Alfabeta IJ0/111 Laboratorio italiano 88/Letteratura pagina39 ario Pemiola Il testo che segue è l'inizio di un romanzo-saggio dedicato al tema dell'ospitalità, intesa come l'esperienza fondamentale della civiltà occidentale. Contro il rinascente razzismo questo «lavoro in corso» si propone di mostrare l'essenziale estraneità delle quattro fonti dell'Occidente (ebraica, greca, romana e cristiana) a ogni forma di xenofobia. M.P. L'ospite 1 Dopo tanti anni passati a mostrare a se stesso e agli altri di saper riuscire nelle cose del mondo, gli • tornava in mente quel compagno d'infanzia che voleva diventare santo. Nel suo nuovo ruolo di direttore infatti Zar si sentiva a disagio. Suo nonno era stato «il direttore», anzi «il signor direttore»; lui fu sempre «l'ospite» nei_ molti sensi e nelle molte accezioni di questa strana parola. Aveva spesso sospettato che nell'aspirazione alla santità si celasse la pretesa di essere Dio: d'altra parte non poteva nemmeno escludere che dietro la sua volontà di essere uno scrittore si fosse sempre nascosto il desiderio di diventare santo. Altre volte invece vedeva tutto il suo apprendistato alla normalità della vita come l'appagamento indiretto di una pulsione profonda verso la santità. In fondo però le figure del santo, del direttore e dello scrittore, che avevano popolato la sua infanzia, gli sembravano tutte subordinate a quella più indeterminata ed essenziale dell'ospite, quasi che il sacro, il potere e la scrittura affondassero le loro radici ed attingessero la loro linfa da un punto comune, enigmatico ed insondabile, che solo l'esperienza dell'ospitalità poteva illuminare. 2. Ciò che ci colpisce nella parola «ospite» è l'ambiguità che essa mantiene in molte lingue occidentali, nelle quali indica tanto l'ospitante quanto l'ospitato, tanto il padrone che accoglie il forestiero, quanto l'estraneo accolto in casa. Tale ambiguità sembra costituire la prova dell'essenziale reciprocità della relazione ospitale, la quale si determina accidentalmente in un modo o nell'altro, a seconda delle circostanze concrete e delle occasioni. Dall'episodio omerico di Glauco e di Diomede che, sul punto di scontrarsi sul campo di battaglia, scoprono il legame di ospitalità che li collega, fino all'ospitalità rivoluzionaria, che è stata l'esperienza di socialità più intensa della generazione del Sessantotto cui Zar apparteneva, essere ospite vuol dire partecipare ad una rete di relazioni, all'interno della quale vige l'obbligo dello scambio. La stranezza di questo rapporto consiste nell'essere indipendente dalla soggettività concreta delle persone coinvolte. Nell'antica Grecia il sùmbolon, la moneta spezzata in due parti, costituiva il segno di riconoscimento e la prova dell'obbligo reciproco; nell'Europa rivoluzionaria che Zar aveva percorso nella seconda metà degli anni sessanta, questa funzione era svolta dal possesso di qualche raro materiale teorico radicale. In entrambi i casi, l'ospitalità rivelava una propria dimensione istituzionale, la quale non ha nulla che fare con i sentimenti personali o con l'inclinazione dei singoli: Glauco e Diomede si prendono reciprocamente le mani e si scambiano doni, non perché si scoprono improvvisamente simpatici; del resto non era l'odio o qualche altro affetto soggettivo ad animare il loro combattimento. La logica oggettiva dell'ospitalità che li unisce prevale sulla logica oggettiva della guerra, che li vede schierati in campi opposti. Non diversamente, nell'Europa rivoluzionaria degli anni sessanta non si ospitava e non si era ospitati per simpatia o affinità spirituale: non di rado Zar pensava con una certa malinconica nostalgia a quanti stolidi, screanzati ed imbecilli di ogni paese aveva in quegli anni accolto. Le bombe di Milano del dicembre del Sessantanove avevano posto fine in Italia a questa ospitalità rivoluzionaria, in cui, come nell'antica Grecia, spesso si chiedeva nome e provenienza dell'ospite solo alla fine del pranzo: per Zar la prospettiva rivoluzionaria si era chiusa a partire dal momento in cui diventò necessario acquisire la certezza sull'identità sogg;ttiva di chi si ospitava, cioè sul fatto che l'ospitato non fosse un provocatore o un delatore. Del resto la rivoluzione era stata per Zar non tanto un progetto da realizzare, quanto una microsocietà di rivoluzionari d'ogni paese che si riconoscono sulla base di elementi simbolici nel senso letterale del termine, vale a dire esteriori. 