Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

Alfabeta 110/111 Presento qui alcune pagine tratte dalla parte iniziale del mio prossimo libro, provvisoriamente intitolato Il fiore intelligibile: Saggio di filosofia silenziaria, e in esergo al quale apparirà probabilmente questo passo della Filosofia caldaica di Proclo: «[. .. ] se Colui che manifesta un essere che è più indicibile è detto Logos, necessariamente prima del Logos dev'esserci il Silenzio che fa sussistere il Logos f. ..] Quando gli intelligibili si tacciono, regna il Silenzio». P.V. Il fiore intelligibile D all'antichità a oggi, hanno preso forma due critiche del linguaggio umano significativamente diverse. Una di esse (che possiamo chiamare critica razionalistica) tenta di discriminare fra usi corretti e usi scorretti del linguaggio; l'altra (come chiamarla? critica spiritualistica?) revoca in dubbio l'adeguatezza del linguaggio umano come tale, al di là di ogni questione di uso appropriato. I due tipi di critica non sono sempre nettamente distinti, specialmente in opere di letteratura. Per esempio, entrambi si trovano nella Commedia dantesca - ma il modo razionalistico è quello predominante; così che la Commedia - chiaramente, per non dire ostentatamente, poema della visione - non è però primariamente un poema mistico. Entrambi i modi critici son permeati di retorica- l'ossigeno dell'espressione linguistica. La sola differenza è che la metaretorica (ovvero, la retorica della retorica, che a volte si manifesta - come ho mostrato nel mio Ascoltare il silenzio pubblicato da Il Mulino nel 1986 - come retorica dell'antiretorica) tende a essere più radicale nel caso della critica diciamo così spiritualistica. Ma anche all'interno di questa critica radicale la retorica persiste - com'è eloquentemente (appunto ... ) dimostrato da tutta la letteratura mistica. In questa prospettiva di critica radicale si inserisce la presente ricerca. Un discorso sul silenzio può realizzarsi come: 1. un tessuto di contraddizioni, 2. una prolungata metafora, 3. lo svolgimento di un paradosso, 4. una mescolanza di tutti e tre gli elementi appena elencati. Quest'ultima via è la più frequentata nelle correnti discussioni del silenzio. Ma un tale eclettismo non è soddisfacente: non si può scegliere fra queste tre possibilità. Che il discorrere del silenzio non sia contraddittorio è indicato di primo acchito da una vasta letteratura saggistica, specialistica, filosofica, sul tema del silenzio. Quando si affronta questa vasta letteratura si scopre però che la nozione di silenzio è usata predominantemente in modo metaforico, per esprimere il senso di esperienza al limite delle possibilità umane, in particolare, l'esperienza della poesia; e, dentro di essa, l'esperienza della poesia che concettizza piuttosto che concettualizzare (per dirla all'inglese, che usa conceits piuttosto che concepts) il tema del silenzio dentro il suo discorso. Per mettere veramente a fuoco il problema del silenzio non vi è che una mossa: considerarlo come un paradosso. Cioè: le propo'rzioni che si possono enunziare a proposito del silenzio non sono contraddittorie (non si può provare che esse siano false), né sono semplicemente metaforiche; sono invece paradossali: vale a dire, esse sono tali che accertare la loro falsità è egualmente difficile che stabilire la loro veridicità. Un discorso sul silenzio, dunque, realizza un paradosso fondante o fondamentale. L'ostacolo importante sorge a questo punto. Laboratorio italiano 88/Saggistica Paolo Il modo originario, che costituisce ancora un punto di riferimento fondamentale, per realizzare il paradosso del silenzio è di considerarlo come il punto massimo cui si può giungere nella contemplazione di (o: colloquio con, o: ascolto di) Dio. In questo senso, il paradosso del silenzio può essere fruttuosamente interrogato solo all'interno di un discorso mistico; esso sembra spostare imperiosamente da parte il discorso delalesio filosofi moderni. Ogni considerazione del silenzio eh; voglia, conservando la mistica come punto di riferimento fondamentale, non limitarsi tuttavia a essa - ogni discussione dunque che voglia essere filosoficoletteraria, che intenda sviluppare un'ermeneutica del silenzio - deve scontrarsi con ammonimenti come questo di Kierkegaard, già nel 1849: «[... ] in effetti, tu non dovrai dire assolutamente nulla, non comDonna nuda incinta, 1900 ca la storia culturale e della critica letteraria, non solo, ma anche ogni