I pagina 6 << Mi consente un prologo oscurantista?» «Cosa vuol dire?» «Ecco un grande libro non scientifico.» «Oh, bella! Ce n'è tanti.» «Sì?» «La Bibbia, la Divina Commedia, gli Ossi di seppia.» «Tanti? Pochi a fronte del dilagante inquinamento scientifico. Non dico l'inquinamento ambientale ma mentale.» «Ecco l'oscurantista. Lei è contro la scienza.» «Le avevo ben chiesto di esprimermi in tali termini.» «Sarebbe meglio che dica quel che ha da dire senza oscurantismi.» «Allora devo rinunciare al prologo.» «Un po' di rigore, andiamo, non farebbe male.» TeoremaSSS: Il soggetto soffre la scienza. In realtà il teorema non è tale perché il soggetto, che tanto soffre a causa della scienza, non ha le parole per dirlo. Né possiamo farlo noi per lui, che arriveremmo a dimostrare un teorema diverso, e precisamente: TeoremaASS: L'altro soffre la scienza. La dimostrazione si divide in due parti. Nella prima si dimostra che la scienza non fa posto all'altro, al secondo termine della coppia intersoggettiva io-tu. La scienza è al servizio dell'io: lo libera dalla persecuzione dell'altro. (Corollario: la scienza guarisce l'io dalla paranoia.) Nella seconda parte si dimostra che la scienza non fa posto all'altro della parola e della verità. La scienza, e qui si torna al teorema SSS, fa soffrire il soggetto precludendogli la possibilità di parlare; gli sbarra l'accesso alla parola vera. La scien.za è un sapere, non falso, ma senza verità soggettiva (tecnicamente è un sapere a-aletico). I dettagli dimostrativi sono lasciati al lettore. «No, non ci siamo. Così si passa dall'oscurantismo all'oscurità. Sarebbe meglio parlare del suo grande libro ·non scientifico.» «Lei è decisamente migliorista. Cerca sempre il meglio. Non ammette altre possibilità.» «Se ce ne sono, è meglio parlarne.» A più voci «Ci provo.» Devo spiegare in che senso ritengo che il libro di J. J. Bachofen, Il matriarcato, per la prima volta tradotto integralmente da Giulio Schiavoni per i Millenni di Einaudi, sia un grande libro non scientifico. Grande lo è anche materialmente. È appena uscito il primo tomo di LXXIV + 522 pagine (Lire 60.000) e l'annunciato secondo, che conterrà gli indici, non sarà da meno. Grande è, poi, per l'immensa cartografia preistorica attraverso cui l'autore rintraccia le origini del diritto materno: das Mutter recht (si potrebbe dire: le origini del diritto nel materno) in un'area geografica che comprende Licia, Grecia, Egitto, India e Asia Centrale (nel II tomo), identificando nei miti locali i residui, sopravvissuti nella deformazione letteraria, di una ginecocrazia mai del tutto superata dalle forme successive, paterne, dell'esercizio del potere, con particolare riguardo ai modi della trasmissione del nome. Grande è, infine, il respiro dell'argomentazione a spirale logaritmica (che taglia ogni raggio vettore sotto lo stesso angolo) la quale ribadisce e amplifica sempre lo stesso tema: in principio era la madre. La non scientificità, invece, è un merito intrinseco del libro, che poteva anche essére piccolo (in fondo basta leggere Preambolo e Introduzione), conservando questa sua peculiarità·. La non scientificità de Il matriarcato è una conquista che l'autore neppure sospettava. Bachofen partì, lancia in resta, per realizzare una Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, recita il sottotitolo. Oggi il verdetto della comunità scientifica è unanime. Bachofen, nel lontano 1861, scoprì il diritto materno contrapposto al paterno com·e il diritto naturale si contrappone al positivo, la terra al sole, la notte al giorno, la materia allo spirito. Cito dalla prefazione di Furio Jesi: «Sembra oggi ragionevole affermare che Bachofen fu davvero il primo a configurare con sufficiente organicità e chiarezza il complesso concettuale e istituzionale del diritto