Alfabeta - anno X - n. 109 - giugno 1988

Alfa beta 109 A più voci L'ar • 1. Pensare è una faccenda tutt'altro che semplice. Secondo Martin Heidegger, finora gli uomini hanno agito troppo e pensato poco raccontando a se stessi, in particolare dall'era moderna, all'incirca l'opposto. Con tutta la nostra scienza non abbiamo ancora imparato che cosa significa pensare. Procediamo febbrilmente nell'adattare il mondo circostante a noi stessi in modi sempre più capillari e sofisticati, fino a minare le basi più elementari della nostra esistenza di specie, convinti in buona fede di padroneggiare lo strumento degli strumenti: il pensare. È solo con il fantasma della catastrofe ecologica che siamo presi (ma ancora marginalmente) dal dubbio: stiamo pensando con la dovuta complessità (epistemologica) la complessità (vivente)? Dubbio imbarazzante, poiché impone che si dubiti di noi stessi, del nostro stesso pensare. È il dubbio sistematico applicato - diversamente che in Cartesio - anche a se stesso. Ma è l'Hic Rodhus di ogni pensiero che si voglia ecologico: non il mito dell'Arca(dia) perduta; non le bandiere verdi issate in luogo di quelle rosse; non una descrizione semplicemente più ricca e articolata delle cose del mondo. Ma l'interrogazione costante sui sottili presupposti impliciti nel nostro pensare, quello quotidiano e quello specialistico. Come suggerisce Gregory Bateson: «Se volete comprendere il processo mentale, guardate l'evoluzione biologica e, viceversa, se volete comprendere l'evoluzione biologica, guardate il processo mentale». Seguendo questa cifra, può capitare di imbattersi in maestri dell'ecologia della ·mente alquanto inattesi al senso comune ecologico, come ad esempio Sherlock Holmes. Si prenda il seguente dialogo tra il celebre detective e il fedele Watson. Watson: «Sospetta di qualcuno?» Holmes: «Di me stesso». Watson: «Cosa?» Holmes: «Di raggiungere delle conclusioni troppo affrettate». 2. Il riferimento a Holmes non sembri troppo improvvisato: è A. Graham CairnsSmith, docente di chimica all'università di Glasgow, a proporlo nel suo eterodosso Sette indizi sull'origine della vita, (Napoli, Liguori, 1986), brillante versione divulgativa di un precedente volume specialistico. Una serie di puntuali citazioni dai racconti di sir Conan Doyle fa da contrappunto allo stringente percorso analitico del testo riuscendo non soltanto a farci sorridere, ma anche a farci riflettere. Il modo di pensare, si suggerisce, è l'ingrediente principale di cui sono fatte le teorie scientifiche. «È caratteristico delle persone intelligenti - leggiamo a p. 68 - il fatto di non capire cose che per gli altri sono chiarissime. Newton non capiva la gravità, che per chiunque altro era un fatto ovvio. (Perché questa mela si muove verso la Terra?). Einstein non capiva la luce. (Cosa succederebbç se qualcuno cavalcasse un fascio di luce e guardasse nello specchio?). E naturalmente Sherlock Holmes era sempre incuriosito da cose apparentemente ovvie e triviali. Capire è bene, ma non capire può essere molto interessante. Ecco perché in questo libro si insiste tanto su ciò che è terribilmente difficile circa il problema dell'origine della vita.» Cairns-Smith- che tra l'altro è anche pittore (mancato, usa schermirsi) e ottimo sommélier - ha tutte le carte in regola per invitarci a una lettura trasversale dei «dati» fiSergio Manghi nora a disposizione circa l'origine del DNA. Oltretutto, l'ipotesi stessa del volume - in breve: che l'origine della vita sia debitrice non tanto del carbonio quanto dei silicati dell'argilla - sembra fatta su misura per sollecitare le energie più riposte del no- ·Stro immaginario, tanti sono i miti dell'antichità che la prefigurano, dal soffio fecondatore di Yahweh sulla creta-AdaJllo, al Golem della tradizione ebraica, al Cecrope balzato dal suolo ateniese per originare l'umanità. 