pagina 10 puerpera viene imposto un tempo di isolamento e solo al suo termine essa viene riammessa alle funzioni sociali precedenti alla maternità. Solo allora la fase del suo rapporto col «reale» della nascita si presume finita e iniziata invece quella del dimenticare. Ma dimenticare che cosa? Forse dimenticare non è il termine esatto per indicare qualcosa che è difficile trasformare in parola. E come definire, peraltro, qualcosa che non si sa dire ma che si sa di aver provato? Chiamiamolo: «dimenticare il reale». Malgrado la sua possibile fascinazione, malgrado il richiamo che a volte può suonare come un mortifero canto di sirene, quel periodo in cui la vita e la morte si impastano in un coacervo indistinguibile, non può essere ricordato se non attraverso la malattia (le forme «psicotiche» che come ho detto, si manifestano in occasioni di una gravidanza o di un puerperio). In genere, però, per quanto inquietante, il contatto intimo, fisico, delle donne col «reale» della nascita e della morte è contenuto nella rete simbolica della struttura familiare e sociale: al bambino viene dato un nome che lo mette in relazione col mondo e lo sottrae per il tempo della sua vita al puro destino biologico. La madre, dal canto suo, separandosi progressivamente da lui, imparerà a sopportare la responsabilità della sua morte e, forse, a riconciliarsi con l'ineluttabilità della propria. In fondo la maternità non è forse un'esperienza di impotenza? Lo è, anche se immaginariamente può essere fantasticato il contrario; come onnipotenza e compensazione di una mancanza. Oggi però, l'avanzare delle tecniche di fecondazione artificiale rende più complessa per le donne l'esperienza che ho descritto e svela un aspetto ancora più inquietante di questo «reale»: non si tratta più soltanto di sopportare l'indifferenza della specie, il «polvere eri e polvere diventerai» che concerne ognuno. Nelle ipotesi, non tanto avveniristiche, ormai, di tecniche riproduttive applicate all'uomo, sfuggono le coordinate essenziali e consuete che circoscrivono il «reale» della nascita: chi nasce e da chi, vale a dire l'ordine della filiazione in cui si immette il nuovo nato. Si può a buon diritto prevedere che i primi a esserne danneggiati saranno i bambini che ne verranno. Ma non tanto forse per il fatto di essere stati concepiti in maniera tecnicamente diversa dagli altri, quanto perché chi farà loro da genitore avrà difficoltà a dare senso allo loro origine, a giustificare l'inaugurazione meccanica del loro ingresso nella vita. Come potrà un bambino sopportare di non essere nato da un momento d'amore, o almeno di desiderio, tra un uomo e una donna? La cosiddetta «scena primitiva», il coito fra i genitori, è un fantasma, ma è un nutrimento indispensabile all'immaginario infantile. Intorno a quel fantasma si agglutinano le domande più radicali: da dove vengo? Perché sono nato? Che cos'è procreare? Il futuro ci dirà il destino psicologico di questi bambini. Solo a posteriori potremo valutare il peso e la fondatezza o meno delle nostre apprensioni di oggi. Adesso possiamo solo riflettere sull'atteggiamento delle donne nei confronti della progressiva sofisticazione delle tecniche di fecondazione artificiale. Nel complesso la riflessione delle donne su questo argomento appare dettata da una prudenza e da un sapere che, anche se non esplicitato, deriva dall'esperienza, diretta o raccolta dal discorso di altre donne, della maternità. Il convegno sul parto di tre anni fa, ad esempio, suggeriva il ritorno ad antiche consuetudini - come il parto in casa - al limite più scomode e meno sicure del loro succedaneo ospedaliero, ma che presentavano la cornice simbolica dell'evento. Allora mi era sembrato, e ne avevo anche scritto («Alfabeta», n. 72, maggio 1985, Aporie del materno) che questo insistere sulla naturalità e ritualità del parto, sulla necessità di coinvolgervi quanti altri vi fossero interessati - medico, ostetrica, marito e/o altri familiari - fosse un modo di padroneggiare e tollerare il lato inquietante del nascere, Laboratorio italiano 88/Saggistica così come quello che accompagna tutto il processo di formazione di una nuova vita. Le donne lo sperimentano spesso durante la gravidanza - oltre, come ho già detto, nel puerperio; messe a contatto attraverso il corpo con il «reale» di qualcosa che si fa umano, bambino, vanno soggette a forme e labilità emotiva, straniamento ecc. Lo stesso elemento inquietante si esprime anche nelle fantasie, ad esempio nell'equivalenza immaginaria