Alfabeta - anno X - n. 110/111 - lug./ago. 1988

WH////H///HH//H//////Hl'////////H//H/////////U////f I A Ma~allan I I s1 arriva ~ 1 1 • per gradi. I ~ i i !fÀe I I i I KACAU,AJII I I [/~~~ I I ~w~ i ~//Hl'/HHHHHl'HHHHl'H/Hl'HHl'Hl'/HHl'U/HI'//~ Laboratorio italiano 88 Anceschi, Bigongiari, Boatto, Comolli, Dorfles, Esposito, Fiorani, Fiumanò, Guglielmi, Illuminati, Lacatena, Luperini, Muzzioli, Perniola, Piemontese, Testa, Valesio, V_egetti, Vitarelli, Viviani L ,. . . nnmaganazwone divina di Alfred Kubin \ Saggi Dei e atomi Commenti sul problema della realtà Inedito di Paul Feyerabend 11011 Nuova serie Luglio-Agosto 1988 Numero 110/111/ Anno 10 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in Italy Cfr Il convegno di Alfabeta e Micromega Evidenziatore Classifiche Editori d'arte Radio

pagina 2 Le immagini di questo numero Alfabeta 110/111 L'i1n1na~· azione divina di Al fred Kubin L ' immaginario è sempre profondamente legato e connesso con la realtà [,sica, con il nostro concetto di realtà: Alfred Kubin entra a contatto con il mondo delle cose e delle persone attraverso una visione e un modello rappresentativo che sono, contemporaneamente, dentro e fuori, interno ed esterno, mente e corpo, vero e falso, vita e morte. Il risultato è condensato in una serie di illustrazioni e di incisioni che esprimono adesione e repulsione della realtà, ma che nello stesso tempo dichiarano una fortissima aderenza alla materialità del nostro esistere;anche se, apparentemente, il linguaggio utilizzato sembra negare il sistema dei valori, delle regole e delle convenzioni che reggono il nostro principio di realtà. costituisce la condizione della pensabilità visiva di Kubin: così scrive lo stesso artista austriaco nel 1924, «Le cose in fondo non sono altro che fantasia. L'artista non è altro che uno dei tanti attori condizionati dalla forza di un'immaginazione divina: più la sua opera oltrepassa il livello convenzionale della conoscibilità del mondo, più importante sarà la posizione che occuperà sulla terra. Vorrei ritrovarmi, e potrò farlo solo fino a quando sarò in grado di disegnare». manifestano la loro sessualità sia direttamente sia attraverso una serie di classiche simbologie oniriche; la struttura leggera dei suoi corpi danzanti ma anche impauriti, disturbati dalla ricerca di una meta irraggiungibile; i corpi incatenati, nudi, che vergognosamente mostrano, non volendolo, la pronoscere oltre la soglia della pura visibilità; e la forza comunicativa delle sue tavole non si esaurisce come semplice rappresentazione delle proprie crisi d'identità. Le immagini che «Alfabeto» presenta in questo numero provengono dalla prima grande retrospettiva dell'opera dell'artista auAlfred Kubin, pittore austriaco vissuto tra il 1877 e il 1959, si è formato alla Scuola di Arti e Mestieri di Salisburgo proseguendo gli studi artistici alla famosa accademia di Monaco: qui conosce le riflessioni di Schopenhauer, ma anche le incisioni di Klinger, di Munch, Rops, Ensor, Goya, alimentando, tutto questo, la sua vena visionaria, il suo pensiero intorno alla complessità del rapporto tra la vita onirica e la fisicità dei nostri gesti, delle nostre azioni. Le illustrazioni di Kubin non sono esclusivamente esercizi di carattere visivo: hanno l'ambizione di scoprire il vero senso della realtà al di là di una scrittura che sembra avere esaurito questo compito di ricerca, di rivelazione di un altro mondo. Non è un caso che la sua indagine sul mondo onirico coincida con gli anni della ricerca di Freud sul sogno. Forse proprio per questa ragione, Kubin, dopo un inizio della sua attività di artista dedicata alla pittura, dal 1910 in poi si è impegnato solo nell'incisione, nell'illustrazione; il suo segno e la sua grafia, estremamente precisi nel tratto, nelle trame e nelle costruzioni d'immagini, possiedono il dono dell'ambiguità, senza sposare né un repertorio né una sorta di bestiario inventato. li fantasma, 1945 L'orizzonte culturale di Freud Il disegno delle sue donne che pria fisicità a un gruppo di aggressori con le sembianze da orango: questi e altri luoghi sono gli spazi dentro i quali si sviluppa il racconto di Kubin, il suo principio di realtà, la sua esistenza di artista. Gli occhi dei suoi personaggi coincidono con il desiderio di coSommario Alfabeta 110-1Il Luglio-Agosto 1988 Guido Guglielmi Una revisione del moderno pagina 11 Cfr / Mostre pagine 25-26 Cfr / Editori d'arte pagine 26-27 Gaetano Testa Ra e l'autunno pagina 42 siriaco, tenuta a Parigi nel giugno scorso presso il Musée-Galerie de la Seita: le 136 tavole, alcune a colori, la maggior parte a trattifitti e strutturati bianchi e neri, rappresentano un'esperienza ricca di «precorrimenti surreali che solo parzialmente coincidono con le istanze de~'espressionismo». Kubin è un artista isolato, nonostante abbia partecipato alla Nuova associazione di artisti (1911) e al Blaue Reiter (1912): il suo immaginario non è storicamente determinabile e riconducibile a codici e movimenti precisi, anche se, per esempio, un artista come Klee ammirò pubblicamente Kubin, traendo forse dal suo linguaggio alcuni suggerimenti anatomici. Nel suo Simbolo, mito e cultura, Ernst Cassirer così scrive a proposito di linguaggio e arte: «Ogni grande poeta è un grande creatore non soltanto nel campo della sua arte, ma anche nel campo del linguaggio. Egli ha il potere non solo di usare, ma di rifare, di rigenerare il linguaggio, di plasmarlo in fogge nuove. Ciò nondimeno l'artista non può coniare un linguaggio completamente nuovo. Deve rispettare le fondamentali leggi strutturali della sua lingua, ma la sua obbedienza a tali regole non significa assoggettarsi semplicemente a esse: egli sa governarle e volgerle ad un fine nuovo». Alfred Kubin ci offre un mondo comprensibile che solo apparentemente sembra rispettare le convenzioni linguistiche: egli ci accompagna, lentamente, verso un fine nuovo. Quello di un immaginario inesauribile che sta dietro la porta di ogni nostra dimora. