Alfabeta 110/111 una descrizione del sistema di valori implicito nelle pratiche sociali, come una «fenomenologia della morale» (Aubenque), radicata da un lato nella contingenza della condizione umana, dall'altro nella tradizione culturale condivisa dai greci. Come derivare tuttavia norme e prescrizioni da un siffatto atteggiamento fenomenologico-descrittivo? Aristotele è ovviamente ignaro dei divieti che nel nostro secolo pensatori come Moore e Weber avrebbero opposto a questa derivazione, ma gli è tuttavia ben presente il problema di fondare filosoficamente la trasformazione di un approccio descrittivo in quel sistema di norme che costituisce un'esigenza non eludibile del suo pensiero etico. Egli dispone tuttavia, in questo senso, di un efficace dispositivo di soluzione del problema: quello offerto da un'antropologia fondata sulla struttura ontologica della natura, che gli consente, secondo le parole di Engberg, di costruire «una delle più potenti versioni del naturalismo etico». L'infrastruttura teorica del pensiero aristotelico può, da questo punto di vista, venir ridotta a una serie tanto limitata quanto efficace di mosse. La prima consiste, com'è noto, nella definizione quasi-zoologica di uomo come «animale per natura politico» (EN, I, 5; Poi., I, 2), che costituisce non a caso il connettivo antropologico tra Etica e Politica. L'uomo è dunque per natura - cioè per essenza - l'animale che vive nella polis: al di fuori di questa dimensione costitutiva non c'è spazio per una forma di vita propriamente umana, ma soltanto per quelle divina o bestiale. Lo stesso possesso del logos, il linguaggio/ragione, che è specifico dell'uomo, ha essenzialmente una destinazione etico-politica: esso serve infatti «per comunicare l'utile e il nocivo, dunque anche il giusto e l'ingiusto» (Poi., I, 2). La costituzione della polis, del resto, se è un evento che accade nel tempo, non appartiene tuttavia alla contingenza della storia ma alla necessità dei processi naturali. La polis è quella «forma perfetta di comunità» che «esiste per natura», rappresentando il telos che orienta e conclude il processo naturale di formazione (genesis) (Poi., I, 2). Ed è «per natura» che la specie umana è dotata di un «impulso» verso la costituzione di questa comunità, in cui la sua essenza risulta compiuta e dispiegata (Poi., I, 2). Descrivere i modi e i valori della comunità politica significa dunque per ciò stesso anche prescrivere la normalità naturale della specie umana; come giustamente ha osservato Mcintyre, «le forme di vita della polis risultano normative rispetto all'essenza della natura dell'uomo», che in esse, e solo in esse, giunge al proprio telos. Lo spoudaios aristotelico costituisce perciò la norma morale concreta e vivente, perché esso rappresenta esemplarmente il livello perfetto di adeguamento alla forma di vita politica, la normalità naturale dell'animale uomo nella sua eccellenza. C'è, come vedremo, tutta una serie di deviazioni, di décalages possibili rispetto a questa norma, ed essa costituisce l'insieme dei «vizi» previsti dall'etica aristotelica. Molti di essi sono parziali, tollerabili e correggibili. Ma all'estremo opposto dello spoudaios, la condizione di coloro la cui kakia, il cui rifiuto del sistema dei valori sociali supera i limiti della normalità umana è propriamente quella della «bestialità» ferina (theriotes). Diffusa presso i barbari, com'è naturale, essa può anche venir causata fra i greci dalla malattia o dalla follia (EN, VII, 1). È certo comunque che l'estremo errore morale, la devianza sociale danno luogo, secondo Aristotele, a una sorta di patologia antropologica, a una teratologia della specie'. Se la virtù politica costituisce l'essenza della specie, il suo rifiuto comporta - oltre la malvagità - l'uscita dalla condizione umana in generale; la norma etica discrimina in questi casi limite non il buono dal cattivo, ma l'uomo dalla bestia, il sano dal malato, il ragionevole dal folle. E per questi pseudo-uomini degenerati, malati e pazzi non servono, dice Aristotele, i discorsi dell'etica: occorre piuttosto «la punizione Laboratorio italiano 88/Saggistica medica o politica» (EE, I, 3), cioè il «castigo» del farmaco o la «cura» dei tribunali. Il passaggio dalla descrizione alla norma (nel senso precipuo, ripetiamo, di «normalità»), trova così in Aristotele la sua condizione di possibilità e il suo fondamento nel riferimento alla polis come telos essenziale della natura umana. Questa saldatura etica fra l'esistente e il fine, il fatto e il valore, viene immediatamente caricata, com'è tipico del pensiero aristotelico, di una peculiare connotazione estetica. Il telos, dice altrove