materno» (p. XVIII). Ma proprio questo è il punto: che l'argomentazione non è scientifica e nella non scientificità trascina la sua stessa scoperta che, si dice, è «datata», «di destra», »mitologica». L'analisi dei miti è, infatti, antistorica, le etimologie sono per lo più fasulle (siamo in epoca presaussuriana), tutta la ginecocrazia bachofeniana è un costrutto mitologico. «Se ancora oggi si è disposti ad ammettere che il diritto materno, alcune istituzioni del diritto materno, facciano parte della storia, la ginecocrazia in senso stretto sembra far parte esclusivamente della mitologia» (Ivi p. XIX). Allora, W la mitologia e M. la scienza: o viceversa? Ecco cos'è successo. Bachofen, che Benjamin dichiara «profeta», entra a pieno titolo nel discorso scientifico ma il progresso scientifico lo sopravanza e lo l,asciada parte come curiosità da museo, come un alchimista ante Lavoisier. Bachofen esordisce da scienziato ma cessa d'esserlo suo malgrado. Lo buttiamo via per questo? Lo archiviamo come caso storico? O possiamo recuperarlo a un altro livello? Un altro grande libro di un altro grande, nato scienziato, ma ora in odore di non scientificità, subì sorte analoga. Uscì nel 1912. Mezzo secolo dopo Lévi-Strauss ne sanciva la morte scientifica. Totem e tabù parlava del padre. Dava corpo mitico al massimo enunciato della filosofia moderna: «Dio è morto». Con un appiglio debole a Darwin e uno scivoloso a Frazer, Freud volle dare veste scientifica al suo mito. Ma il piccolo Claude svelò quello che tutti sapevano: l'imperatore era nudo. Evviva! Ne vorremmo tanti di questi testi ex-scientifici. Come chiamarli: filosofici, teosofici, morali? Forse mitologici o profetici sono termini più adatti. Sono loro che insegnano a pensare e a balbettare le verità del soggetto che la scienza esclude. Sono loro che trattano cose semplici ma forti, in realtà debolmente definibili: cos'è un padre, cos'è una donna, cos'è cosa (sulla cosa cfr. Lacan e la Cosa di E. Fachinelli, «Alfabeta», n. 104).1 La storia della scienza è appena cominciata. Verranno altri Freud e Bachofen. Saranno benvenuti. Per il commento serio, nel merito, dell'opera di Bachofen rimandiamo alle dotte prefazioni che la corredano. Qui vogliamo semplicemente tessere l'elogio dell'abilità Alfabeta 1091 mitopo1ettca del grande basilese; elogio che, per essere credibile, deve tenere conto delle luci e delle ombre che marezzano il corpo del mito. È luminosa la reintroduzione nel discorso colto (maschile) della valenza del desiderio femminile, sia pure ritrovata solo a livello mitico. È illuminante la trascrizione delle antiche leggi non scritte - è come assistere al miracolo di un muto che parla. Ma, d'altro canto, sono oscure certe riduzioni di questo discorso, difficile, se non impossibile, alla dimensione religiosa concepita, se così si può dire, come regressione al materno. Cos'è una donna? Una sacerdotessa, risponde Bachofen. Prostituta e vestale, amazzone o moglie, è sempre lei, col bello o col cattivo tempo, in pace o in guerra, in regime nomade o sedentario, è sempre lei, la madre, la sacerdotessa che celebra i misteri ctonii e notturni della vita: la nascita e la morte. Non è una critica. Conosciamo bene la difficoltà di pensare la trascendenza fuori dalla religione. La morte di Dio è solo l'inizio di un discorso sulla (o della) trascendenza. Ma l'imperativo morale del soggetto (postmoderno?) passa di lì, anche a costo di fallire scientificamente. È oscurantismo questo? È oscurantismo l'eccesso epistemologico della scienza che, dice Feyerabend, è solo un'ideologia tra le altre, da trattare con tutto il rispetto dovuto alle ideologie e forse un tantino di più, non grazie al suo massiccio successo, ma perché la scienza, radicata nel desiderio di sapere, cresce al posto del soggetto: è l'albero che indica dove