Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

Alfabeta 1101111 Geometrie dionisiache Roberto Pasini L a ricerca artistica sta attraversando attualmente un momento di transizione. Ci si trova cioè a fare i conti con una serie di proposte innovative rispetto al «paradigma» precedente, come direbbe Kuhn, senza che però si sia ancora giunti alla stabilizzazione (che è sempre concetto transitorio e metaforico) di un determinato stile, di una ben identificabile tendenza. Di tale parere sembra essere anche Lea Vergine, quando afferma che «vi sono dei 'luoghi' ma non formano un sistema, piuttosto una sorta di cartografia instabile». Sui «luoghi», ognuno ha ovviamente le proprie opinioni, ma è indiscutibile una serie di fattori che sono venuti al centro dell'attenzione nell'ultimo biennio e che costituiscono il terreno sul quale si sta muovendo l'indagine artistica e la critica che ne tenta la decrittazione. Innanzitutto, emerge la disaffezione nei confronti della pittura, per lo meno della sua interpretazione specifica: dopo un decennio in cui si era tornati «a pensar con le mani» e a sciorinare forme e colori con dovizia insospettabile, la veste più consona all'opera in questo momento pare essere quella di una certa nudità, una sobrietà che, se non rifiuta la pigmentazione pittorica, però la convoglia a una sorta di complicità con lo spazio, in una unione talora fertile e persuasiva fra la componente bidimensionale e quella tridimensionale. In secondo luogo, ed è un corollario, tace la problematica del «citazionismo», magna pars degli anni ottanta: la sindrome postmoderna, banca-dati di un passato deliberatamente ri-usato, con dolce raffinatezza o con pesante godimento, lascia il passo a una zona franca in cui non è più possibile parlare di postavanguardia, ma forse mancano ancora i cardini per legittimare un rinno_yatoe deflagrante spirito avanguardistico. Infine, si rileva, secondo declinazioni particolari, un prevalente interesse per i materiali, tanto che le opere dei giovani artisti sono per lo più costituite di lamiere, ferro, acciaio, piombo, marmo, legno oltre che di opzionali pigmentazioni. Si ha così un panorama in cui affiorano esigenze di pulizia, di rigore, in una sensibilità che non a torto è stata definita neo-minimale, anche se tutto ciò non si dà come pura struttura, perché spesso intervengono elementi arbitrari, felicemente casuali, imprevedibilmente ironici. Forse il modo più idoneo per identificare un tale status è di usare un ossimoro: come fa Lea Vergine, in cui le polarità dell'ordine e del disordine, dell'essen~iale e dell'esistenziale, si muovano liberamente. Detto questo, occorre reperire il momento di inizio della nuova facies. La mostra della Besana offre due elementi: le opere esposte sono tutte degli ultimi tre anni, tranne un solo caso, e dei ventitrè artisti, compresi fra i venticinque e i trentacinque anni, solo quattro comparivano nella grande rassee gna sugli Anniottanta tenutasi nel 1985 (Lodola, Merlino, Nunzio e Violetta). Il discrimine va dunque posto nel 1986, anno nel quale si può ritenere esaurito lo Zeitgeist che aveva retto le sorti della «presenza del passato». In quell'anno, infatti, si sono avuti i primi segni del mutamento, anche se proposte alternative alla dominante citazionista non erano mancate lungo il percorso, ed è cominciata ad affiorare nel dibattito la problematica del superamento degli anni ottanta. Le strade intraprese sembrano convergere verso una sorta di disincanto nei confronti del «fare», come se ancora una volta gli artisti rifiutassero ogni costrizione e vidimazione proveniente dalle strutture canonizzate della produzione. La mostra di Milano documenta bene l'uscita dai ranghi, il nuovo sconfinamento, che trova un riscontro puntuale nei lavori di Carboni e Barone, i quali lavorano lo spazio conciliandolo con una buona dose di tattilismo, un poco come fa Di Palma, i cui legni si animano per fisionomie e sottili armonie di superficie. Più freddi, quasi imperscrutabili nelle loro ritrosie mentali, Guaita e la De Lorenzo, mentre Catelani insinua nei suoi marmi intensi il fascino di un archetipo quattrocentesco e Alex Corno costruisce sculture con materiale di recupero, guizzi di un eros metallico. Mazzucconi e Quartana recedono, forse più di tutti, a un mentalismo disincarnato; mentre Lodola, che viene dalla fortunata formazione dei Nuovi futuristi, gioca Cfr ostre con le sagome di una silenziosa festa in plexiglas. Ecco poi le sindoni in vetro e catrame di Antonaci, le gustose e scanzonate instaUazia. nidi Arienti, i pieni di Caropreso, cui fan da contraltare i vuoti filiformi di Ferrara, le installazioni di Habicher e di Corneli, le terrecotte di Violetta, gravide di tracciati, pur nella loro semplicità, le lamiere contorte di Palmieri, veri cartocci d'esistenza all'interno di strutture inflessibili, e poi i legni combusti di Nunzio, un'archeologia della mente, i legni concavi di Zelli, i marmi affusolati di Lucilla Catania e le pitture (a dir il vero poco assimilabili all'insieme delle proposte) di Turchet e Merlino. È uno spaccato significativo del panorama