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Pubbliche relazioni: Augusto ruuminati Nighthawks pagina 13 Cfr / Radio pagine 27-28 Eugenio VitarelH Il centauro pagina 43 Mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Monica Palla Direllore responsabile: l.Aboratorio ila/i.ano88 Saggistica GiovanniAnceschi Arte o funzione pagina 3 Alberto Roatto Della ghigliottina considerata una macchina celibe pagine 4-5 Gilio Dorlles Feticci di ieri e di oggi pagine 5-6 Roberto Esposito Categorie dell'impolitico pagine 7-8 Eleonora Fiorani La riscoperta della preistoria pagine 8-9 Marisa Fiumanò Fuori corpo pagine 9-10 A VYiso ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per/ pacchmi di Alfa~ta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 Romano Luperini A proposito di nichilismo ermeneutico. Tre problemi pagine 14-15 Francesco Muzzioli Il confronto delle interpretazioni A proposito di Genette pagine 15-16 Paolo Valesio Il fiore intelligibile pagine 17-18 Mario Vegetti Storia dell'etica antica pagine 18-19 Cfr Evidenziatore pagine 20-22 La clasmka di Mario Pemiola Alessandro Dal Lago pagina 20 Cfr / Convegni pagine 22-23 Cfr / da BruxeUes pagina 23 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei liCfr / Recensioni pagine 29-33 l.Aboratorio ila/i.ano88 Saggistica Cesare Viviani Il narcisismo dell'interprete pagina 35 Laboratorio italiano 88 Letteratura Piero Bigongiari In ogni luogo nessun luogo pagina 36 Giampiero Comolli L'esilio nella foresta pagina 37 Umberto Lacatena Amanti domestici pagina 38 Mario Perniola L'ospite pagina 39 Felice Piemontese L'epidemia pagina 41 bri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla redazioProve d'artista Prova d'artista grafica Enzo Mari pagina 44 Saggi Paul Feyerabend Dei e atomi. Commenti sul problema della realtà pagine 45-47 Le immagini di questo numero L'immaginazione divina di Alfred Kubin di Aldo Colonetti In copertina: disegno di Andrea Pedrazzini Errata corrige Nel n. 109 di «Alfabeta» la direttrice dell'Accademia di Brera, professoressa Daniela Palazzoli è stata erroneamente chiamata Donatella. Ce ne scusiamo con la professoressa Palazzoli e con i lettori. ne vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabeta» è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Marco Santini Antonella Baccarin Editing: Luisa Cortese Edizioni Caposile s.r.l. in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici S.p.A. V.le Famagosta 75 20142 Milano Telefono (02) 8467545 Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i dirilli di proprietà letteraria e artistica riservati espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo

Alfabeta 110/111 Laboratorio italiano 88/Saggistica pagina 3 ceschi Quelli che presento qui sono brani del terzultimo capitolo della Storia della grafica italiana, di prossima pubblicazione presso la casa editrice Laterza. Mi è parso interessante per «Alfabeta», che per principio ovviamente esclude la forma della saggistica illustrata, la quale altrettanto ovviamente sarà invece la forma prevalente del mio saggio storico, mi è parso interessante, dicevo, proporre quella parte dove si assiste all'intrecciarsi della storia della produzione con la evoluzione della riflessione sulla produzione. Va attirata l'attenzione sul fatto che in questi importantissimi dieci anni che vanno dal 1953-1954, al 1963-1964, e che sono documentati dall'unica antologizzazione diacronica costante della produzione italiana, e cioè dall'annua!, Pubblicità in Italia, i poeti sono vicinissimi, anzi sono interni, al mondo della comunicazione e della pubblicità. L'attenzione va attirata ancora sul fatto che la questione attorno alla quale girano le prefazioni ai vari annual, è l'eterno tema de~'artisticità della produzione comunicativa. G.A. Arte o funzione Q uella di Leonardo Sinisgalli, che introduce l'anno 1954-1955, è una pagina corrusca e tempestosa, che arriva dopo una sospensione di un anno delle pubblicazioni. Dietro l'industrialista deluso emerge gorgogliando il poeta lucano, con un'idea antica dell'arte eterna, e perfino uno slancio nazionalista. Fra i nominati da lui non c'è un solo straniero (il che contrasta un poco con quanto dice oggi Pierluigi Cerri, e cioè nella lista di quelli che hanno fatto grande la grafica italiana molti sono i nomi con doppie v, doppie o, h aspirate, con k e finali in consonante). 1 Sinisgalli esalta creatività e improvvisazione italiana. Senza scuole, come il Bauhaus, che gli americani avrebbero fatto meglio à rifiutare, anziché diventarne succubi in modo così clamoroso.2 E invece l'apertura dell'antologia di immagini dell'anno tocca allo svizzero Max Huber, con un manifesto per la Rinascente a un tempo commerciale e coltissimo: la citazione della bocca di Man Ray è patente (1954). Sinisgalli si esprime qui a favore della mano pesante e dell'immagine rozza,3 e chi conosce la sua opera di disegnatore può capirne le intenzioni. 4 Ma chissà se il poeta ingegnere poteva immaginare che un individuo del genere avrebbe potuto, presso gli sviluppi successivi, favorire positivamente un certo brutalismo essenzialista di Carmi ad esempio, per le acciaierie di Cornegliano (1959), ma incoraggiare anche proposte d'altra inclinazione, come l'assai meno efficace impiego del grafico, della calligrafia di Guttuso, per la rivista Pirelli (1959). [... ] Il dibattito tende poi a stringere sul tema centrale quando Dorfles, un autentico specialista critico come lo auspicava Benelli [Giulio Benelli, nella presentazione del primo Annua/, 1953-1954, aveva segnalato l'esigenza di una cnt1ca interna alla disciplina], affronta la questione dell'artisticità: la pubblicità è un sistema, diremmo oggi con Quintavalle, che si serve delle arti/tecniche (la grafica, la plastica, l'architettonica, ecc.). Le impiega. Con uno straordinario capovolgimento antidealista, che trae la sua aggressività teorica proprio dall'impiego della terminologia della Grande Storia dell'Arte. «Spesso - dice Dorfles - il germe formale lasciato in occasione di un'esperienza pubblicitaria o di un manifesto stradale, potrà venir ripreso e rielaborato in opere pittoriche, plastiche e architettoniche destinate a rimanere quali testimonianze di tutta l'attuale epoca culturale». 5 condo le esigenze del formato, del carattere scelto, dei margini e dei fregi della pagina». 8 [... ] Ancora un poeta, Giovanni Giudici, interviene nel 1961-1962, con una testimonianza di copywriter, quasi una confessione, che parla davvero fuori dai denti. Molto anglosassone e corsiva nella forma e molto politica ed esistenziale nella sostanza: la domanda è infatti: chi è il padrone da servire? E a conti fatti, malgrado le immancabili frizioni con la committenza, si finisce per riconoscere che essa è una padrona relativamente facile da seguire: se ne è i traduttori. Col pubblico dei destinatari la cosa è più spinosa per il carattere di momento della verità che assume il loro giudizio di «Sacrificiopagano», 1900 ca Poi la parola torna nel 195~1960 a un grande poeta, come Vittorio Sereni, che, se pure lungamente frequentatore delle centrali della pubblicità a Milano, è un poeta estremamente letterario. Qui abbiamo la sorpresa di sentirlo esprimersi in toni misuratamente filoavanguardistici: «I modi dell'arte d'avanguardia, respinti dalla porta centrale del pubblico consenso, hanno poi infilato alla chetichella l'ingresso delle arti applicate». 