Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

Alfabeta 1101111 gostino chiamava Eterne Verità. E dice che è ora di farlo proprio per non lasciare queste cose in pasto né al Soprannaturalismo, né al Meccanicismo. Individua l'origine del disastro ambientale, del dissidio tra «Mente e Materia» proprio nella incapacità della scienza di prendersi carico del «là dove gli angeli hanno paura di posare il piede». Sostiene che il modo della visione unitaria proposta dalle religioni o dalla poesia è tutt'altro che da mettere in burla: un Dio non da burla, un unmocked God, si nasconde nelle logi'che paradossali e non lineari, metaforiche e da falsi sillogismi delle esperienze religiose. C'è un capitolo splendido in cui cerca di spiegare l'abduzione e insieme l'importanza del segreto («La tua mano sinistra non sappia ... »). Usando magistralmente alcune storie della moderna religione degli Indiani del Nord America, combinandole con aneddoti balinesi e con Le Rime dell'Antico Marinaio di Coleridge viene fuori l'ipotesi che il segreto nella religione come nella poesia o nella conversione (la conversione alla bellezza del marinaio che aveva ucciso il gabbiano) corrisponde al «salto» dove è necessaria l'abduzione, al salto tra due livelli «incommensurabili», così come lo sono tra di loro il fenotipo e il genotipo nella «logica» della evoluzione. L'impressione della lettura di~ venta maggiore quando Bateson dichiara che sta scrivendo per salvare dalla «volgarità» questi temi, dalla stessa banalizzazione da «New Age» che in quel momento lo ospita e lo circonda. Bateson aveva scelto infatti di ritira.rsi «per morire» a Esalen, in questo «paradiso californiano» della psicologia umanistica, dell'entusiasmo un po' mistico della «Unità» e della cultura «olistica». Gregory vuol chiarire che lui con quel mondo non c'entra, anche se è un mondo di amici e di serena compagnia; viene fuori una irriducibile tempra di pensatore, uno che non si accontenta di ricette, che si definisce «materialista», ma invita a continuare nel rintracciare «un Dio non da burla», il legame vitale e pensante che sta in una popolazione di alberi, come di babbuini, di batteri o di persone. David Miller in una ottima recensione sul «New York Times Book Review» del novembre dello scorso anno ricorda che alla fine della sua vita Bateson affermava «che non possiamo andare molto avanti se non riconosciamo che tutta la scienza e la tecnologia[ ... ) scaturisce e ricà~e nella religione» e che l'unità tra i processi mentali, quelli culturali e quelli biologicj era ed è comprensibile in metafore, che molto spesso hanno a che fare con la religione. E sempre per Bateson la metafora non è «una graziosa poesia, né una buona o cattiva logica, ma proprio la logica su cui il mondo biologico è stato costruito, la caratteristica principale e il legante, di questo mondo di processi mentali». Si tratta per Angels Fear, dunque, di un ultimo appello «per una storia naturale delle relazioni tra le ideè». E però, nota sempre Miller, Bateson in Angels Fear non fa nessun gesto di invasione banale in un territorio della cui mappa dà solo un accenno. Per il resto lo dichiara: «Non credo a spiriti, dei, diavoli, fate, leprecauni, ninfe, spiriti dei boschi, spettri, poltergeist o in Babbo Natale (anche se imparar~ che non c'è nessun Babbo Natale è forse l'origine della· religione)». La religione di Bateson, consiste qui nell'instancabile chiedersi e nella umiltà nell'accettare le risposte e la loro parzialità, il contrario insomma di quanto religione e scienza, ognuna credendosi indipendente, hanno fino a oggi fatto. Gregory Bateson Mary Catherine Bateson Angels Fear towards an epistemology of the sacred Macmillan, New York, 1987 Gli eroi dei miraggi Bruno Ventavoli D opo aver fallito una guerra d'indipendenza, dopo aver alimentato flussi migratori di esuli illustri, pronti a morire per le cause della libertà in tutte le parti del mondo, dopo aver subito una dura repressione con quell'efficacia e quella capillarità, propria degli Asburgo, in Ungheria accadde qualcosa che regalò un periodo d'oro, e pose le basi per una successiva coscienza nazionale inquieta, per un inestinguibile senso di