Alfa beta li 01111 Legge il testo di Mandela? Non ai giudici che lo hanno condannato e tantomeno all'attuale governo sudafricano, che continua a praticare l'apartheid. Che la decostruzione sia un «orizzonte d'attesa»? O forse la trascendentalità del dialogo resta un limite troppo teorico (o troppo «economico») per far presa su una realtà che, più che sollecitare al colloquio suscita in noi rabbia e impotenza? Jacques Derrida Psyché. Inventions de l'autre Paris, Galilée, 1987 pp. 652, FF. 290 Signéponge Paris, Seui!, 1988 pp. 122, FF. 69 Profili del moderno Francesco Fistetti ,, E possibile indagare la modernità iuxta propria principia, vale a dire al di fuori di schemi di valore (e di valutazione) rigidamente predeterminati che pretendano di costringerne la complessa e contraddittoria trama di significati nella camicia di forza di filosofie della storia teleologicamente orientate (siano esse di segno progressivo o catastrofico)? È l'impresa che Carlo Galli ha tentato, con esiti plausibili, nel suo libro Modernità. Categorie e profili cntlci relativamente a quella tradizione teorico/politica che egli qualifica come «momento hobbesiano», ossia una costellazione molto variegata di autori e tendenze ideali che da Hobbes a Kant, dal positivismo alla Allgemeine Staatslehre sino alla sua interna dissoluzione nella riflessione novecentesca (Weber, Schmitt, Jiinger, Arendt) ha assunto come oggetto privilegiato della teoria (e della prassi) politica il «problema (hobbesiano) dell'ordine» (secondo una felice espressione di Parsons). In questa prospettiva, la rilevanza strategica di Hobbes risiede nell'aver egli portato allo scoperto il bisogno (se non addirittura la fame) di forma da cui è assillata l'epoca moderna, una sorta di horror vacui che la macchina dello Stato è incaricata di colmare senza riuscirvi del tutto. La creazione nichilistica (da intendersi letteralmente come creazione ex nihilo) del nuovo ordine politico avviene nel vuoto spalancatosi con il crollo degli ordini «naturali» e stabilizzanti del passato. La fame di forma e la conseguente ossessione dell'unità danno vita a uno spazio della politica affatto artificiale (perché frutto di decisione e di una volontà di costruzione), rivolto a mettere fuori gioco e a neutralizzare il disordine. Ma non per questo lo spazio in questione è uno spazio integralmente macchinico e, per così dire, autoregolantesi. In esso permane una tensione costante, quasi strutturale, alla forma unitaria, una tensione produttiva di differenze funzionali da «semplificare» sempre_di nuovo in una sorta di perpetuum mobile volto a congiungere continuamente logica dell'unità e logica della differenza. Che questa tensione abbia un'intrinseca connotazione metafisica, nel duplice senso di un ricordo incancellabile (o di un «oblio attivo», come direbbe Nietzsche) del fondamento compatto e sostanziale dell'ordine pre-moderno, e dell'aspirazione progettuale della ratio a (re)instaurare un equivalente o un supplemento efficace del fondamento, è quanto Galli si sforza di dimostrare. Paradossalmente, sin dagli albori dell'epoca moderna come epoca dello Stato, l'altra faccia della ragione come calcolo è proprio una tensione metafisica e ontoteologica (come direbbe Heidegger) che ne scandisce dall'interno la vicenda storica. Paradigmatiche risultano, in proposito, le categorie (e le corrispettive dinamiche), reciprocamente intersecantesi, della sovranità e della rappresentanza. La figura hobbesiana del sovrano è maschera, artificio tecnico che sovrasta, fino a oscurarla, la «persona» concreta e «gloriosa», dunque persona ficta, e, in quanto tale, crea l'unità politica del popolo, il quale attinge la sua esistenza dall'atto e nell'atto rappresentativo. Di qui, secondo Galli, la radicale infondatezza o, diremmo, l'abissalità costitutiva della rappresentanza politica moderna, il suo connaturato carattere di «finzione» (sia pure efficace). La rappresentanza diventa reale attraverso l' «immagine», nel senso che il popolo «esiste come uno soltanto in quanto decide di produrre la propria immagine, sdoppiata rispetto alla propria esistenza, eppure condizione di quella esistenza» (p. 62). Si potrebbe aggiungere che, se la moderna esistenza politica rappresenta qualcosa che non c'è (il fondamento-sostanza), allora il riferimento a questa assenza da presentificare per via artificiale fa della rappresentanza politica moderna una mimetologia, in cui, tuttavia, l'immagine non ha più un originale, ovvero un referente reale a cui adeguarsi meccanicamente. È quanto, del resto, lo stesso Galli riconosce quando rileva che il rapporto tra ordine e disordine, tra Cfr teoria e prassi, tra idea e realtà nel Moderno non si dà mai nei termini di una pura e semplice corrispondenza, bensì come irrisolta «tensione all'adeguazione» (p. 12). L'epoca dello Stato - che è anche l'epoca della cittadinanza - coincide, pertanto, con l'«epoca dell'immagine del mondo» (Heidegger), ove «autorità moderna» suona espressione palesemente ossimorica, dal momento che l'auctoritas è fondamento fondato su nulla e il nuovo nomos della terra (Schmitt) che essa intende instaurare incorpora al suo interno come molla propulsiva e autodistruttiva la sua stessa negazione (la società, il non-Stato, o le terre del nuovo mondo), da cui logicamente viene a dipendere. Ciò spiega anche perché con Hegel si produce quella che la Arendt (alla quale Galli dedica uno dei suoi profili critici più riusciti) chiamò l'evasione dalla politica nella