pagina 18 del concetto di dialogo è avvenuta in gran parte all'insegna di un'ideologia del sociale. Si è elaborata una nozione di dialogo che direi congressuale o collettivistica - il dialogo come concerto ( concordia discors o discordia concors). Tale concetto ha evidentemente la sua giustificazione, tradizione, uso. Ciò che qui importa però è indicare che non è questa la nozione di dialogo presente in una filosofia silenziaria. (Quest'ultima si richiama, per intenderci, al dialogismo di Buber piuttosto che a quello di Baxtin.) La mediazione tra silenzio e dialogo è l'ascolto. Quando l'ascolto diviene il perno fondamentale del dialogo, allora è del dialogo nella sua forma più semplice ed essenziale che si parla: nella forma cioè di un logos scambiato tra due persone. Per quanto problematico sia l'io, non è questo il nodo fondamentale nell'universo dialogico: il vero problema è il tu. (Wer bin ich und wer bist du? suona il titolo di un libro di Gadamer.) Chi è, questo tu? Può essere il tu dell'amico, il tu dell'amante, il tu di Dio. Ma non può essere semplicemente un aggregato di queste tre entità fondamentalmente diverse - sotto pena della banalizzazione (frequentissima oggi) del concetto di dialogo. Non si tratta di compiere, una volta per tutte, una scelta esclusiva; è solo che di volta in volta occorre aver chiaro allo spirito con chi si stia dialogando - donde il ruolo strategico dell'ascolto. In breve. Il silenzio consente all'ascolto di svilupparsi pienamente; a sua volta, l'ascolto esteso permette di compreqdere sempre meglio chi veramente sia, di volta in volta, colui al quale ci rivolgiamo, o che a noi si rivolge. Ci si può chiedere, a questo punto (e la domanda può essere posta in modo ironico o - come io la formulo - in tono serio: la differenza non è poca, ma l'urgenza della domanda resta in entrambi i casi): se tutti e due gli interlocutori tacciono e restano in ascolto, come si può avere un dialogo? La risposta è, ancora una volta, che tutto dipende da che tipo di dialogo si tratti. Per un dialogo in stile duellante, un dialogo come sticomitìa, l'obiezione appena citata è inquietante; ma un tale dialogo è in fondo una caricatura di dialogo. In un dialogo profondo, tacere ascoltando significa inQueste pagine sono estratte dal capitolo su Aristotele di una Storia dell'etica antica che sto scrivendo per l'editore Laterza e che verrà pubblicata nel 1989. Il libro nel suo insieme è centrato sulle grandi «scene» della problematica morale antica (il conflitto dell'Iliade, il pensiero della città, della politica e della legge, la «scoperta» dell'anima, il fato, le passioni, il piacere... ), e sui maggiori nodi del pensiero etico (Platone, Aristotele, gli stoici, i neoplatonici). Il racconto segue la vicenda dei tentativi e degli scacchi dell'etica antica nel loro contesto storico e nella loro articolazione concettuale; ma tiene anche d'occhio i «ritorni» moderni di quella vicenda, il suo senso in rapporto agli interrogativi pressanti della riflessione contemporanea. M.V. Storia dell'etica antica S i può a ragione avvicinare la virtù aristotelica alla Sittlichkeit hegeliana contrapponendola alla Moralitiit kantiana. Hegel approva in effetti, in una celebre pagina della Fenomenologia, quella «virtù antica che aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un fondamento pieno di contenuto nella sostanza Laboratorio italiano 88/Saggistica nanzi tutto che lo scambio si svolge a un ritmo più lento - è un dialogo disteso e pausato. Ma vi è di più. In ogni dialogo umano, tertium datur - vi è un terzo che ascolta. Ciò mostra tra l'altro che la coppia io - tu, se lasciata in questi termini generali, non esprime l'essenza del dialogo. Fra ogni io e tu umani vi è un altro Tu - ma a questo punto il pronome di seconda persona (per quanto abituale esso sia divenuto nella retorica della preghiera) to. Ma naturalmente il rapporto non è semplicemente simmetrico. Se un Ente Divino è in ascolto ogni volta che si ha un dialogo tra due esseri umani, possiamo forse dire che un essere umano stia all'ascolto ogni qual volta un altro essere umano parla con Dio - come se sempre vi fosse un Amleto che origlia non veduto la preghiera di re Claudio? L'assurdità di questo è evidente; ma forse non altrettanto ovvio è il perché ciò sia assurdo. StudiBompiani ...... " ·-I • ~ .. . . . . . .. . . ....... ~ .. . .. . . . . .. . . . ...·.·.·.·.·..··..· ·. ·...·... ·. ·..... · ··..·. . . ......... . ................................................................................. - ... ., " ...... ....... ..... ......................................................................................................................... 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Si potrebbe esprimere questo anche dicendo che in ogni dialogo tra due un terzo sta in ascoldel popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente», ben diversamente dal «pomposo discorrere» della virtù dei moderni, che pretende vanamente di opporsi al «corso del mondo» (C.AA, V, B). 