scavare per disseppellirlo. Ma se lo schiaccia, se gli toglie la parola, allora viva l'oscurantismo, viva la mitopoiesi, chi la sa fare. Nota (1) Come passare sotto silenzio a questo punto un mirabile controesempio della stessa epoca? Erwin Rhode, con la sua Psyche. Culto delle anime presso i Greci, del 1893 (Laterza, 1982), dimostra come si può trattare un tema mitologico - l'anima - senza perdere in scientificità e senza passare per lo strutturalismo. Il controesempio è ancora dalla parte di Freud che nel 1933 poneva a Einstein la questione: «Ma non approda forse ogni scienza a una sorta di mitologia?» Il romanzòuindi Raboni 1. È buona norma leggere con attenzione quello che un autore dice di un suo libro. Nella nota finale di A tanto caro sangue (Mondad~ri Editore, pp. 152, lire 20.000) Giovanni Raboni scrive: «È probabile che io pretenda o mi aspetti un po' troppo da questo libro pensando a esso come a un nuovo libro che sia anche, nello stesso tempo, il mio ultimo e il mio unico libro». Ancora:«[ ... ] quando ci ho messo mano non sono assolutamente riuscito a mantenermi fedele all'ipotesi, da cui pure ero partito, di confezionare una semplice antologia, un semplice volume di selected poems, e ho cominciato invece a sentire il bisogno di selezionare, certo, ma anche di ripensare e in qualche modo riorganizzare, e al limite, 'riscrivere' tutto il mio lavoro ... ». Antonio Porta Ci si mette su una buona strada interpretativa individuando due passaggi fondamentali che segnalano il punto di vista che ha ispirato la nuova opera («il miQ.ultimo e il mio unico libro») e la dichiarazione di un «montaggio» tutto inedito del lavoro che si è andato accumulando dal 1953 al 1987. Punto di vista e montaggio sono due momenti essenziali per la costruzione di un romanzo, anche solo da un lato semplicemente tecnico; dunque non sarà illecito parlare di romanzo a proposito di un libro di poesie, e di «romanzo poeticamente essenziale» parla anche il risvolto editoriale. Aggiungerei una seconda definizione possibile e plausibile: romanzo familiare costruito con immagini, che è la definizione di un film. Il montaggio è il film, come è noto, dunque il montaggio fa il racconto, e solo un racconto cinematografico può avvicinarsi a quello costruito dalle sequenze della poesia. 2. Insisto su montaggio e costruzione. Leggendo qui e là e poi tutto di un fiato A tanto caro sangue ci si rende conto che per smontare e rimontare con tanta decisione il proprio lavoro poetico Giovanni Raboni ha cambiato timbro di voce; ha lasciato da parte sfumature e teneri indugi che caratterizzavano alcune sue poesie e ha scelto un piglio forte, perfino crudele e violento, per costringere l'intera sua esistenza a dirci la verità, con le buone o con le cattive. «Il mio ultimo e unico libro» è una decisione suprema che conta come tale; siamo tutti sicuri che Raboni ci darà altre opere di un tempo successivo, ma il tempo reale di questo romanzo è stato definito una volta per tutte. Perfino le poesie che avevamo letto e inteso come insinuanti e un poco cedevoli, si sono rapprese una volta inserite nella struttura del romanzo, hanno perso l'antico alone per affilare le armi di una comunicazione necessaria e perfino perentoria, quella caratteristica di un rendiconto finale. 3. A tanto caro sangue non è un «Teatro della morte» analogo a quello annunciato e praticato da Kantor; il punto di vista della fine non comporta qui un discorso che arriva dal dopo, piuttosto suscita un'oscillazione violenta tra l'essere vivi e l'essere morti, quasi non ci potesse essere scelta tra le due condizioni; si intrecciano di continuo nel dubbio di come siamo davvero (vivi o morti?) con un'opzione dichiaratamente religiosa per la vita: «se non fosse per questi
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