amarezza: nel 1867, Francesco Giuseppe veniva riconosciuto legittimo erede della corona di Santo Stefano e incoronato re d'Ungheria, oltre che imperatore d'Austria. La monarchia ungherese otteneva così diritti quasi pari ali'Austria e veniva investita di un importante ruolo politico-amministrativo nelle zone orientali dell'impero. Come sosteneva il romanziere Zsigmond Kemény, i magiari infatti costituivano nel centro d'Europa una nazione forte dal prestigioso passato storico e culturale, ma non preponderante dal punto di vista numerico. Da una parte rappresentavano un baluardo contro il prevalere della cultura tedesca, e dall'altra erano un ostacolo al panslavismo: i magiari avevano allora un insostituibile compito di mediazione da svolgere nella regione centroeuropea. Quest'Ungheria prospera e felice fu un miraggio che durò poco, appena qualche decennio. Tutto finì con la grande guerra, e con un trattato di pace durissimo con i vinti. L'Ungheria dopo il 1918, Cfr venne ridotta a circa la metà. E insieme alle terre perdute se ne andarono anche i sogni di un progetto non solo politico della magiarità. E proprio la breve vita felice del dualismo, il miraggio di quell'armonia plurinazionale delle zone centroeuropee della monarchia di Santo Stefano, con tutte le sue atmosfere idilliche, nostalgiche, pacatamente ironiche, sono il campo d'indagine di Gianpiero Cav;glià che, nel libro Gli eroi dei miraggi, ha analizzato la stagione del romanzo magiaro dal Millenario alla repubblica dei consigli. Il 2 maggio 1896 l'imperatore Francesco Giuseppe inaugurava le celebrazioni del «Millenario», per festeggiare i mille anni dell'arrivo di Arpad sulle piane pannoniche. Nella pittura accademica del tempo, nel grande sfoggio di costumi nazionali, nell'esposizione commemorativa di richiamo internazionale, c'era non solo l'esaltazione (forse insensata, come pensava Musil ne L'uomo senza qualità) di una nazione ormai consolidata nell'assise delle potenze europee, ma anche un grande omaggio alla Streghe, 1915 ca tradizione nobiliare, a quella classe sociale che aveva attraversato i secoli, resistendo per un millennio e che proprio ora, era destinata a scomparire. L'Ungheria infatti si stava rapidamente trasformando in nazione «occidentale», che abbandonava il suo aspetto patriarcale e agrario, che stava cioè dissolvendo il tessuto vitale per le classi magnatizie. Il mondo della nobiltà, assediato da ogni genere di inattese sollecitazioni, si stava lentamente sgretolando, stava progressivamente perdendo la propria ragion d'essere storica, per trasformarsi in un mondo rarefatto di miraggi, di crisi, di valori al tramonto. Gli ultimi decenni dell'Ottocento, caratterizzano quella che è definita l'era del tardo dualismo, l'era in cui la grande monarchia sta per spegnersi: cadr~ con la ferita mortale inflittale dalla grande guerra. In questo periodo l'Ungheria vive in bilico tra il proprio passato e le spinte moderniste. Da una parte la modernità si presenta con forza impetuosa, dall'altra lo specifico magiaro, la forza della tradizione, continua a restare particolarmente viva, in una nazione dalle tradizioni millenarie così differenti dal resto dei popoli che la circondano. Proprio da questa dialettica di modernità e tradizione nasce quell'atmosfera culturale e spirituale che forgia il mondo letterario tra XIX e XX secolo. Un mondo letterario sterminato e di difficile comprensione per il lettore occidentale che poco conosce la letteratura magiara. Per un lettore al quale è giunto ben poco, e in piccoli frammenti eterogenei tra di loro: le commedie leggere degli anni trenta, la letteratura «femminile» di Kormendy, I ragazzi della Via Pal, l'affascinante simbolismo di Endre Ady, le nostalgiche atmosfere di Margitt Kaffka, o le sfumate nostalgie liriche di Gyula Krudy. Un universo infinito, grazie anche alla prolificità di tutti gli autori ungheresi, giornalisti e scrittori di professione, che si sono lasciati alle spalle chilometri di «opere complete» rilegate, adatte a ornare gli scaffali di una borghesia cittadina particolarmente avida di libri da consumare. Un mondo letterario complesso, dove è arduo distinguere il pennivendolo dall'autore, la