile avanzata. Ma presto s'erano arresi. Troppo numerose, troppo organizzate, le zoccole. In certi spiazzi abbandonati si radunavano a migliaia, la sera. Tante, che si andava apposta per vederle, in macchina, tenendo ben chiusi i finestrini. Sforzandomi di vincere lo schifo, mi avvio verso la macchina. Che parcheggio sempre, anche di domenica quando di posti ce ne sono tanti, a una certa distanza dall'ORTI. Perché mi fa piacere fare qualche passo. Mi distende. Del resto la strada in cui c'è !'ORTI è una delle poche della città larghe e alberate. Passeggiarci è piacevole anche se si disturbano le coppiette che ci vengono di sera e c'è il rischio di prendersi sul muso un preservativo bello pieno. Arrivo alla macchina e trovo, sul parabrezza, un altro topo. Piccolo e magro, questo, ma indiscutibilmente morto, come l'altro. Per poco non mi sento male. Scuoto la macchina per far cadere la carogna, ma non ci riesco. Metto in moto, mi avvio, freno più volte con violenza, fin quando non cade, lasciando sul vetro una macchia rossastra. Mi sforzo di non guardarla, di pensare ad altro. Appena arrivato a casa farò un bagno. Perché è come se le avessi toccate, quelle bestiacce. Cerco di distrarmi. Penso a una storia a fumetti letta Le iene, 1934 tanti anni fa, di uno che conquistava Parigi guidando un esercito di topi. Ténebrax, se non sbaglio. La storia si svolgeva nel métro. Qui non sarebbe possibile. Perché il métro ancora non c'è . .Lo stanno costruendo, ma non sarà pronto prima di trent'anni. Cinquanta, magari. Intanto saremo tutti morti. Per un'esplosione nucleare. Per un terremoto. Per un'eruzione vulcanica. O solo di vecchiaia. Pensare troppo spesso alla morte è segno certo di nevrosi, diceva la mia amica, psicoanalista. E io ci pensavo troppo spesso. Allora. Poi, con tutto quello ch'è successo ... Non c'è molto traffico, per fortuna. Sono tutti sulle strade del rientro, ancora. Accaldati, nervosi, stremati. Arriveranno nelle loro case intorno a mezzanotte, giurando che questa è l'ultima volta. Intanto, qui si cammina spediti. Ed è piacevole. Così faccio un giro lungo, e quasi dimentico i topi. Me ne ricordo solo quando sono nel cortile di casa, mentre parcheggio la macchina. Perché qui ce ne sono sempre, di sera. Li vedo quasi ogni volta che arrivo. Passano velocissimi, diretti a una piccola costruzione semidiroccata che un tempo era l'abitazione del portiere. Ma quella sera non ci fu nessun brutto incontro. E pensai che me ne sarei presto dimenticato, dei due topi, per fortuna. Niente accadde per tre giorni. E quasi me ne dimenticai davvero, delle zoccole, anche se all'ORTI ancora se ne parlava. Ma. devono pur parlare di qualcosa, mi dicevo. Ero teso, irritato. Come sempre. Niente va per il verso giusto, avrei risposto se qualcuno m'avesse domandato perché. Ma nessuno mi domandava niente, in verità. Un mondo servile. D'una idiozia asfissiante. Perciò mi sento soffocare. La gente è stupida. I corpi rimpinzati. Le coscienze rassegnate. Leggevo queste parole e me le sentivo bruciare nello stomaco, nelle viscere, nel culo perfino. E pensavo a quel che la vita avrebbe potuto essere. Al tempo in cui avevo creduto che fosse possibile cambiarla. Provando poi un'atroce disillusione. Da cui non mi sono ancora ripreso. Molti che avevano vissuto come me avevano fatto presto a rassegnarsi. Io no. Perciò vivevo male. Mi rovinavo la salute. Nell'attesa che accadesse qualcosa di straordinario. Cosa, non so. Ma certo non quello che è poi realmente accaduto. Ma è meglio tenersi alla cronaca dei fatti. All'ORTI c'erano dei cani. O meglio, era un gruppo di randagi che si fermavano abitualmente davanti ai cancelli d'ingresso. II personale della sorveglianza li nutriva con gli avanzi della mensa. Nessuno li disturbava, comunque. A una cagna gigantesca, col pelo riccioluto come una pecora, erano particolarmente affezionati. Le avevano fatto fare le vaccinazioni. La portavano