6 Ma, ovviamente a lui interessa in particolare la libertà o meno da vincoli dell'artista dentro a un contesto funzionale. Proprio a lui, a un poeta, tocca il richiamo al tema della riproducibilità tecnica. E lo fa in un modo trasversale, citando Valéry, che, peraltro, nello scritto La conquete de l'ubiquité, aveva interpretato il disco fonografico, e le altre tecniche riproduttive, in termini di materializzazione delle facoltà del corpo.7 E di Valéry Sereni richiama l' Eupalinos, una prefazione a un libro dove l'editore Sue e Mare gli aveva prescritto «lo spazio di carta definito da un numero di lettere e segni (120.000 ca.), segradimento. Peraltro di nuovo riconducibile al fattore sopravvivenza, in quanto riconferma o meno di credito presso il committente: l'invenzione è qualcosa che brucia e si consuma. 9 Il comunicatore, l'uomo che vive sul fronte della promessa estetica, come la chiamerà qualche anno dopo W.F. Haug, vive dentro all'ansia di innovare. 10 [... ] Possiamo dire invece che con I'intervento di Carlo Ludovico Ragghianti, il grande teorico dell'arte, si può considerare concluso il discorso della divaricazione fra autonomia estetica ed eteronomia funzionale. «Funzionalità pratica, simbolica, insomma comunicativa», dice Ragghianti, (il corsivo è nostro). 11 E della dicotomia viene messa in luce la pochezza teorica attraverso la formulazione del paradosso della pubblicità: molte produzioni che appartengono al tipo - per definizione - illustrativo o funzionale, sono in realtà opere raggiunte e piene, mentre molte dell'arte per antonomasia (scultura, pittura ecc.) sono manifestazioni il cui senso è meramente o sostanzialmente documentario .12 [... ] L'ultimo intervento teorico, di Riccardo Musatti, per l'annata 1963-1964, parte dalla piattaforma concettuale sgombrata da Dorfles e da Ragghianti, e cioè dalla liquidazione dell'opposizione arti maggiori, arti minori. Il che gli consente, per così dire, finalmente, di rivolgere l'indagine sulla pubblicità. Musatti la scompone nei suoi valori informativi, le riconosce il carattere di messaggio per conto terzi, rileva al suo interno l'uso di ridondanze semantiche che garantiscono la trasmissione. Non c'è dubbio, le teorie della comunicazione (informazionali, semiotiche e empiriche) stanno ormai dentro all'orizzonte culturale. Non sono impiegate in maniera neutrale però: Musatti addita senza incertezze l'uso della violenza della psicologia elementare e il carattere imperioso della comunicazione pubblicitaria. Si delinea sullo sfondo la nozione totalizzante di manipolazione. Ma contrapposta a questa descrizione critica delle circostanze Musatti enuncia una sua dichiarazione di intenti: l'auspicio del «ritorno fiducioso e ostinato al valore autonomamente semantico della espressione grafica e letteraria del messaggio». Leggendo questo richiamo alla responsabilità del produttore di testi grafici e verbali, e soprattutto quando si legge l'affermazione de «la raggiunta persuasione dell'inesistenza di un gusto del pubblico ... », sembra di ascoltare la lezione di Max Bense. 13 «... se non come fantasma dello scrivente», e qui si sente invece più o meno direttamente l'influenza delle teorie estetiche di Opera aperta. 1 • Musatti conclude alludendo alla clarté dell'immagine coordinata di aziende ed enti, all'importanza dello stile come costante figurativa, in un modo davvero prognostico in quanto, anche internazionalmente, sarà il leit-motiv del decennio successivo. Note (1) G.D'ambrosio, P. Grimaldi (a cura di), Intervistaa PierluigiCerri, in «Campo»,n. 14-15, aprile-settembre, 1983. (2) In «Pubblicitàin Italia», 1954-1955, p. 18. (3) Ibidem, p. 19. (4) Cfr. ad es., Leonardo Sinisgalli, La scorsa estatenelle contradedel mio paese, Labirinto, Matera, 1978. (5) In «Pubblicitàin Italia», 1958-1959, p. 11. (6) In «Pubblicitàin Italia», 1959-1960, p. 18. (7) Paul Valéry, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1962, p. 1284. (8) In «Pubblicitàin Italia», 1959-1960, p. 18. Cfr. Paul Valéry, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1962, p. xxx. (9) In «Pubblicitàin Italia», 1961-1962, p. 7. (10) WolfgangF. Haug, Die Rol/e des Asthetischen in der Scheinlosungvon Grundwiderspruche der kapitalistischenGesellschaft, in «Das Argument», n. 3, juni, 1971. (11) In «Pubblicitàin Italia», 1962-1963, p. 18. (12) Ibidem, p.19. (13) Cfr. Max Bense, Aesthetik und Werbung, in Aesthetica, AgisVerlag, Baden Baden, 1965, p. 303 (Tr. it. Max Bense, Estetica, Bompiani, Milano, 1974. (14) Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. Laboratorio italiano 88 Abbiamo inviato a Renato Bari/- li; Piero Bigongiari; Alberto Boatto; Gianni Celati; Giampiero Como/li; Maria Corti; Umberto Curi; Biagio De Giovanni; Gilio Dorfles; Umberto Eco; Roberto Esposito; Elvio Fachinelli; Eleonora Fiorani; Marisa Fiumanò; Nadia Fusini; Umberto Galimberti; Alfredo Giuliani; Vittorio Gregotti; Angelo Guglie/mi; Guido Guglie/mi; Augusto Illuminati; Umberto Lacatena; Romano Luperini; Tomas Maldonado; Luigi Malerba; Giorgio Manganelli; Giacomo Marramo; Filiberto Menna; Francesco Muzzioli; Nico Orengo; Elio Pagliarani; Mario Pernio/a; Felice Piemontese; Giovanni Raboni; Ezio Raimondi; Giorgio Ruffolo; Edoardo Sanguineti; Cesare Segre; Paolo Valesio; Gianni Vattimo; Mario Vegetti; Patrizia Vicine/li; Eugenio Vitarelli; Paolo Volponi; Andrea Zanzotto questa lettera di invito: sia, filosofia, critica, arte). Chiediamo a te, come agli altri intellettuali elencati in calce, di regalarci un estratto dai tuoi «lavori in corso»: alcune pagine di un libro in via di pubblicazione, o di un manoscritto, un progetto [. .. J La Redazione di Alfabeta: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Molti «lavori in corso» oggi m Italia sono ispirati ad autentica necessità; si stanno preparando opere, di cui qui diamo anticipazione, che trovano in se stesse le proprie origini, al di fuori di qualsiasi condizionamento del cosiddetto «mercato». È così, lo sappiamo bene, che la cultura cresce, quando gli scrittori operano svincolati; quando rispondono prima di tutto a se stessi e subito dopo ai lettori attenti, categoria in espansione anche in Italia, come il Salone del libro di Torino ha dimostrato una volta di più. Laboratorio italiano 88 è il titolo che «Alfabeta» ha scelto per un numero estivo che si propone di offrire una anticipazione dei progetti che alcuni dei suoi principali collaboratori e amici stanno elaborando nei rispettivi settori di attività (saggistica, narrativa, poeI materiali dovrebbero corrispondere a una pagina di «Alfabeta» (fino a sei cartelle in caso di testi), e andrebbero introdotti da venti righe tue di presentazione e spiegazione f. ..}. In attesa di un tuo gradito cenno di assenso, ti mandiamo i nostri migliori saluti e auguri di buon lavoro. Le risposte sono state molte e tempestive. Desideriamo dunque ringraziare i nostri collaboratori, prima di tutto, e anche ci preme rilevare che nella nostra «repubblica delle lettere», come qualcuno l'ha spiritosamente definita, i «lavori in corso» non sono influenzati da preoccupazioni di «industria culturale» né agitati da~'ansia di entrare in qualche fantomatica classifica di «libri più venduti». •