3. Spesso m'interrogo sulle ragioni profonde che animano un tipo di socialità tanto stravagante e tanto lontana dalle rassicuranti intimità della stirpe e dell'affetto: esistono condizioni a priori che fondano la possibilità dell'ospitalità? chi è l'ospite prima di riconoscere il partner che lo determi- .. na appunto come tale? da dove nasce l'impulso ad attribuire ad una relazione sociale tanto particolare un rilievo ed un'importanza decisiva? Leggiamo in Platone che gli oltraggi recati all'ospite sono vendicati dagli dei e dagli uomini con maggiore ardore, perché egli è solo di compagni e di familiari. Ospite in greco si dice xénos, che vuol dire anche straniero, e come aggettivo, significa <~orprendente, strano, insolito, ignoto». Da ciò Zar deduceva che la solitudine ha nella nozione di ospitalità un posto altrettanto importante e costitutivo quanto quello occupato dalla socialità: tuttavia deve trattarsi di un tipo speciale di solitudine, più radicale ed essenziale, che appariva a Zar molto arcaica o molto contemporanea. Gli sembrava infatti che le età storiche fossero piene di uomini in compagnia, uniti da legami sociali che sussistevano indipendentemente dal fatto di stare appartati e ritirati: pensava infatti non tanto ai vincoli naturali della famiglia, quanto a quelli culturali della religione, del mestiere, della politica, che, conferendo un'identità sociale, creavano un universo di persone conosciute. Chi è invece essenzialmente e radicalmente ospite e straniero, risulta privo di identità, senza nome o meglio indeterminato e nominale. L'ospite non è qualcuno, ma nessuno; è il luogo della differenza. Zar concludeva perciò, forse non a torto, che solo chi si è fatto nessuno può ospitare e che bisogna aver aperto uno spazio libero in se stessi per poter accogliere, ascoltare, ricevere qualcuno o qualcosa. Scorpione, 1925 ca 4. Tanto nella socialità ospitale quanto nella solitudine dell'ospite percepiamo alcunché di eccessivo, di estremo, di non addomesticabile. Infatti non si riesce a contenere la prima nelle definizioni deboli che la riducono ad una generica buona disposizione verso il prossimo o ad una convivialità blandamente edonistica: l'ospite non è un amico, né un nemico, bensì semmai lo sconosciuto che sopraggiunge all'improvviso chiedendo il riconoscimento con un segno certo, esteriore e tangibile, ma proprio perciò insufficiente a creare una vera intimità. Analogamente la solitudine dell'ospite non può essere considerata come un sereno ritiro dalla turbolenza del mondo, uno stato di ,quiete che consente di vivere a proprio agio senza obblighi e senza impegni: l'ospite è solo, non per propria scelta , ma per l'assenza di legami che fondino in modo inequivocabile il suo essere al mondo; la solitudine dell'ospite è inseparabile da una specie di stupore rispetto a se stesso che lo accompagna per tutta la vita. Tuttavia la condizione ospitale, nonostante il suo eccesso e la sua radicalità, non si presentava a Zar come barbara e selvaggia. Anzi proprio al contrario Zar considerava quanto mai valida la distinzione antica tra popoli ospitali e popoli barbari, la quale individuava il criterio della civiltà proprio nell'accoglienza dello straniero: da tale destinazione egli deduceva che il vero discrimine nella cultura occidentale non è tra oriundi ed ospiti, né tra chi ha la patria e chi è senza patria, né chi è organico e chi è marginale, come una nefasta apologia della terra e del suono natale ha nella modernità fatto credere, bensì tra coloro che sono aperti alla dismisura ospitale propria ed altrui e coloro che sono chiusi nel calcolo della loro identità individuale e comunitaria. 