3. Le convinzioni più diffuse nella comunità scientifica circa la lettura dei primi organismi sono sintetizzate dalla ben nota metafora del brodo primordiale, formatosi negli oceani grazie a un'atmosfera simile a quella attuale di Giove, ricca di gas non ossidati (metano, ammoniaca, idrogeno). L'evoluzione della vita sarebbe cioè stata preceduta dall'evoluzione chimica che le avrebbe fornito i materiali di base (amminoacidi, zuccheri, ecc.). S~nonché, gli esperimenti che hanno tentato di ripetere l'origine della vita a partire da quest'ipotesi (o da altre analoghe) hanno raggiunto risultati assai scarsi. Ebbene, per Holmes-Cairns-Smith ciò non è dipeso da limiti di laboratorio, ma dal fatto che la pista lungo la quale ci si ostinava a perseguire quei risultati è falsa. Meglio: il modo di pensare con cui si cercava la pista è fuorviante. Ovvero: ci si ostinava a ritenere ovvio che ciò che appare cruciale e universale nel vivente oggi - il DNA, la sua capacità di auto-replicarsi producendo in proprio le proteine di cui abbisogna - dovesse anche essere la causa prima della vita. Ma se abbiamo di fronte un ordinato arco di pietre, obietta il Nostro, non siamo obbligati a supporre che sia stato «causato» dalle parti di cui è composto (le singole pietre), venutesi a combinare in quella forma in modo del tutto casuale e in condizioni del tutto fortuite. Perché non supporre ad esempio, in via alternativa, che quell'arco sia ciò che rimane di un mucchio di pietre dopo un lungo processo di sfaldamento che ha fatto scomparire le pietre-supporto? Il fatto che queste ultime non siano oggi più visibili, non le renderebbe per questo meno fondamentali. «Caro Watson, è possibile che non vi siate accorto che il caso ruota intorno al bilancere mancante?» L'attuale meccanismo molecolare avrebbe insomma potuto evolversi in simbiosi con un'impalcatura che l'ha preceduto e favorito. Tale impalcatura, a propria volta, avrebbe potuto esser costituita da minuscoli cristalli d'argilla, materiale inorganico «a bassa tecnologia» ma già dotato di un'organizzazione capace di una relativa autonomia e di una discreta capacità di evolvere per autoreplicazione. Dei «geni di cristallo», così li chiama Cairns-Smith, presenti in gran copia sulla crosta terrestre, che si sarebbero gradualmente trasformati in molecole organiche. Dopo una prolungata convivenza fra quei geni primitivi e le prime molecole organiche, attraverso una progressiva «usurpazione genetica», l'arco sarebbe divenuto capace di reggersi da sé rendendo superflue le pietre-supporto, ridotte oggi di conseguenza allo stato di «anelli mancanti». 4. Viene in tal modo ribaltata, nientemeno, l'opinione più accreditata intorno all'origine della vita. Cioè intorno a una questione di importanza capitale che inve- .. ste direttamente e drammaticamente la cultura del nostro tempo e che troppo spesso si è lasciata agli orticelli segregati degli specialisti. Non sono né un chimico né un biologo e non posso valutare l'attendibilità degli affascinanti esiti cui perviene CairnsSmith (cui non sono peraltro mancati autorevoli segnali d'attenzione). Ma mi pare una misera operazione quella che tentasse di ridurre il suo lavo~o a quegli specifici esiti. Non soltanto perché l'autore è il primo ad aumentare le difficoltà insite nell'impiego di termini come «geni di crista~- lo», «usurpazione genetica» e altri. Ma soprattutto perché il suo racconto di come potrebbe esser stato commesso il «crimine originario» ci fa accedere ai primi passi di un possibile nuovo e appassionante capitolo del sapere. Un capitolo chissà, forse paragonabile, come si è spinto a congetturare un Primo Levi su «La Stampa» in una bella discussione del libro, a quelli di Newton e Darwin. E comunque uno sforzo intelligente di inscrivere il problema di che cosa sia la vita in una prospettiva di complessità alternativa alle ortodossie riduzioniste finora dominanti. 5. -Per apprezzare la portata dell'eterodossia insita nell'ipotesi che la vita nasca dalle argille occorre risalire a poco meno di vent'anni fa, a quando cioè Jacques Monod affermava nel suo celebre Il caso e la necessità che ormai, con la scoperta del DNA e con la nozione di «programma genetico», il mistero della vita era definitivamente svelato. Invano qualcuno faceva notare che con quel passo pur cruciale si aprivano altrettanti problemi quanti se ne chiudevano (la chiarezza dell'idea del codice genetico come programma, immagine tratta dalla cibernetica, diventa in realtà, trasposta dall'ambito artificiale a quello naturale, il mistero di come un sistema sia in grado di programmarsi da sé, osserva Henri Atlan). Invano qualcuno chiedeva se tanta ansia di «verità ultima» non denunciasse la natura intimamente mitico-religiosa di un certo presunto «materialismo» (è il Monod-ateismo che si oppone al mono-teismo, recitava un gustoso calembour di Edgar Morin). Invano altri ancora si ingegnavano a mostrare che le cose non potevano stare in quei termini così semplificati, atomistici