semplice parafrasi del romanzo francese e inglese, dall'autentico capolavoro. Il grande sforzo critico di Gianpiero Cavaglià è dunque quello di intuire lo specifico del romanzo ungherese del tardo dualismo. Di individuare da una parte le ragioni che ritardarono lo sviluppo di questo genere letterario, e dall'altra di spiegare l'essenza della sua originalità. Ma non solo. Gli eroi dei miraggi prende posizione: distingue ciò che vale, ciò che è dotato di un eterno spessore artistico, da ciò che invece viene travolto dal susseguirsi delle mode e dei gusti, e viene dimenticato. E lo fa con scelte coraggiose, smentendo talvolta la tradizione della scuola marxista di origine lukacsiana, e le prospettive della critica primonovecentesca. Il romanzo in Ungheria nasce tardivamente. E la ragione del suo ritardo è da ricercarsi nella base materiale della letteratura: in quella società fondamentalmente . agricola e patriarcale, (priva cioè pagina 33 di quella poliprospetticità e di quella complessità sociale che il romanzo moderno richiedevano), che sentiva una spiccata vocazione per la ballata popolare o per la grande epica nazionale. Ma dopo questo sfasamento temporale, anche il romanzo ungherese cercherà di trovare un suo linguaggio e una sua forma peculiare. E saranno i grandi scrittori dell'Ottocento, primi fra tutti Jokai e Mikszath, a fondare gli strumenti linguistici e strutturali del nuovo genere. Nell'epoca del tardo dualismo la maggior ·parte degli scrittori ungheresi si orienterà invece verso l'imitazione delle grandi correnti letterarie dell'Europa occidentale, come il naturalismo e il realismo, finendo però col perdere le radici con la propria situazione specifica nazionale. I nuovi romanzi scritti secondo il gusto francese o inglese ottennero successo di pubblico e di critica, ma essi appaiono oggi fortemente datati, fortemente viziati da una fedeltà stilistica a qualcosa di eteronomo che pregiudica irrimediabilmente il valore dell'originalità. Essere in bilico tra le mode occidentali e la tradizione «orientale» è sempre stato lo specifico della situazione ungherese. Non solo nelle tribune letterarie e nelle diatribe teoriche, ma anche in vere e proprie strategie stilistiche. Ma proprio coloro che costruirono una brillante carriera «internazionale», che riuscirono con la versatilità della loro scrittura a superare le anguste barriere provinciali di una letteratura «minore», furono anche quelli più esposti all'oblio. Basti, tra tanti, citare l'esempio di Ferenc Molnar, tradotto in tutto il mondo, accolto dai palcoscenici di mezza Europa, e poi irrimediabilmente dimenticato. Coloro che, al contrario, esaltarono la componente «magiara», che dimenticarono con caparbia ostinazione tutti gli stimoli provenienti dall'Occidente, pur avendo conquistato grandi consensi negli strati conservatori della società del tempo, sempre sensibile all'esaltazione della magiarità, scomparvero invece dalla memoria letteraria per il verso opposto. Gli eroi dei miraggi è chiaro su questo punto: il valore del romanzo ungherese moderno, il capolavoro, è il frutto di un equilibrio e di una mediazione interna. Quando il romanzo si è sbilanciato troppo verso Occidente, verso il moderno, è scivolato verso un'insostenibile leggerezza letteraria, facilmente cancellata dal passare del tempo. Quando invece si è ancorato all'Oriente, al fascino di una tradizione passata, è diventato un improponibile blocco monolitico di esaltazione nazionalistica. La grande letteratura ungherese è quella che riesce a mantenersi in bilico tra Occidente e Oriente, che riesce a mantenere intatto il ruolo di mediazione proprio della nazione magiara, tenendo presente però anche il destino storico, e le prospettive temporali. La grande letteratura è quella che, nel momento in cui la modernità ha corroso per sempre la funzione politico-storica della grande monarchia di Santo Stefano, si volge a mantenere vivo un mondo sepolto, con una coraggiosa coscienza dell'inattualità: dandogli la forma del miraggio e della deriva lirica. Gianpiero Cavaglià Gli eroi dei miraggi Cappelli, Bologna, 1987 pp. 156, lire 16.000

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==