analisi filosofica e teologica di tipo razionalistico. Dunque, il paradosso del silenzio è una questione di mistica; come è stato stabilito, tra il quinto e il sesto secolo dopo Cristo, dal misterioso autore che ha creato il termine stesso di «teologia mistica» - lo Pseudo-Dionigi Aeropagita; e la situazione è di poco cambiata, da quei tempi fino alle osservazioni dei piere nemmeno il minimo tentativo, che renderebbe impossibile l'istruzione nel silenzio, di mescolare stoltamente e insensatamente (invece di mantenere il silenzio sul serio) silenzio e linguaggio, magari come soggetto di discorso, così che non vi sia più traccia di silenzio, ma al contrario emerga un discorso ... sull'essere silenziosi». E poche righe più innanzi: «È vero che il linguaggio del poeta è enormemente diverso pagina 17 dal comune linguaggio umano; esso è così solenne che, in paragone al linguaggio umano comune, esso è quasi come il silenzio; pur tuttavia, non è silenzio. Il silenzio del poeta non tenta di essere muto; al contrario, tenta di esprimersi come linguaggio ... come parla un poeta». Il riferimento è a Soren Kierkegaard, Christian Discourses ecc., a cura di Walter Lowrie, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1971. Ebbene: Amicus Kierkegaardus, sed magis amica veritas... con timore e tremore, debbo però correre il rischio, e sviluppare un discorso in cui il silenzio sia luogo di interpretazione. In primo luogo va notato che la critica che si sarebbe tentati di fare sulla supposta difficoltà del paradosso del silenzio dal punto di vista dell'apparentemente ovvia solidità di un discorso fondato sulla parola cade non appena ci si rende conto che la parola è il luogo di un paradosso ancor più inquietante di quello del silenzio. Usare il linguaggio infatti per parlare criticamente di strutture linguistiche (ovvero, impiegare il linguaggio come metalinguaggio di se stesso) è un paradosso di cui la filosofia moderna (Heidegger, Wittgenstein tra altri) è ben consapevole, Rispetto a tale paradosso, quello del silenzio è meno insidioso: la parola si presta a incorniciare criticamente il silenzio appunto per la natura diversa dei due fenomeni. Studiare la parola con la parola (via dell'umanesimo tradizionale) o il silenzio con il silenzio (via del misticismo integrale) implica un massimo di vicinanza (dunque una forte possibilità di interferenza). Studiare il silenzio con la parola consente invece un massimo di distanziazione, dunque riduce le possibilità d'interferenza. È questa la ragione di fondo per cui la ben nota loquacità dei mistici - che tematizzano sopra tutto il silenzio - risulta essere un paradosso fecondo, non una contraddizione. In effetti la letteratura mistica, se da un lato è parte del territorio investigato dall'analisi silenziaria, dall'altro costituisce il modello epistemologico di tale analisi. E questo, non in virtù di alcun teologhema particolare (l'analisi silenziaria può anche essere atea), ma semplicemente per il fatto che la letteratura mistica è il più vasto e raffinato corpus di analisi oggi esistente in cui la parola sia impiegata per studiare il silenzio. Una volta chiarito ciò, come svolgere un'analisi silenziaria che riconosca la sua parentela spirituale, il suo dialogo costante e il suo debito epistemologico verso il discorso mistico, ma che non sia semplicemente una variante all'interno di questo discorso? In sintesi: il concetto centrale di questa analisi silenziaria è quello del silenzio come interruzione; concetto che la distingue dal discorso mistico, dove il silenzio è presente essenzialmente come plenitudine. Quando si parla, infatti, di silenzio come interpretazione, il concetto di interpretazione del silenzio e quello di interpretazione per mezzo del silenzio sono inestricabilmente legati; ma da entrambi i punti di vista, il silenzio come plenitudine ha una forza schiacciante che non lo rende direttamente usabile per l'interpretazione (il che non significa che esso sia inutile). Preciso ulteriormente. Propongo un'idea del silenzio come congiunzione dell'interruzione con l'ascolto. Il modello, al fondo, è semplice: una persona interrompe il suo discorso per ascoltare il discorso di qualcun altro. Il concetto di silenzio infatti non esclude quello di dialogo - anche se non si tratta di gettarli entrambi dentro il recipiente di un eclettjsmo generico; la mediazione è molto complessa e delicata. La ripresa moderna

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