1. Un'etica tra società e natura Che la posizione aristotelica venga condivisa da chi si schiera, hegelianamente, per una «autolegittimazione oggettiva» della morale, o viceversa criticata da chi vede il conformismo conservatore dietro i suoi processi di conformazione alla virtù, è comunque certo che essa assume come punto di riferimento incrollabile la morale incorporata nelle regole della vita arbana proprie della polis storicamente data. Ne è prova ulteriore il carattere ostensivo, non bisognoso di alcuna ulteriore fondazione e legittimazione, del criterio etico proposto dalla Nicomachea. Nella filosofia pratica, come sappiamo, non c'è posto per alcuna rigorosa derivazione delle norme dai princìpi; occorrono qui «regoli flessibili», criteri duttilmente adeguati alla variabilità delle circostanze entro cui si è chiamati a prendere le decisioni comportamentali, ed essi vanno reperiti all'interno del «fatto», della realtà quotidianamente sperimentata. Il «criterio» sarà dunque costituìLa ragione è che non si ha veramente dialogo tra l'uomo e Dio. L'essere umano che dialoga con Dio è una figura retorica - essenzialmente una variante della figura di prosopopea - che alcuni mistici (per esempio, la Beata Angela da Foligno, Santa Caterina da Siena) si permettono per rendere plasticamente evidente ciò che nella sua essenza è un rapporto d'ascolto. Dio non partecipa in alcun dialogo perché Dio è il fonto dal comportamento effettivo di una figura socialmente riconoscibile e approvata per la sua conformità agli standards morali condivisi. C'è un tipo d'uomo serio e virtuoso, lo spoudaios, che costituisce - dice a più riprese Aristotele - «il canone e la misura» del comportamento morale (EN, III, 6), che è in questo campo «misura di ogni cosa» (IX, 5). L'additare un personaggio, un tipo sociale, e il suo comportamento, come modello e criterio di arete, può a ragione esser considerato, secondo il suggerimento di Aubenque, come un'eredità dell'universo morale omerico. Nel mondo contingente dell'agire umano, il riferimento alla figura ostensibile, familiare dello spoudaios sostituisce quello che in Platone era il troppo rigido e astratto richiamo al bene; sociologicamente, questo nuovo «eroe morale» si lascia agevolmente riconoscere, come ha scritto Adkins, nello stile del gentiluomo ateniese. Del resto, Aristotele nomina esplicitamente «Pericle e i suoi simili» come i rappresentanti di quella figura dell'uomo saggio e prudente, il phronimos, che è uno dei volti dello spoudaios (EN, VI, 5). L'operazione aristotelica è tuttavia più complessa: essa allude certamente a un preciso referente sociologico ma non si lascia ridurre a questo soltanto. I_n effetti, se Alfabeta 1101111 <lamento di ogni dialogo. Udire è obbedire, per una relazione etimologica che non funziona solo per il latino (si veda l'esempio dell'arabo), non per via di un rapporto politico, o burocratico, o nemmeno psicologico ma per un nesso originale di cui l'etimo è il riflesso. Più precisamente: l'etimologia qui (come molto spesso accade in tali casi) dev',essere ampliata - tanto che finisce con l'esser rovesciata. Etimologicamente oboedio è una parola composta che si propaggina a partire dalla radice di audio. Ma ciò che qui ci interessa non è in che misura l'atto di obbedire derivi dall'atto di udire, bensì il contrario: in che senso l'atto di udire possa essere illuminato, quanto alla sua natura profonda, dal trasparire in esso dell'idea di obbedienza. È vero che l'obbedire implica, come sua condizione necessaria anche se non sufficiente, l'aver udito; ma ciò non ci porta molto lontano. Assai più significativo è il nesso seguente: l'udire continuato e approfondito porta all'ascolto, e l'ascolto, non è (sol)tanto che porti all'obbedienza - ascolto è obbedienza. L'ascolto infatti implica la subordinazione dell'ascoltante a qualche cosa che è più grande di lui. Dio non esaudisce le preghiere dell'uno piuttosto che dell'altro per la semplice ragione che Dio «audisce» - voglio dire: ode, ascolta - tutti, sempre, in-differentemente. Dio è il Silenzio Assoluto che, come tale, rende possibile ogni forma di ascolto; a sua volta, solo l'ascolto fonda il dialogo; a patto che ci si renda conto che l'ascolto è un lungo processo piuttosto che un atto occasionale. Vivere l'ascolto in questo modo, infatti, è l'unica via per veramente costruire il dialogo. Ma si può andar oltre questo stadio. L'uomo veramente immerso nel processo dell'ascolto comincia, o poi o prima, a non ascoltare più parole bensì il silenzio implicito in ogni ascolto. Non, si badi, il silenzio del suo ascolto (ciò costituirebbe una limitata esperienza solipsistica); ma il Silenzio generale che nutre ogni ascolto. Si ascolta - o meglio, si dovrebbe ascoltare - sempre in silenzio. Ma, al di là di questo stadio, l'ascolto in silenzio (processo silenzioso) può divenire ascolto del silenzio - dunque, processo silenziario. lo spoudaios funge da criterio di virtù, è perché egli ha scelto di vivere secondo virtù: l'endiadi spoudaios kai arete è più volte ripetuta nel testo aristotelico (EN, 1166a, 12s., e più nettamente EE, II, 11). Da un lato, la centralità sociale del cittadino spoudaios, amministratore della famiglia e della polis, è legittimata dalla sua esemplarità morale; dall'altro, questa esemplarità è imposta dal ruolo sociale. Un protagonista ambiguo, dunque, che conferma comunque - con la sua funzione di criterio e misura della virtù - il radicamento dell'etica aristotelica nell'ethos della polis esistente, e chiude, insieme con l'opera formativa del padre e della legge, l'orizzonte storico-sociale cui è delegata l'assuefazione alla pratica virtuosa e la sua trasformazione in carattere moralmente consolidato. [... ] La circolarità del criterio proposto dallo spoudaios, fra sociologia e morale, rinvia immediatamente a un problema più generale dell'etica aristotelica, il problema della norma. Quel criterio non dice mai, in effetti, perché un certo soggetto dovrebbe compiere una certa azione, ma soltanto che co- . sa si deve fare in determinate circostanze onde l'azione risulti socialmente accettabile, e come farlo. In opposizione all'ansia normativa tipica del pensiero platonico, l'etica aristotelica si è così presentata come
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