pagina 4 L'ammonimento dato da Platone all'amico Callimaco di «non concedere in sposa la figlia a un costruttore di macchine» fa da epilogo - ma potrebbe egualmente fungere da epigrafe - alle pagine di un mio esile libro, che sta per andare un libreria. Esso porta un titolo complicato e sovraccarico di significati: esattamente Della ghigliottina considerata una macchina celibe e inaugura la nuova collana, «Terzo millennio», di Giancarlo Politi Editore. Da tempo desideravo completare l'albero genealogico di quella illustre famiglia di machines célibataires che si riproduce per monogenesi nel corpo della letteratura e dell'arte degli ultimi due secoli: da Poe a Kafka, da Jarry a Roussel, compresi due artisti-sfinge come Duchamp e Warhol. Macchine concepite negli strati maggiormente compromessi e segreti dell'immaginario moderno, ma che trovano pur sempre il loro prototipo - e forse il loro capolavoro? - in una macchina terribilmente concreta ed efficiente: la ghigliottina trionfalmente innalzata nel cuore della «grande rivoluzione». E quale occasione più favorevole del bicentenario del glorioso 1789 per assegnare definitivamente una paternità - o una maternità? - a questa orfana e troppo celebre schiatta macchinista? L'argomento spigoloso e tranchant mi ha dettato lo stesso tipo di scrittura: frammentario, spezzato, tendenzialmente aforistico. Della ghigliottina contiene inoltre sei disegni originali dovuti alla matita visionaria di Enzo Cucchi, con uccelli neri, instabili impalcature, fughe di strade e di caseggiati che rovesciano di continuo le rispettive prospettive: una compatta costellazione di immagini che leggono con penetrazione rabdomantica un tema che procede a filo di lama fra realtà storica e immaginazione. Della ghigliottina considerata una macchina celibe A.B. E siste una macchina sfuggita all'elenco meticoloso delle machines célibataires che Miche! Carrouges ha redatto con meritoria improprietà nel lontano 1954. Questa macchina è la ghigliottina. Ma se entra nella categoria, qual è suo manifesto diritto, non vi entra come esemplare qualsiasi, bensì vi fa un imponente ingresso come l'archetipo, il capolavoro primo e mai più superato. Poi è probabile che ne esca, non senza aver provocato prima scompiglio e chiarificazione, dal momento che come modello essa eccede di troppo gli esemplari riuniti da Carrouges. Intanto, per lo meno morfologicamente, la sua struttura meccanica con chiarezza divisibile in due parti - una superiore e l'altra inferiore - ricalca alla perfezione lo schema delle machines célibataires messo a punto da Carrouges. Mentre in alto sta sospesa la lama, l'uomo si trova disteso in basso in posizione orizzontale sopra la bascule, con la faccia rivolta verso il suolo e col collo incastrato tra due ceppi di ferro. Dobbiamo immaginare questa bascule molto simile a un lettino scomodo e ribaltabile, con cui l'uomo, colpevole o innocente, viene piazzato a forza sotto la scure appuntita della giustizia. Ancora, come rientra nella ortodossia delle «macchine celibi», la parte superiore della ghigliottina agisce su quella sottostante. Nel caso in questione, essa precipita col peso di quaranta chili sul nudo collo dell'uomo, cui hanno sforbiciato pure la capiLaboratorio italiano 88/Saggistica Alfabeta 1101111 berto Boatto gliatura, provocando la separazione fulminea della testa dal tronco. Che la machine à décoller costituisca una perversa «macchina estetica» lo comprovano unanimemente la sua poetica e la sua efficacia e lo conferma, perfino, una somma di circostanze empiriche, solo in apparenza gratuite. La poetica è racchiusa nelle parole pronunciate da Saint-Just ali'Assemblea Nazionale: essere la ghigliottina una macchina gradita aux ames sensibles. L'attrazione spettacolare è attestata dal nereggiare della folla che, nei suoi giorni di Tocca alle tricoteuses - e non già al bourreau Charles-Henry Sanson, occupato com'è a manovrare la leva, a schivare gli spruzzi di sangue e a ricacciare col piede i cani famelici, attirati dal miraggio del pasto - a svolgere il ruolo duchampiano dei «testimoni oculisti». Voyeuses, le donne fanno la calza, guardano e cadono in estasi. Per arrivare a scoprire il significato profondo della ghigliottina, sarà bene procedere con grande cautela. Scartare i nomi attribuitigli dalla ideologia, dal patriottismo e, perfino, dall'odio popolare. La- «Signoraserpente», 1900 ca gloria, non si stancherà mai di stringerglisi attorno. Così il palco della gh.gliottina si trasforma in un palcoscenico tanto per la vittima che per gli spettatori. Vengono infine le circostanze segretamente essenziali e fatali. Se è vero che è stata sostenuta e progettata dall'arte chirurgica, nella celebre persona del dottore Joseph-Ignace Guillotin e in quella ingiustamente dimenticata del dottore Antoine Louis, non è meno vero che ha trovato il suo costruttore nell'arte musicale. Nel personaggio ancillare di un fabbricante di clavicembali, il molto esoso Tobias Schmidt, che provvide alla costruzione del primo esemplare per la cifra di 960 franchi d'oro. sciarsi alle spalle gli appellativi di «Rasoio nazionale», di «Vendicatore del popolo», di «Scorciatore patriottico», e anche di «Santa ghigliottina», sebbene sbalorditivi la loro parte, per prendere in considerazione esclusivamente il contributo lessicale apportato dall'unica categoria interessata: la malavita francese. Tra i suoi contributi inestimabili, accanto a quello di Abbaye de Mont-à-Regret, brilla come una nera folgorazione l'appellativo di Veuve. Dacché l'uomo viene soppresso, il coniuge maschio decapitato e lei, femmina omicida, rimane trionfalmente sola, in gramaglie di ferro, ritta in piedi sopra l'impalcatura. Col sangue e con la vedovanza laghigliottina mostra di disporre, accanto alla struttura meccanica, anche del