storia. Con Hegel, infatUomo legato alla roccia, 1920 ca ti, la Storia diviene la massima personificazione astratta dell'autorità: nella Storia la trascendenza del fondamento che in Hobbes conservava una qualche figuralità concreta nella «persona» del sovrano s'inabissa nell'immanenza irresiduale della dialettica storica, ove alla categoria del «processo» (come movimento dell'Aufhebung) viene affidato il superamento di ogni ordine fisso e sostanziale (compreso l'ordine statuale con i suoi fragili equilibri tra ragione amministrativa e ragione politica, tra individualizzazione e integrazione). Ma se la soluzione hegeliana - e su un registro più prosaico il pensiero liberale - riusciva ancora a imbrigliare in una teoria della Bildung e dell'auto-legittimazione dell'epoca moderna le controfinalità prodotte dalla tendenza alla scomparsa della politica come sovranità «personale» e alla conseguente sostituzione con tecnostrutture vieppiù anonime e sofi-. sticate, dopo il primo conflitto mondiale la divaricazione tra razionalità e valori, tra politica e tecnica - magistralmente diagnosticata da Weber - diviene un dato di fatto incontestabile. Sotto questo profilo, il tema weberiano del capo carismatico, l'insistenza schmittiana sulla necessità della decisione esistenziale come solo vettore di azione politica e la figura jiingeriana dell' «operaio» quale forma di potere adeguata ali' età della tecnica, più che espressioni di un'involuzione bonapartistica e cesaristica delle democrazie liberali del XX secolo, rappresentano piuttosto delle risposte eroicamente disincantate - e al limite della disperazione - alle sfide devastanti della tecnica e al destino ineluttabile del nichilismo. Queste posizioni nascono, dunque, dalla presa d'atto estremamente realistica che è pura utopia regressiva voler restaurare, come si proporranno in seguito Voegelin e Strauss, la politica come «scienza dell'ordine». Nella lucida accettazione del nichilismo compiuto il bisogno di forma si ripresenta, secondo Galli, in nuove guise, mentre la politica moderna, lungi dall'estinguersi, rivela tutta la sua carica morfogenetica smentendo chi vorrebbe condannarla a una sorta di assioma di chiusura e a una deriva entropica inarrestabile. Carlo Galli Modernità Categorie e profili critici Bologna, il Mulino, 1988 pp. 259, lire 30.000 pagina 31 Vargas Llosa dal romanzo al teatro Antonio Melis N egli ultimi anni Mario Vargas Llosa si è dedicato con una certa costanza al teatro (dopo avere ottenuto nella narrativa, con una presenza più che ventennale, un risultato di qualità riconosciuta). Ha iniziato nel 1980 con la La sefiorita de Tacna, al cui centro sta il ruolo della memoria, e della scrittura in quanto strumento della memoria. Due anni dopo, con Kathie y el hipop6tamo, ha riaffermato il carattere programmaticamente illusorio del teatro, nonostante la complicazione rappresentata dalla presenza corporea degli attori. L'ossessione della scrittura è stata riproposta direttamente sulla scena. Con La Chunga (1985), il primo di questi testi teatrali che viene tradotto in italiano, si riconferma la natura mediata e iperletteraria della sua operazione. La Chunga, infatti, nasce da una costola del romanzo La Casa Verde, che nel 1966 confermò il grande talento narrativo dello scrittore peruviano, dopo l'esordio folgorante de La città e i cani. La Chunga compare già in quel romanzo, così come il gruppo di amici, che si sono autodefiniti «gli inconquistabili» e passano la maggior parte del loro tempo di sfaticati nel locale gestito con pugno di ferro dalla donna. Nel testo teatrale viene isolato e messo a fuoco un episodio particolare nella vita monotona della taverna. Attraverso la finzione scenica si cerca di ricostruire, da diversi punti di vista, l'evento che ha scatenato l'immaginazione degli «inconquistabili». Uno di loro, infatti, ha «affittato» alla Chunga per una notte la sua donna del momento, la bella Meche, per far fronte a una mancanza di denaro che non gli permette di continuare a giocare. Le sue donne stendono un complice velo di silenzio su quanto è avvenuto tra di loro quella notte. Questa incertezza agisce come un potente detonatore sulla fantasia maschile, affascinata ed eccitata dal mistero dell'omosessualità femminile. Da tale situazione scaturiscono diverse ipotesi, che si traducono in altrettante ricostruzioni immaginarie della scena occultata. Vargas Llosa ha dovuto risolvere un problema di tecnica teatrale per rappresentare questa duplice dimensione. Si è trovato così ad affrontare praticamente una questione che ha affascinato negli ultimi tempi la sua immaginazione critica. Come ricorda Ernesto Franco nella sua introduzione di notevole respiro teorico, lo scrittore è particolarmente impegnato, in questa fase, nello sforzo per conferire al teatro le stesse possibilità di rappresentazione globale raggiunte dal romanzo. Il prospettivismo che lo anima è per certi aspetti analogo, ma in questo caso non esiste nessun fondamento «oggettivo» per le diverse ricostruzioni. Inoltre, il teatro deve cercare degli strumenti propri per rendere sulla scena i due piani su cui si svolgono i fatti «reali» e immaginari. L'autore sfrutta a questo scopo un procedimento spaziale. Nell'osteria della Chunga, erede del postribolo de La Casa Verde, il locale a pianoterra dove si svolge l'eterno rituale degli «inconquistabili» e la camera della padrona al piano superiore esemplificano vi_;
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