tra il tumore, proliferazione di cellule insensata e incontrollabile, e il feto; oppure nel desiderio di infanticidio della madre e nel suo correlato opposto, il timore di essere distrutta dal bambino o ancora in altre rappresentazioni, tutte poco rassicuranti, che costituiscono il corteggio immaginario dell'evento «reale» e biologico della nascita. Si pone allora come ovvia una domanda: perché, se l'esperienza della maternità è così difficile, incomunicabile e solitaria, le donne non intendono rinunciarvi? Perché, se è così straniante, non sostengono un avanzamento tecnologico che le liberi dalla gravidanza? Che eviti la deformazione del corpo, i segni che vi si imprimono, il dolore del parto, la separazione da quella parte di sé, la placenta-bambino, che le ha abitate? Darò due risposte a questa domanda - che non sono però le sole possibili - comindella vita. Come se il corpo femminile potesse addomesticare l'origine, renderla familiare, sensata. Per le donne stesse, invece, quando avviene all'interno del proprio corpo, il costituirsi della vita, resta - e il termine più adeguato è un concetto freudiano - Unheimlich, perturbante o, con una traduzione più vicina al significato tedesco, familiare ed estraneo insieme. Tuttavia le donne sembravano tenere a sperimentare il perturbante (Das Unheimliche), anche se la gravidanza reale può far emergere la sensazione di una presenza parassita, aliena al corpo. Citavo prima le psicosi gravidiche come pure altre forme, più mitigate, di spersonalizzazione. Sono sensazioni così vaghe, imprecisate, indefinibili, che, quando non inaugurano una vera e propria patologia già latente, sono soggette all'oblio. È impossibile ricordare consciamente ciò che non può essere detto. Si capisce allora - con questa impossibilità di ricordare e facilità a dimenticare l'esperienza unheimlich - come quel convegno di tre anni fa potesse rivendicare la «naturalità» del nascere. Forse, al di là del significato proprio dell'aggettivo «naturale», la rivendicazione riguardava la necessità di una nuova ritualizzazione dell'ingresso nella vita, di ricostruire il tessuto emotiMicroMeg2a;88 Hannah Arendt Gunter Anders JeanAméry Heidegger in questione Tre testi inediti ciando dalla più difficile e, forse, inconsueta. Le donne hanno a che fare col «reale» del processo del nascere attraverso il corpo; ma - e su questo punto si rompe la complicità con le tecniche che mirano a una gravidanza fuori dal corpo materno - per quanto inquietante e straniante a volte esso sia, vi tengono. Malgrado sia poco rassicurante e tocchi momenti di radicale, e incomunicabile solitudine, tengono a che questo processo «reale», dunque misterioso e, in una certa misura, insensato, si compia nel proprio corpo. È per questo che «il bambino a tutti i costi» che fa impazzare i tecnici della provetta, non può essere, per le donne, un bambino «fuori corpo». Ciò che le attrae è qualcosa di insondabile e misterioso che concerne il cambiamento di stato che intuisce la vita. L<fchiamerò: passione dell'origine. La passione dell'origine non è un sintomo specificamente femminile, ma è caratteristico delle donne il modo di esprimerla: non sublimandola, né mediandola, né trasportandola nei diversi campi del sapere, ma esigendo di sperimentarla nel modo che appare loro più diretto: attraverso il corpo. Come se il «sentire» attraverso il corpo il farsi della vita potesse offrire una presa diretta sul suo enigma. La sua insondabilità, il non poterne dire, quando si incarnano, o meglio, si incistano in un corpo di donna, viene definita «naturalità», farsi spontaneo vo (immaginario) che dà corpo alla simbolizzazione. O ancora: la «naturalità» intesa come ripristino di una ritualità simbolica veniva reclamata proprio perché nessuno più di chi ha sperimentato una gravidanza reale sa - ma non necessariamente ne è cosciente - che quella «naturalità» è in fondo, davvero poco naturale. Qualcuna potrebbe protestare che il ricordo della gravidanza reale è dolce e che è rassicurante la proiezione di ogni desiderabilità sul bambino a venire. È certo, infatti, che la gravidanza non espone le donne al rischio d'invasione del puro reale: l'immaginario talvolta protegge dall'inquietudine e annoda l'indicibilità del reale al referente culturale e simbolico. La mia ipotesi adesso può forse essere esplicitata: è che le donne sappiano, in qualche modo, del carattere perturbante del rapporto con l'origine. Che forse proprio per questo sostengano quella che - paradossalmente - chiamano la sua «naturalità». In questo senso l'attuale pronunciamento delle donne contro l'ulteriore sofisticazione delle tecniche di fecondazione artificiale mi sembra che muova da un'esigenza analoga a quella che difendeva la maternità «naturale». In un articolo apparso su «il manifesto» dei primi giorni di febbraio si diceva che le donne, non solo in Italia, si stanno pronunciando contro le tecniche di fecondazione Alfabeta 110/111 artificiale, inseminazione a parte. (L'eccezione fatta per l'inseminazione meriterebbe un accenno al poco caso che le donne fanno all'identità del donatore di sperma, al padre naturale, purché sia un corpo di donna ad accoglierlo, foss'anche il corpo di un'altra, specchio e sorella.) Se questo è vero, comincia a rompersi la fragile alleanza che legava la donna al tecnico capace di vincere la sterilità. Un'alleanza fragile, perché fondata su fantasmi diversi, direi addirittura divergenti. Un'alleanza che comincia a creparsi. Sia che difendano la naturalità del parto o che si difendano dalla progressiva sofisticazione delle tecnologie riproduttive, sembra che le donne non intendano rinunciare a nessuno dei momenti dell'esperienza della maternità: la fecondazione, la gestazione, il parto, il rapporto col bambino reale. Non per tutte tutti e tre i momenti sono desiderabili, né necessari. Per molte sembra indispensabile solo il primo, la fecondazione. Quanto dirò adesso costituisce la seconda risposta alla domanda posta precedentemente. Una premessa di ordine sociologico servirà a suffragarla: sembra che all'incremento di domande di inseminazione artificiale corrisponda un incremento di quelle di adozione che, negli anni settanta, era invece molto forte perché sostenuto da una forte validazione ideologica. D'altro canto, una volta che l'esperimento è riuscito, non sembrano interessate al prosieguo della gravidanza. È lo stesso, peraltro, per molte che abortiscono. In questi casi sembra che sia sufficiente il sapere di essere feconde e che questo sapere debba necessariamente venire loro dal corpo; come se nessun'altra assicurazione fosse possibile, nessuna prova sufficiente se non quella del linguaggio muto di un'aggregazione di cellule. Il «rendimi feconda» disegna il campo per eccellenza della domanda femminile. Per molte donne - non per tutte perché delle donne non si può mai dire «tutte» - la diagnosi di gravidanza funziona come una designazione simbolica («mamma o non mamma», come recita il fortunato slogan di un noto test gravidico) che le accoglie nella società delle madri o almeno in quella delle madri possibili. La madre ha uno statuto fallico, è quella che «ha» il pene - bambino, dunque è situabile simbolicamente. La maternità - anche se solo prefigurabile, possibile - fornisce un sostegno, una stampella a quei soggetti eternamente zoppiecanti che sono le donne. Ma - e qui vorrei spezzare una lancia contro quel «bisogno» di maternità che rende complici e/o vittime del potere tecnologico - è un sostegno illusorio: esso funziona solo se occulta e rimuove la domanda che lo precede: «Che cos'è una donna?», «Che cosa vuole una donna?» La donna e la madre non sono sovrapponibili, l'una non è riducibile all'altra: la prima eccede, comunque, la seconda. La domanda di essere fecondata come prova di identità sessuale, come sola possibilità di accesso a uno statuto simbolicamente definito, si fonda su una confusione di due statuti eterogenei, quello della donna e quello della madre. Come se fosse possibile trovare una scorciatoia, aggirare l'ostacolo e l'inciampo di una posizione sessuale - quella femminile - che permane residuale rispetto alla maternità. Resta il fatto che, se la domanda è così pressante, è perché l'incertezza simbolica in cui si muovono le donne per alcune può risultare insopportabile. Per questo nessun costo sembra troppo alto per chi chiede di essere fecondata artificialmente. Ma farei torto al sapere che mi viene dalla pratica clinica se non sottolineassi che questa domanda di maternità a tutti i costi va considerata come un sintomo, vale a dire come un nodo da sciogliere. «Rendimi feconda» equivale a chiedere: «Ottura la mia mancanza, .chiudi la mia domanda, rendimi piena, una». Ma le donne sanno che la maternità reale è un tappo che salta se il vino della femminilità continua a fermentare, se la fecondità o il bambino non bastano a chiuder bocca sulla domanda che sostiene la ricerca di tutte e di ognuna: «che cos'è una donna?»
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