contrassegno funzionale che Carrouges esige da tutto il suo parco macchine. Sta infatti scritto: «Una macchina celibe trasforma l'amore in una meccanica di morte». Solo che all'origine delle machines célibataires sta una machine nubile. Genealogia in quanto prova. Una progenitrice della ghigliottina, straordinariamente somigliante nell'aspetto, impiegata in Scozia almeno dalla metà del Cinquecento, portava il soprannome di Maiden, la «Zitella». (Un esemplare lo si può ancora ammirare nelle sale del National Museum of Antiquities di Edimburgo.) Applicazione in quanto prova suppletiva. Il primo a sperimentare in assoluto, valutandone i benefici di dinamismo, istantaneità e delicatezze umanitarie, non fu né una testa coronata, né un aristocratico, né un girondino e tanto meno un giacobino. Fu invece un vrai professione/, un certo Nicolas-Jacques Pelletier, nativo di Parigi, abituale grassatore a mano armata. La première ebbe luogo il 25 aprile 1792, alle tre e mezza del pomeriggio, nella spaziosa Piace de Grève. L'esperimento, se incontrò il favore dei medici progettisti e dell'autorità giudiziaria, non piacque affatto al pubblico accorso in massa. E giustamente. La rapidità di svolgimento del nuovo spettacolo mal si adattava agli «assolo» di figure anonime, ma unicamente alla quantità e alla varietà a cui avrebbero ben presto provveduto le future rappresentazioni. Poiché di vita non é rimasta che la malavita. Rispetto alla ghigliottina, la macchina del supplizio nella Colonia penale di Franz Kafka, si è fatta esplicita, didascalica, quasi ciarliera, seppure ciarliera in modo feroce. In luogo della lama che, nella ghigliottina, incarna con sobrietà la legge ed esegue la condanna in silenzio, incontriamo il disegnatore meccanico che dice invece la legge, tatuando direttamente la sentenza sopra la pelle del condannato, fino a prolungargli la morte. Nel letto di ferro, su cui il reo viene disteso, riconosciamo una variazione della familiare bascule, ma che adesso ha preso a tremare e a oscillare di continuo. Per altro, l'eloquenza della legge, la complessità tecnica dei congegni, la combinazione di stampatrice, di telaio e di attrezzo di tortura, non contrassegnano affatto il culmine di uno sviluppo civile e tecnologico, bensì ne annunciano la decadenza, lo sfacelo imminente. Nel loro sincretismo, la fantasiosa crudeltà asiatica e l'Illuminismo europeo si sono consociati per mettere capo al disastro. L'ordine, che la macchina è incaricata di impersonare, si dimostra doppiamente corroso, nello spirito e nella materia. Da una parte, è soprattutto il dubbio, la perdita di fede nella legge. Dall'altra, è la stessa antichità, l'eccesso di complicazione raggiunto dal meccanismo a minarlo. La crisi che scoppia segna così la massima deviazione dalla norma. L'ufficiale giustiziere, che ha cessato di credere nella sua missione, dopo aver preso il posto dell'ultimo condannato, si suicida sotto gli aculei del dispositivo di morte. Nel frattempo l'intera macchina del supplizio, esplodendo, va letteralmente in pezzi. Attorno è ancora buio, ma in alto, sopra il cortile, si intravvedono già i primi chiarori dell'alba. Il Signore Esecutore delle Alte Opere di Giustizia tira fuori l'orologio dal taschino ed esclama con voce grave: «È ormai l'ora!». Da questo istante il cerimoniale della messa a morte procederà con esattezza cronometrica, seguendo un regola-

Alfabeta 110/111 mento dove è già precisato ciascun minimo dettaglio. «È lora!». Poiché in definitiva è il tempo che uccide ogni volta, e l'esecuzione capitale è un prendersi un largo anticipo sopra l'ora assegnata dalla natura, uno spintonare il tempo verso una conclusione che non è evitabile. Cloto taglia il filo. Il Vecchio con la falce divide in due l'esistenza dei mortali. Chronos divora i figli e abbatte gli uomini. «È l'ora!». Ma in questo caso, nel cortile che si dispone al giorno, la morte gioca in anticipo con l'aiuto di un apparecchio rozzo ma efficiente, capace di «spaccare la testa istantaneamente e con un solo colpo» (è quanto prescriveva il codice penale repubblicano). L'esecuzione rappresenta un rendez-vous che si è preso, non solo col tempo, ma pure con quella macchina con cui si produce morte come qualsiasi altro prodotto. Il quadrante dell'orologio e la falce leggendaria si ritrovano riuniti e perfezionati nella lama che attende in cima al palco. Ieri, ho letto sulla meridiana di una villa dell'Ile de France, l'iscrizione: Una ex his ultima (Una di queste è l'ultima ora.) Ho Che uno scrittore - o più modestamente, una saggista: dunque autore soltanto di scritti pedanteschi, uggiosi, di scarsa popolarità - debba aver sempre pronto il «manoscritto nel cassetto» è quasi una convinzione generalizzata. Cosa stai preparando? ti chiedono; mentre è appena apparso il tuo ultimo voluminoso volume che nessuno si è data la pena di leggere. E, allora, rispondendo all'invito di «Alfabeta»: ecco, davvero, il «manoscritto nel cassetto», c'è; anzi dovrebbe già uscire tra qualche mese da Feltrinelli. Si tratta d'un libro che riprende ed elabora alcuni dei temi per me fondamentali circa i rapporti tra arte e società: quelli del mito, del rito, e soprattutto della feticizzazione del/'opera d'arte nei continui meandri della quotidianità... G.D. Feticci di ieri e di oggi S i dice spesso - senza dare troppa importanza alla cosa - che gli oggetti appartenuti a una persona conservano qualcosa di questa: una sorta di imprimitura, forse un po' dell'energia, del «fluido», che dalla persona è passata all'oggetto e lo ha trasformato in reliquia. Non parlo ovviamente di reliquie di santi o di martiri, e neppure di brandelli di carne e di ossa, resti venerabili e venerandi divenuti oggetti di culto: ma piuttosto del fatto che non possiamo comunque negare che gli oggetti - non solo gli abiti o gli indumenti personali, ma i giocattoli, i gioielli, i monili - appartenuti al defunto, ci comunichino la sensazione indefinibile di conservare un quid misterioso come se qualche «cellula» o qualche molecola ancora vivente del morto fosse rimasta incapsulata nell'oggetto stesso, l'avesse reso quasi un depositario di forze e di tensioni che appartennero all'antico «proprietario». Non intendo certo fare, qui, ipotesi né scientifiche né magiche, né fisiche né metafisiche (nel senso etimologico del termine) attorno a questo problema; ma soltanto constatare come un oggetto possa caricarsi di forze che vanno al di là della sua sostanza e che possono giustificare anche le superstizioni (o le effettive ragioni?) di una così frequente tesaurizzazione di oggetti appartenuti a personaggi