Aristotele, in natura «occupa il luogo del bello» (De part. an., I, 5). La sua realizzazione morale è dunque «bella» più ancora che doverosa, anzi in un certo senso doverosa perché bella: «le azioni secondo virtù sono belle e finalizzate al bello (kalon)», (EN, IV, 2). L'atto supremo del coraggio, ad esempio, consiste nella «bella morte» in guerra per la polis (EN, III, 9). Radicata com'è in una specifica forma di vita, quella del cittadino spoudaios, che costituisce la modernizzazione della vecchia kalukagathia aristocratica, l'etica aristotelica non può che incorporare la sua valenza estetica - contribuendo così al consolidarsi di quella concezione della morale come «stilizzazione dell'esistenza» di cui ha parlato Miche! Foucault. [... ] to sociale, l'etica dell'autonomia ragionevole, che Aristotele aveva proposta a questa figura, appariva ora soverchiamente indebolita. Essa non poteva sostituire quel fondamento con alcun riferimento «forte», dunque salvifico, al Bene/trascendente, all'Anima immortale, alla divinità provvidenziale. Avendo creduto di poter fare a meno di tutto questo, l'etica aristotelica finiva per apparire, in un tempo di crisi sociale e morale, muta, incapace di promesse di liberazione e salvezza. La stessa figura eminente del filosofo~ che essa aveva costruito non senza contraddizioni, risultava priva di attrattive, giacché il vertice della sua conoscenza, la divinità cosmologica, era più oggetto di studio che di amore e di fede, e configurava quindi il suo cultore non come un «saggio» capace di sottrarsi al destino umano, ma come un sobrio studioso della natura. Perduto così rapidamente il suo richiamo sociale, l'etica aristotelica venne trasformandosi, nell'antichità, in un'etica della scuola, legata in primo luogo ai suoi professori: essa garantiva la superiorità della loro forma di vita rispetto a quella pratico-politica da cui essi erano ormai comunque esclusi. E legata inoltre alla intellettualità I succhiatori, 1903-1904 2. Un'etica per tutte le stagioni? L'etica aristotelica venne sottoposta a una prova severa dal variare della situazione sociale e delle esigenze culturali. Come ha notato Kramer, «Aristotele è stato uno degli ultimi ad aver creduto a un'intatta etica della polis; questa veniva comunque già allora vista in una retrospettiva idealizzante ed era sul punto di divenire antiquata». Ma l'anacronismo di Aristotele non sta tanto, o soltanto, nel parlare di una polis non più esistente (giacché la città dei liberi e degli eguali, governata dalla legge-ragione ed esente da conflitto, non era storicamente mai esistita). Esso sta piuttosto nell'adesione a un'autorappresentazione ideologica della città che un tempo aveva giocato un suo importante ruolo progettuale ma che si era venuta logorando fino a non apparire più condivisibile, sia per le sue contraddizioni interne sia per la sua inadeguatezza al mutamento storico. Il mondo dei regni ellenistici, con i suoi sovrani divinizzati alla maniera orientale, i suoi subitanei rovesci di fortuna, i suoi orizzonti insieme più larghi e più precari, lascia poco spazio al pensiero di una polis autonoma, stabile, moralmente compatta. E ancora meno spazio alla raffigurazione di un modello d'uomo ricco delle molte libertà aristoteliche: un io libero di governare le passioni, un cittadino libero di effettuare le sue ponderate scelte politiche, nel dibattito assembleare come in quello interiore, un individuo libero perché non assoggettato all'ingombrante volontà di un monarca, degli dèi, del fato. Privata del suo fondamenurbana delle professioni, che vi poteva riconoscere i tratti di un soddisfacente ethos pubblico e privato, tanto da incorporarli volentieri nei propri codici deontologici: l'architetto di Vitruvio, il retore di Cicerone e Quintiliano, l'astrologo della Tetrabiblos di Tolomeo, il medico di Galeno assomigliano per molti aspetti, nei limiti della loro morale professionale e del loro rapporto con il pubblico, allo spoudaios aristotelico. Il destino storico dell'etica aristotelica non si arresta tuttavia a questa condizione, alquanto marginale benché importante, che le fu propria nell'antichità, e neppure ai numerosi prestiti che ne attinsero visioni più suggestive come quelle epicurea, stoica e neoplatonica. A più riprese, dal Medioevo fino a noi, essa sarebbe tornata a proporsi come la forma «normale» della ragione pratica. Nonostante gli agguerriti avver- , sari via via incontrati - lo spiritualismo platonizzante e cristiano, lo stoicismo, il kantismo, le dialettiche di matrice hegeliana, i nichilismi - l'etica aristotelica, con la sua potente tenacia, avrebbe potuto sempre di nuovo venir pensata, sub