5. Contrariamente all'opinione diffusa che vede nella tradizione locale e nazionale la solida base dell'istituzione Zar sosteneva una peregrina teoria, secondo cui la dimensione istituzionale è un prodotto esclusivo dell'esperienza ospitale. In questo modo egli si poneva anche al polo opposto di quella considerazione ultracritica della civiltà occidentale, molto diffusa negli anni sessanta e settanta, per la quale tutta lé,!nostra civiltà sarebbe caratterizzata da una volontà di dominio e di assoluta padronanza sugli uomini e sulle cose. Naturalmente egli non intendeva negare la presenza di questo aspetto nella nostra storia: ma pensava che un'analisi più attenta avrebbe dimostrato la marginalità e la secondarietà della arrogante aspirazione umanistica alla signoria assoluta sul mondo. A suo avviso, in Occidente la direzione politica, religiosa e culturale, perfino nella forma apparentemente più rude, quella romana, rimandava essenzialmente all'esperienza ospitale. Zar trovava ripugnante attribuire al rapporto con suo nonno aspetti anche larvatamente violenti: non aveva percepito l'ospitalità offertagli dal «signor direttore» come una soggezione, né si era mai sentito «soggetto» in nessuna delle tante accezioni della parola. Giustamente perciò considerava la relazione ospitale come irriducibile al rapporto servo-padrone. Del resto anche considerando il problema da un punto di vista strettamente filosofico, la reversibilità ospitale non è dialettica, ma sta nell'orizzonte della differenza. 6. Che nella casa del «signor direttore» fosse stato non solo l'ospitato, ma anche l'ospitante, Zar lo aveva sempre saputo. Continuava invece ad interrogarsi sulla eccezionalità delle circostanze che determinarono in lui tale convinzione: infatti non è abituale ciò che era accaduto a Zar, il quale aveva preso nascendo il nome, il posto, gli abiti e i giochi di un altro bambino perito tragicamente qualche tempo prima. Tuttavia per quanto singolare fosse stata l'esperienza infantile di Zar, l'idea che i nuovi nati siano copie, simulacri dei bambini scomparsi - perché morti o più semplicemente perché diventati adulti - merita attenzione. Non si tratta di una specie di reincarnazione spirituale: non in questo senso Zar aveva ospitato il suo predecessore. Nessun'anima già pronta gli si era fatta avanti chiedendo un corpo per continuare ad esistere sulla terra: tutt'al contrario nascendo Zar aveva trovato un reliquiario di esteriorità, vestiti con le iniziali, posate d'argento col nome inciso, soldatini e birilli un po' ammaccati, aneddoti e modelli di comportamento già pronti, che chiedevano di essere indossati, di essere animati, di essere agiti. Zar li aveva presi con sé, su di sé, in sé, e in questo senso li aveva ospitati, invece di abbandonarli alla dimenticanza e alla morte; perciò non aveva mai creduto alla creatività spontanea dell'infanzia: il nuovo non nasce che attraverso impercettibili trasformazioni del vecchio, minimi slittamenti del conosciuto, transiti dallo stesso allo stesso. Forse la vita non è che un soffio tenuissimo il quale arriva ad esistere solo se trova e prende qualche spoglia da animare, qualche veste da indossare, qualche condotta da assumere: quando non s'imbatte in nulla, oppure quando rifiuta tutto, è condannata a svaporare via. Zar si era sentito sempre completamente estraneo ad ogni situazione del mondo che consideri la vita come una fonte inesauribile, una infinita forza produttiva, una potenza irresistibile: gli sembrava al contrario che la vita fosse alcunché di estremamente povero e delicato e fragile che doveva alienarsi nelle cose, nella realtà, nel mondo, per mantenersi e svilupparsi. Nell'ambito di tale prospettiva, le forme, le cerimonie, le istituzioni non costituiscono affatto un ostacolo alla manifestazione e alla crescita della vita, ma proprio al contrario sono la condizione necessaria del suo essere: è implicito nell'idea stessa di discendenza il diritto e il dovere di assumere ciò che si trova. Anche la rivolta e la trasgressione sono cose che si prendono già pronte: un bisavolo eroe del Risorgimento condannato a trent'anni di prigione dai Borboni, ed un altro bisavolo animatore di una sommossa popolare contro i piemontesi, avevano nella mitologia personale di Zar altrettanta·importanza quanto il nonno direttore e il compagno d'infanzia che voleva diventare santo.
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