storici o celebri. C'è chi conserva religiosamente e colleziona insegne militari, medaglioni, onorificenze; chi va a caccia di divise e gagliardetti Laboratorio italiano 88/Saggistica atteso il tramonto, finché, sopra i vetri della bella facciata, ha cominciato a brillare l'ultimo sole del giorno. Alle machines célibataires non sembra bastare il lettore che sfoglia il libro o il pubblico che si accosta attento alla rappresentazione. Così collocano di partenza lo spettatore all'interno dell'opera. Sono i t_re, i quattro oppure i dodici «testimoni oculisti» del Grand Verre di Duchamp. I monaci inquisitori di Poe che, in tutta segretezza, spiano il giovane incarcerato. L'unico spettatore di Kafka, che ha l'aria di essere capitato lì per caso, come un uomo che abbia sbagliato l'ingresso e lo spettacolo. L'effetto umoristico risulta in tal modo assicurato dalla presenza dell'errore e del caso. Roussel è il solo a ristabilire una dimensione mondana, facendo entrare in scena lo scelto gruppo dei suoi invitati. L'illuminazione troppo intensa mette in risalto i frac degli uomini e gli abiti scollati delle signore. Le macchine celibi di Roussel sembrano funzionare unicamente nel corso delle festività, come, nell'Ottocento, le meraviglie maccaniche delle fiere. La «macchina per decapitare», da parte sua, si è assicurata in esclusiva la ressa, il pigia pigia, il formicofascisti, di vessilli comunisti, di stendardi sfilacciati di battaglie risorgimentali, di bacchette di direttori d'orchestra. Ma c'è chi conserva semplicemente l'ultimo vestito indossato dal familiare o quel giocattolo con cui si trastullava il bambino morto anzi tempo. Per non parlare delle fotografie che spesso non rappresentano neppure più le vere immagini di morti ormai lontani nel tempo, ma che sono quasi delle «pellicole» lio, l'entusiasmo, le grida, i cappelli in cima alle picche, tutte le gradazioni del pathos. Dietro la Bastiglia, nel caffè dei Quatre Sergents de La Rochelle. Vi consumo lentamente un demi, appoggiato al bancone di zinco. Dunque, è questo il locale dove la malavita parigina faceva celebrare la Messa a un prete spretato, nell'ora bianca e spettrale in cui, in un cortile non molto distante da qui, la Veuve stava celebrando il suo rito fatale. Scrivendo queste note, ho resistito al richiamo deldisegno davidiano raffigurante l'esecuzione di Luigi XVI e, cosa non ultima, ho tenuto testa alla fredda suggestione della sua bellezza. Il disegno compie una traduzione: trasforma l'accidente della morte in un evento della storia, nobilitato dalla mediazione del mondo classico: i cavalli collocati ai piedi del patibolo come altrettante sculture ornamentali; i sanculotti armati di antichi gladi e recanti insegne romane; l'austera toga del vecchio in primo piano. Particolarmente, la severità stoica e retorica degli atteggiamenti degli spettatori che, in piena consapevolezza, prendono parte all'evento memorabile, di cui ognuno sottolinea un distinto valore. zialità «altre» e trasformarsi a sua volta in feticcio. E, che un'analogia esista tra questa feticizzazione degli oggetti e quella di antichi talismani, pentacoli, reliquari è indÙbbio; come è indubbia la parentela tra quelle immagini feticizzate cui accennai all'inizio di questo libro e gli oggetti cui qui mi riferisco. Alla base di questa «tesaurizzazione og- «Una per tutte», 1901-1902 (come gli agalmata di cui discorrevo nel primo capitolo) che i morti abbiano abbandonato sulla terra perché la loro memoria non sbiadisse del tutto, come appunto sbiadiscono le fotografie racchiuse negli album familiari o fissate sotto vetro nelle loro cornici d'argento. Questi pochi cenni di preambolo, solo per ribadire quanto spesso l'oggetto, il più umile e dozzinale, possa caricarsi di potengettuale» c'è comunque tanto un aspetto negativo che uno positivo. Ed ecco perché: se spesso la conservazione superstiziosa e quasi maniacale di determinati oggetti sarebbe da bandire (lo stesso collezionismo spesso non è che una forma coatta di feticismo), credo invece che si debba considerare con occhio più benevolo la attribuzione di valori, non solo pratici, a determinati oggetti. Mi spiego: in passato era facile che pagina 5 Solo che la storia, col corteo dei suoi significati, parla ai vivi, agli uomini che dispongono del tempo; vale per tutti i partecipanti che tornano a casa dopo aver assistito alla decapitazione. È a essi che si rivolge con rigorosa eloquenza il disegno a penna attribuito alla cerchia di David. Per chi voglia invece scindere il tempo, penetrare nell'istante, far parlare l'intimità, il rapporto sensibile e oscuro tra il collo del condannato, il ferro della lunetta e il filo della lama, è bene che interroghi l'argot della malavita. Meglio è che parta dal grassatore Nicolas-Jacques Pelletier, che ha avuto il privilegio d'inaugurare la macchina della ghigliottina, che dal monarca Luigi XVI. O che riesca a scorgere istantaneamente come la lustra mannaia riconduca Luigi XVI a Luigi Capeto, né un sovrano e neppure un tiranno, bensì un uomo nella sua nudità corporale. L'eloquenza davidiana, col suo neoclassicismo e con la sua ideologia, riesce a trasformare la cronaca in storia. Anche il linguaggio della pègre possiede un potere di trasformazione: ma dalla cronaca in direzione della metafisica. nell'ambito di una famiglia patri~rcale certi oggetti d'uso, anche i più rozzi, venissero conservati e trasmessi con cura e con amore: vecchi mortai per pestare le spezie, padelle e tegami di rame, ciotole di ceramica, suppellettili antiche; o anche i primi aggeggi paleo-meccanici: macinini da caffè, grattugie, frullini a mano per «montare» la panna e i bianchi d'uovo. Oggi è ben difficile che un gadget domestico si conservi per più di qualche anno o di qualche mese, perché rapidamente obsolescente, perché soppiantato da perfezionamenti tecnici, o perché semplicemente «passato di moda». Questa obsolescenza - più ancora che tecnologica, stilistica - mi sembra un fatto abbastanza deprecabile. Senza voler predicare una tesaurizzazione inconsulta e avara dell'oggetto d'uso (quando invece una simile tesaurizzazione è in atto proprio applicata all'opera artistica), credo che si dovrebbe verificare più spesso un giusto «attaccamento», non morboso, al mondo degli oggetti di cui ci serviamo. L'oggetto, cioè, dovrebbe riacquistare certe valenze di «personalizzazione» che un tempo possedeva e cooperare a una sorta di lotta contro il dilagare delle mode più futili, contro la perdita d'una «memoria oggettuale». È molto probabile che le reliquie dei santi (così spesso fasulle, inventate o credute