specie aeternitatis, come capace di descrivere la condizione morale «naturale» dell'uomo urbano nella sua società. Questa straordinaria capacità di tenuta nonostante il suo costitutivo radicamento in una situazione storica determinata, o meglio in una sua immagine ideologica, si deve certo alla forza e alla compattezza concettuale delle analisi aristoteliche. Ma si deve, inoltre, al peculiare statuto che Aristotele aveva assegnato a queste analisi. pagina 19 L'uomo e la società cui esse si riferivano erano sì storicamente definiti, ma, attraverso la fondazione antropologica, erano resi pensabili come l'uomo e la società in generale, atemporali e perpetui come la natura e l'essenza. Ancora, l'indagine aristotelica era sì una riflessione sulle doxai, le opinioni condivise dalla tradizione morale e dall'ethos collettivo dei greci del IV secolo; ma proprio questo carattere metalinguistico, invece di consegnarla alla sua determinatezza storica, la sottraeva al rischio soggettivo e relativizzante di una «presa di partito», per stabilizzarla invece nella forma di una teoria razionale, e destorificata, delle convinzioni e dei comportamenti morali degli uomini in società, di una loro possibile sistematizzazione consapevole e non conflittuale. Questo doppio invito aristotelico è pienamente raccolto dal neoaristotelismo contemporaneo. Esso tenta di rispondere a un «bisogno di etica» reso acuto, da un lato, dalla crisi delle diverse forme di evoluzionismo dialettico (il «corso del mondo» non sembra necessariamente coincidere con il trionfo dei valori), dall'altro dalla insoddisfazione per la radicale sterilità valutativa di esperienze come la sociologia weberiana e la filosofia analitica anglosassone. C'è dunque, in primo luogo, l'esigenza di riaprire lo spazio per una discussione razionale, sottratta all'arbitrio della forza, sugli scopi e i modi dei comportamenti privati e collettivi, sulla possibilità di ordinarli a valori comuni: un'esigenza che sembra largamente soddisfatta dai presupposti della filosofia pratica di Aristotele. Interrogata più da vicino, essa sembra del resto offrire qualcosa di più di questo spazio: e cioè molti elementi per una critica al. moderno (volta a volta riconosciuto nello spirito dell'Illuminismo o del giacobinismo, oppure nello sviluppo industriale, nella burocratizzazione, nel capitalismo e nel socialismo). Di questa utensileria aristotelica vien fatto un uso variegato. Spesso, il suo impiego è nettamente conservatore, come accade per l'antiegualitarismo di Leo Strauss, o, in Germania, per l'hegelismo senza dialettica di Gadamer e soprattutto del suo allievo Bubner (che se ne servono per rifiutare lo sviluppo, il progetto, l'utopia, in nome di un ritorno alla tradizione, all'eticità autofondata della prassi esistente). Altre volte, come in Riedel e Hoffe, se ne tenta una qualche ricomposizione con il «moderno», specie nella versione kantiana; o addirittura, una sorta di rivestimento progressista, come nella singolare formula di socialismo medievaleggiante suggerita da Maclntyre (Aristotele, Trotskij e San Benedetto). Di norma, comunque, il neoaristotelismo non sfugge alla critica di rappresentare una va- • riante del moderatismo conservatore, e magari reazionario, quale quella formulata in Germania dalla scuola di Habermas e nel mondo anglosassone da M. Burnyeat. Troppo spesso però questa critica si arresta alla constatazione di un rifiuto del moderno, proprio del neoaristotelismo, oltre che dei caratteri ovviamente inaccettabili che la filosofia pratica di Aristotele mutua dal suo tempo, come la legittimazione della schiavitù, il declassamento morale del lavoro, la selezione di una figura forte dell'umano a danno di altre (la donna, il giovane, lo straniero). Accusare di questo Aristotele non significa molto più che accusarlo di essere legato alla tradizione culturale greca, almeno nella sua versione egemone. Altri interrogativi, intorno al senso di una riattivazione dell'etica aristotelica, appaiono teoricamente più fondati. Intanto, il suo carattere destorificato, fondato sulla transizione antropologica, fra società e natura, con la conseguente impossibilità di pensare un ordine dei fini trascendente l'esistente; poi, la sua incapacità di pensare il conflitto dei valori e di «prender partito» rispetto a essi; ancora, la sottrazione della questione dei fini morali e politici a una vera discussione razionale, affidati come sono al condizionamento sociale della volontà. A partire di qui, il confronto della filosofia contemporanea con l'etica aristotelica potrebbe diventare più problematico, e più fruttuoso.
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