attuale, in cui la nuova generazione cerca di giocare le sue carte uscendo dagli schemi sisteTitolo di racconto, 1903 ca matici della pittura, grazie a un lessico spigliato, se non proprio «dionisiaco», o per lo meno conscio di una nuova proiezione dell'opera nello spazio, e quindi della necessità di un'articolazione che le faccia correre l'alea della durezza, dell'effrazione, dell'irrigidimento. L'arte giovane si esprime quindi sulla frequenza dei valori tersi, secondo un intento di levità. È un viaggio verso le essenze, nel tentativo di ripulirsi dalla «lunga estate calda» degli anni ottanta. Geometrie dionisiache In Italia oggi l'arte giovane A cura di Lea Vergine Milano, Rotonda della Besana maggio-settembre 1988 Catalogo Fabbri Editori Biennale del sud Michele Sovente A nche il Sud ha adesso la sua Biennale d'arte. Essa, a scanso di equivoci, non è da vedere come un tentativo inconscio di auto-emarginazione, ma come bisogno di dialogo e di confronto da parte di artisti che solitamente restano esclusi dal dibattito culturale nazionale. Questa Biennale nasce a Napoli, in una sede assai significativa, l'Accademia di Belle Arti, che si offre come legittimo polo organizzativo e promozionale di avvenimenti artistici di vasta portata, facendo leva sia sul suo ruolo istituzionale, sia sulla sua prestigiosa tradizione: è il caso di ricordare le «Biennali Borboniche», dal 1826 al 1859, organizzate, appunto, dall'Accadelia partenopea sotto la sanzione del!' Accademia Reale. C'è dell'altro. Con questa manifestazione di gran livello tale istituzione scolastica rivendica il diritto a vedere rivalutata la sua funzione culturale e a essere considerata alla stregua dell'Università: annosa e spinosa questione, questa, che il Ministero della Pubblica Istruzione ancora insiste a trascinare avanti, senza minimamente sforzarsi di trovare una soluzione ragionevole, facendo finalmente uscire le Accademie di Belle Arti dal limbo in cui sono confinate da decenni. L'istituzione della Biennale del Sud, quindi, vuole anche essere una chiara dimostrazione dell'effettiva incidenza da parte dell' Accademia di Belle Arti nel campo pagina 25 della ricerca artistica. Fatta questa doverosa premessa, è bene inoltrarsi nel vivo del discorso metodologico così come emerge dal modo in cui la Biennale del Sud: Rassegna d'arte contemporanea è stata ideata e allestita. La Commissione di critici formata da Michele Bonuomo, Vitaliano Corbi, Gilio Dorfles, Giorgio di Genova, Filiberto Menna, Lea Vergine, ha invitato quaranta artisti meridionali, con lo scopo primario di evitare un'ammucchiata tipo Quadriennale, pur riconoscendo l'esistenza di un «altissimo numero di artisti validi operanti nelle regioni che si estendono dalla Campania alle isole». I quaranta artisti sono: Pietro Consagra, Lucio Del Pezzo, Emilio Isgrò, Luigi Mainolfi, Costantino Nivola, Vettor Pisani, Antonio Trotta, Mathelda Balatresi, Renato Barisani, Enrico Bugli, Mario Colucci, Salvatore Cotugno, Gerardo Di Fiore, Carmine Di Ruggiero, Piero Guccione, Nino Longobardi, Annibale Oste, Mimmo Paladino, Augusto Perez, Mario Persico, Gianni Pisani, Rosanna Rossi, Domenico Spinosa, Ernesto Tatafiore, Elio Washimps, Angelo Casciello, Pino Chimenti, Loredana D'Argenio, Gaetano Di Riso, Tommaso Durante, Lino Fiorito, Francomà, Ignazio Gadaleta, Carlo Lauricella, Giovanni Leto, Paolo Lunanova, Gianna Maggiulli, Lello Masucci, Giuseppe Panariello, Angelomicheie Risi. A un primo rapido giro d'orizzonte, si nota la presenza massiccia di artisti decisamente sperimentali - alcuni di essi fanno ormai parte della vicenda artistica contemporanea, tout court - che affondano le radici in una cultura estetica che si pone al di là dei confini regionali, attingendo a piene mani all'astratto, all'informe, a una poetica di marca costruttivistica, in cui sono assenti gli astuti calcoli di mercato, i bassi ammiccamenti alle mode e scorrono gli umori, tra risentiti e sanguigni, tipici di una realtà etnica, antropologica intrisa di passioni e disincanti, di un sottile compiacimento mortuario e di uno spirito ludico e beffardo, di un rapporto vitale con la materia e di un caparbio colloquio con il magma, i movimenti tellurici, i paesaggi assolati, le forme sfuggenti. Questo discorso vale sia per gli artisti storicizzati, nelle cui opere agisce prevalentemente una tensione evocativa, introspettiva - si vedano, in, particolare, Consagra, Guccione, Spinosa, Colucci, Gianni Pisani, Di Ruggiero - sia per le nuove leve, quarantenni e trentenni, situati sul versante di un mélange linguistico che include il cosiddetto genius foci e una più oggettivata coscienza del mito, dell'arcaico, del polimorfo: si impongono all'attenzione, da questo punto di vista, Mainolfi, Paladino, Casciello, Oste. La varietà dei materiali usati è il segno di una ricerca inquieta, inarrestabile, Si va dal legno alla plastica, dall'alluminio alla gommapiuma, con effetti provocatoriamente «teatrali»: sono da ricordare Di Fiore, Cotugno, Tatafiore. Là dove, invece, il discorso si fa più concitato in chiave

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