tali per strane contingenze) presentino le loro doti miracolose (o funzionino come se le presentassero) proprio in base alla somma delle credenze e delle fedi che le investono d'un potere arcano. Allo stesso modo potremmo ammettere che anche oggetti familiari, senza per questo trasformarsi in sante reliquie, possano acquistare un loro potere - costituito dall'insieme di tradizioni, di pratiche, di cerimoniali consacrati dall'uso, che in questo modo fanno sì che non vada perduta una determinata capacità, da parte del possessore degli stessi, di usarli in maniera acconcia, come accadeva per chi, in tempi andati, maneggiava gli attrezzi del lavoro, le armi del combattimento, i simulacri dei cerimoniali magici o misterici. E non si dimentichi, del resto, che - ove ci si rifaccia ad antiche civiltà «barbariche» o anche al poco che ancora rimane di vivo delle culture tribali o delle «civiltà ristrette» (come vengono di solito definite) - la presenza di fattori magici, l'investitura di oggetti con valenze rituali - apotropaiche o propiziatorie - è all'ordine del giorno. Per cui molto spesso l'arte dei ~primitivi» (tanto studiata dai Franz Boas, 1 Lévi-Strauss,

pagina 6 Durkheim, Maus, Malinowski ecc.) può diventare anche una chiave chiarificatrice per l'arte dei nostri giorni, solo in apparenza liberata dall'impaccio dei miti e dei riti che un tempo la governavano. Ora sopravvalutata, ora considerata come curiosità etnologica, ora invece giudicata addirittura come responsabile di talune correnti delle avanguardie storiche (cubismo e picassismo), quest'arte ancora oggi non è stata definitivamente sistemata né storicamente né esteticamente, proprio perché sfugge tanto alle partizioni storiche quanto a quelle estetiche. In realtà, pur riconoscendo la preminenza dei Grandi Stili delle maggiori civiltà mondiali - Grecia antica, Cina, India-Egitto - non si può misconoscere l'apporto delle culture «separate» primitive, tribali, sia per l'influenza - diretta o indiretta - che hanno avuto su quelle più emergenti, sia perché nella creazione artistica di questa parte d'umanità, rimasta ancora spontanea e non «contagiata» dalla civiltà tecnologica, è possibile rintracciare alcune chiavi interpretative del fenomeno artistico allo «stato nascente». Il problema che confonde maggiormente chi indaga oggi sulla consistenza e l'originalità delle arti «primitive» (o meglio: sugli artefatti, utensili, monili ecc., che appaiono ai nostri occhi come «artistici» anche se il loro significato per quelle popolazioni era - o è tuttora - sacro, magico, apotropaico), è proprio quello di decidere come si verifichi sin dai primi gradini dell'evoluzione umana l'impulso a disegnare, plasmare suppellettili, indumenti, decorazioni, a contenuto estetico e al tempo stesso provvisti di un indubbio valore funzionale. Che di un contenuto estetico si tratti, non devono ·esserci dubbi; anche se parecchi antropologi hanno preferito svalutare la componente estetica di tali oggetti, riconoscendovi soltanto quella magico-simbolicorituale. Secondo Robert Layton, ad esempio,2 è indispensabile ammettere il valore artistico di simili oggetti. E, per sfruttare questa opinione, egli analizza parecchi casi, tratti da ricerche «sul campo» presso gli aborigeni australiani, nonché attraverso le testimonianze dei maggiori antropologi che si sono occupati di simili problemi. Un'indubbia volontà di «abbellimento» non manca mai presso le culture primitive (sia odierne che dell'antichità): basterebbe a provarlo l'esistenza costante di acconciature, tatuaggi, e la creazione di oggetti simbolici nei quali non fa mai difetto un quoziente artistico. Ma, quello che più conta, non solo a un Laboratorio italiano 88/Saggistica fine scientifico ma estetico, è la presenza d'una intenzionalità in queste operazioni. Altra cosa, infatti, se l'oggetto o la statuetta rituale o totemica sono stati creati con una finalità decisamente artistica o per tutt'altra ragione. Un'interessante prova ci viene offerta da alcune statuine di creta, appartenenti alla cultura Lega (africana)· che a noi appaiono come sgraziati modelli raffiguranti una figura umana obesa, mentre, per quelle tribù, hanno il significato di «donna incinta che ha commesso adulterio». Sicché la statua vale da ammonimento per l'intera tribù. Un caso analogo, ma appartenente a una grande cultura storica è quello - da me spesso citato3 - delle cosiddette «Ombre della Sera» del Volterrano. Si tratta di statuine di bronzo estremamente esili che a noi appaiono come progenitrici di certe allungatissime sculture di Giacometti; mentre, per gli Etruschi, avevano soprattutto, se non esclusivamente, un valore apotropaico: quello di «far crescere» l'infante presso la cui culla venivano appositamente collocate; e anche il compito di tenere lontane le divinità malefiche che avrebbero potuto danneggiare la crescita del bambino. Ecco, dunque, come le motivazioni delle statue di Giacometti e quelle delle Ombre della Sera - pur essendo del tutto divergenti - hanno portato a un risultato esteticamente affine anche se totalmente diverso per la sua significazione effettiva. Che poi si diano, in generale, inattese e incredibili affinità nelle forme espressive di popolazioni e culture tra di loro distantissime tanto nel tempo che nello spazio è cosa ben nota e lo prova in maniera esemplare il tanto discusso fenomeno delle split representations - delle immagini sdoppiate - proprie alle culture della costa del nord-occidentale degli Stati Uniti (Alaska)! Queste rappresentazioni sdoppiate hanno dato molto filo da torcere agli antropologi. Lo stesso Layton si rifà alla nota descrizione di Boas che ne chiarisce l'origine ammettendo, in quelle popolazioni, un tentativo di ottenere una raffigurazione schematica, ma anche minuziosamente naturalistica, attraverso la proiezione, sopra una superficie piana, d'un disegno tridimensionale come quello raffigurante un animale, un pesce, un volto umano. Quello su cui, peraltro, l'autore sorvola, è di ricordare come già Leonhard Adam e più di recente Lévi-Strauss abbiano preso in considerazione queste stesse split representations mettendole a confronto con altre molto simili a queste che si trovano presso i Maori della Nuova Zelanda presso gli indiani Caduveo del Sud del Brasile, e - fatto ancora più sensazionale - con alcuni vasi in bronzo cinesi del I e II millennio a.C. Il che farebbe pensare che, a un determinato gradino dell'evoluzione umana, si verifichino identiche premesse psicologiche e percettive tali da giustificare rappresentazioni figurative omologhe. Non è che questo genere di