e riduzionisti. Il nuovo paradigma con al centro il mito del gene e una visione «ortodossa» della macchian neo-darwiniana, appariva molto potente, capace di orientare ricerche di laboratorio, osservazioni etologiche, teorie evolutive, progetti di controllo dei fenomeni biologici, comportamentali e - alla lunga - sociali. Chi vi si opponesse era definito spregiativamente vitalista, oscurantista o metafisico. A chi, dal lato delle scienze sociali e umane, avvertisse l'urgenza di un ponte - un passaggio a Nord-Ovest - in direzione dell'evoluzionismo e delle scienze naturali, non era consentita altra scelta che quella fra vestire i colori del gene-riduzionismo e combattere una battaglia di retroguardia, tutta in negativo, contro le rozze incursioni di etologi e sociobiologi in campo umano. 6. Ma per lo più l'effetto del dogmatismo neodarwiniano sullo studio dell'uomo era la semplice conferma del dualismo cartesiano mente-natura già profondamente radicato nella nostra cultura. Del resto, non aveva scritto lo stesso Monod che la comparsa del codice genetico (l'arco di piepagina s j tre di Cairns-Smith} era un evento tanto improbabile che il suo esito estremo, lanascita dell'uomo, faceva di quest'ultimo, in pratica, una realtà assolutamente estranea alla natura, uno «zingaro nell'universo»? Occorre attendere gli anni ottanta perché si facciano strada, uscendo dall'isolamento e connettendosi fino a formare un arcipelago, un quasi-paradigma, ipotesi eterodosse intorno alle origini, al funzionamento e all'evoluzione della vita, ispirate all'idea di autonomia dei sistemi naturali e di complementarità fra i diversi livelli organizzativi del vivente. La nuova alleanza uomo-natura auspicata da Prigogine è apertamente polemica verso la metafora dello zingaro nell'universo. Le teorie saltazioniste dell'evoluzione (Gould-Eldredge) incrinano il pregiudizio gradualista che impediva la comprensione delle macro-emergenze viventi più complesse. Altri lavori, all'incontro fra teorie sistemiche à la Bateson e originali riletture piagetiane, pongono i meccanismi cognitivi alla base del comportamento e dello stesso processo evolutivo (Maturana-Varela). Sempre più numerose sono ormai le ricerche che avvalorano quel nuovo senso comune indispensabile a non trattare l'eterodossia in materia di vivente come residuo non vinto di istanze spiritualistiche o come curiosità letteraria .per animi stravaganti, ma come avvio di una logica della complessità in grado di ridisegnare la mappa dei saperi. 7. Il lavoro di Cairns-Simith si colloca a pieno titolo entro questo scenario, facendo uscire allo scoperto la discussione su uno dei suoi punti chiave, quello dell'origine della vita. L'ipotesi delle argille potrà anche non risultare pienamente confermata (e lo stesso autore non lesina i forse), ma il sasso è gettato. Quale che sia la risposta più attendibile, essa non potrà più «ingenuamente» applicare ai sistemi naturali un modo di pensare buono per i sistemi artificiali: «Noi - troviamo ribadito a p.76 - possiamo costruire una macchina facendone prima un disegno, poi elencando una lista di componenti necessari, in seguito acquistando i componenti e infine costruendo la macchina. Ma questo non può mai essere il modo di funzionare dell'evoluzione. [... ] È l'intera macchina che dà senso ai suoi componenti». Quale che sia la risposta più attendibile, essa non potrà più «ingenuamente» ignorare che il suo stesso intrinseco modo di pensare è responsabile primario dei prodotti del suo pensare. Finché la mente assegnerà a se stessa il compito di «stare ai dati» e racchiuderli entro un recinto meccanicista aspirando ad azzerare tendenzialmente il proprio intervento attivo e costruttivo, essa produrrà efficaci tecnologie di controllo del vivente ma non comprenderà la natura del vivente stesso. Chiamandosi fuori dall'evoluzione ne impoverirà il corso favorendo la propria stessa fine. Procederà, per tornare ad Heidegger, ad agire troppo pensando poco. Non accontentarsi, dunque, di stare ai dati: «Mi accorsi dalla faccia dell'Ispettore che la sua attenzione era stata intensamente risvegliata. 'Lo crede importante?' chiese. 'Straordinariamente'. 'C'è qualcosa che vorrebbe farmi notare?'. 'Lo strano incidente capitato al cane di notte'. 'Ma di notte il cane non ha fatto niente'. 'È questo lo strano incidente' osservò Sherlock Holmes».

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==