dal veterinario se si ammalava. D'inverno la facevano entrare nell'atrio sfidando i divieti della direzioòe perché non avesse freddo. E all'improvviso la cagna morì. Era sdraiata al sole, come faceva di solito. Quasi tutti quelli che passavano si piegavano su di lei per una carezza. A un tratto prese a vomitare un liquido biancastro striato di rosso. Ebbe delle brevi convulsioni, poi non si mosse più. Qualcuno si avvicinò, vide che aveva delle strane piaghe sul torace. Fu chiamato il medico dell'infermeria, perché desse un'occhiata. Disse che una spiegazione non era in grado di darla. Ma che la cosa gli sembrava curiosa effettivamente. Non era un veterinario, comunque. Forse la cagna si era ferita col filo spinato e aveva perso sangue. Chi sa. In ogni caso, un buon argomento di conversazione per i milleseicento dipendenti dell'ORTI che si annoiavano e avevano bisogno di distrazioni. Ma, tornando a casa, cominciai a preoccuparmi. Mio figlio, ch'ero andato a prendere a scuola, mi indicò con aria di schifo, nel cortile di casa, una decina almeno di grosse zoccole, nel casotto semidiroccato. Alcune sembravano già vicine alla putrefazione, e puzzavano orribilmente. Altre erano morte da poco. Qualcuna ancora si agitava negli ultimi spasimi dell'agonia. Ero atterrito, e insieme attratto da quello spettacolo orribile. Arrivò altra gente, che si fermò a guardare. C'interrogammo su quel che conveniva fare. Qualcuno propose di bruciare tutto, ma c'era il problema del fetore. Qualcun altro propose di versare della calce. Forse la cosa migliore è di telefonare all'ufficio di igiene del comune, dissi io, e la proposta fu subito accolta. In realtà, telefonare a un ufficio pubblico, in questa città, è sempre stato un problema, perché nessuno risponde. Ma in quell'occasione risultò del tutto impossibile. Perché il numero era sempre occupato. Telefonai allora all'ORTI, per chiedere consiglio. E mi dissero che avevano avuto parecchie telefonate che segnalavano casi del genere, in diverse zone della città. Avevano parlato con qualcuno del comune, ma senza ottenere spiegazioni soddisfacenti. Forse in giornata ci sarebbe stato un comunicato. Corsi dai miei coinquilini, riferii le ultime novità. Era in queste emergenze che mi guardavano con un certo rispetto. Me n'ero accorto all'epoca del terremoto quando si erano rivolti a me come a un oracolo per sapere se ci sarebbero state altre scosse. Ma adesso volevano che gli dicessi che fare, e io non ne avevo idea, come loro. Alla fine, cosparsero le carogne di alcol e le bruciarono, versando poi per tutto il cortile flaconi su flaconi di disinfettantè. Rientrai in casa seriamente preoccupato. I topi all'ORTI, il cane. E adesso questi. C'era di che allarmarsi, mi pareva. E dio sa se avevo ragione. Ma non riuscivo a immaginare che cosa in realtà stava accadendo. Questa è una città abituata alle catastrofi. Terremoti distruttivi, eruzioni, pestilenze. Epidemie che l'avevano resa quasi del tutto svuotata, nel Seicento. Anche se poi i sopravvissuti si erano prodigati selvaggiamente per farne di nuovo una delle città più popolate d'Europa. Ma come pensare a una cosa del genere, a pochi anni dalla fine del ventesimo secolo, anche se solo tre lustri prima c'era stato il colera, scomparso da decenni in tutto il mondo occidentale? Andai a dormire. E come avevo previsto ebbi per tutta la notte incubi spaventosi. Da ragazzo avevo passato molte notti insonni perché nella vecchia casa in via del Tribunale i topi avevano aperto uno squarcio nella tela del soffitto e aspettavo con terrore che ne cadesse giù qualcuno, e finisse magari nel mio letto. Mi svegliai con la stessa angoscia di allora, sicuro di avere nel.letto alcuni topi morti. Non era vero, naturalmente. Quel che temevo da anni, e avevo disperatamente cercato di evitare, era finalmente accaduto, mt dissi. Sono diventato pazzo.
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