parentele tra culture lontane nel tempo (3000 anni!) e nello spazio (Alaska, Brasile, Cina) sia molto frequente, ma sembra abbastanza accettabile ammettere che culture «primitive» dei nostri giorni, di ieri, e di tempi remoti, possano sviluppare gli stessi principi tanto nell'organizzazione dei loro riti e cerimoniali, magici o religiosi, quanto nelle loro figurazioni artistiche. Anzi, il fatto che si diano - o si possano dare - analogie e addirittura identità formali, tra artefatti di civiltà così distanti tra di loro è semmai una riprova di quella atemporalità del mito di cui dovremmo ormai essere convinti. Un altro dei punti interessanti nel saggio di Layton accomuna le ricerche di de Saussure sul rapporto significante - significato a quelle di Durkheim sul valore di certi disegni totemici. Senza entrare nel merito d'un eventuale reciproco influenzamento tra i due studiosi (secondo Barthes, de Saussure avrebbe risentito dell'influenza di Durkheim), la tesi di quest'ultimo - secondo cui il rapporto tra disegno totemico e sua significazione sarebbe puramente convenzionale - si può senz'altro sovrapporre a quella sostenuta dal semiologo svizzero circa l'arbitrarietà del segno linguistico. Durkheim, analizzando lo stile astratto-geometrico dell'arte di alcuni aborigeni dell' Australia centrale, considera irrilevanti le qualità «rappresentative» di tali disegni, mentre una studiosa posteriore come N. Munn ha dimostrato all'opposto che i disegni sono in larga misura rappresentativi. Un'osservazione, questa che va di pari passo con quella relativa a un altro curioso reperto australiano (non citato dall'autore): i «churinga»5 (o churunga), quelle misteriose «pietre sacre», graffite con tracciati geometrici (molto simili, sia detto tra parentesi, e senza voler fare nessun'illazione scientifica! a certi disegni di Klee) che, dopo lunghi studi, si sono rivelate quali veri e propri ricettacoli di racconti e leggende interpretati dagli aborigeni attraverso una «decriptazione» delle linee disegnate e costituenti dunque un'autentica «notazione» semantica efficiente. A suffragare l'opportunità di questo rapporto tra significante e significato - sia nel Alf abeta 1101111 caso dei disegni totemici che in quello del linguaggio verbale - è stato ormai spesso provato come esistano legami tutt'altro che tenui tra valore fonematico d'un vocabolo e sua significazione, e addirittura tra l'aspetto «iconico» delle lettere (del nostro e di altri alfabeti) e suo primitivo significato. Ebbene, qualcosa di molto simile al rapporto tra tracciati astratti totemici e loro significato «occulto» vale non solo per le parole o per i segni alfabetici (e tanto più per quelli ideogrammatici), ma per ogni oggetto inventato dall'uomo con una finalità in apparenza soltanto pratica e utilitaria, ma con una intenzionalità più o meno cosciente che potrà essere simbolica o magica. La presenza di alcune costanti formali, di alcuni schemi pseudo-iconici, fa sì che quasi sempre sia possibile scoprire il legame segreto esistente tra significanti e significati nelle creazioni artistiche non solo delle Grandi Civiltà ma anche delle «culture ristrette tanto dell'antichità che dei nostri giorni. Ed è questo fatto che ci permette di guardare con più fiducia al problema della comprensione (e dell'incomprensione) dell'arte e della sua funzione, tanto ai suoi albori che nei suoi ultimi sviluppi. L'uomo, con ogni evidenza, crea con le sue mani, o con gli attrezzi di cui può disporre, dei simulacri, dei feticci di se stesso, delle sue divinità, dei suoi fantasmi. E questi feticci - a chi li sappia decifrare, sia pure con l'aiuto di dottrine scientifiche, antropologiche, psicologiche - finiranno per avvalorare la presenza di una Urform (proprio nel senso goethiano di matrice originaria) che varrà a suffragare la compresenza d'un dato utilitario e funzionale e di uno artistico magico, mitico, o addirittura la loro coincidenza. Note (1) Cfr. Franz Boas, The Mind of Primitive Man, CollierBooks, NewYork, 1963. (2) Robert Layton, Antropologia dell'arte, Feltrinelli, Milano, 1984. (3) Cfr. le mie Oscillazioni del gusto, Einaudi, Torino, 1970. (4) Cfr. Lévi-Strauss, Anthropo/ogie structurale, Plon, Paris, 1958. E si veda anche Lévi-Strauss, cit. pp. 270-275,«Le dédoublement de la représentation»,a proposito delle split representations, dove sono citati altresì i lavori di Leonhard Adam, Franz Boas (cit.) e F.D. McCarthy. (5) A proposito dei «churinga»si veda Herbert Read, Art and Society, Faber & Faber, London, 1936,pp. 33-36,dove sono analizzatele diverse opinioniattorno al significatodi questi disegniapparentemente astratti - tracciati su certe pietre dagliaborigeniaustralianie che, secondoalcuni autori, corrisponderebberoa veri e propri tracciati topografici. '8r1e11i dà visita Il piccolo Hans diretto da Sergio Finzi Natura intricata La psicoanalisi e le macchie di V. Finzi Ghisi. Forme della natura e del soggetto: la «nevrosi di guerra in tempo di pace» e una teoria psicoanalitica dei colori di S. Finzi. La distruzione, i carnivori il male Settotncda arti visive, nuova danza, nuova scena trimestrale diretto da Marco Jannuzzi Abb. a 4 numeri L. 20.000, ccp 54692009 V.le Carlo Felice 95 00185 Roma D cobold n. 16 Coboldprirna: Bonessio di Terzet, Perrotta Coboldoccasione: Agosti, Bonessio Pier Paolo Pasolini Il Portico della Morte presentazione di Cesare Segre XXX + 320 pagine - f. 28.000 Ass. Fond. Pier Paolo Pasolini Al servizio si accede per abbonamemo ann,,,ak. Da un minimo di 6 inserzioni a un massimo di 33 inserzioni. I moduli disponibili sono: semplice cm. 5,Jx/,4 Un 30.()()(J, doppio cm. 5,/ x3 Lire 50.()()().Per informazioni più dettagliale scrivere o telefonare a: Cooperaliva Intrapresa, via Caposile 2, 20/37 Milano. Telefoni (02) 5451254 - 545/692. Ufficio Pubblicità, servizio Bigl~tti da ·visita. 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Sitta Edizioni del Laboratorio Via Monte Sabotino 69 - 41100 Modena - ltaly di Terzet, Perrotta (Zanzotto) Coboldimpero: Frisa, Belleli, T.A. Clark, Freeman, Poeti brasiliani a cura di T. Pereira Coboldarte: Beckman, Menegon Ibis: Bonessio di Terzet, Collins e Milazzo, Consoli, Perrotta FOII di lnformmoae Documenti e ricercheper l'elaborazione di pratiche alternative in campo psichiatrico e istituzionale Nuova Serie n° 116 Abbonamento annuo L. 25.000; abbonamento sostenitore L. 50.000; abbonamento enti, associazioni, estero L. 35.000, da versare sul ccp 12386512 intestato alla Cooperativa Centro di Documentazione, c.p. 34751100 Pistoia. 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