Alfabeta 109 per credere che la propria voce sia bastevole a che si crei un'opera. L'epoca del declino dell'altra Voce, è l'epoca della presunzione che ascoltare e far risuonare la voce dell'autore sia sufficiente per la scrittura dell'opera. Occorre allora porsi contemporaneamente il problema della Voce come scrittura donata da un Altrove, e della presunzione che origina l'idea di una scrittura totalmente in mano nostra. Che cosa implica il porsi contemporaneamente questi due problemi? 12. Presunzione «Presunzione», nella scrittura, significa supporre di possedere una scrittura distinta da quella di ogni altro, così che il proprio messaggio scritto risulta portatore di una verità unica, che nessun altro, dunque, all'infuori di noi, potrebbe scrivere. La presunzione è perciò la certezza della assoluta singolarità e irripetibilità della propria opera: è il legame inscindibile fra l'opera scritta e il nome del suo autore. In questo senso, la presunzione che alla nascita dell'opera scritta presieda uno ed un solo autore (tranne poche eccezioni) può essere fatta risalire alle origini stesse della scrittura poetica occidentale. Se la poesia orale si è venuta tramandando quale opera di più autori senza nome - se Omero è ancora un nome dal soggetto incerto - già con la Teogonia di Esiodo, dunque quasi fin da subito, il nome dell'autore si offre quale ragione e garanzia del «vero cantare» (alethéa gerùsasthai). 12 È Esiodo stesso infatti che, nel proemio della Teogonia, rivela di essere stato lui, proprio lui, di nome Esiodo, ad aver ricevuto dalle Muse l'investitura poetica, l'ispirazione per cantare «ciò che sarà e ciò che è». Le Muse dunque «una volta a Esiodo insegnarono un canto bello», «ispirarono (enépneusan) il canto divino». E questo è il vero cantare, ben distinto dalle «molte menzogne simili al vero» con cui le Muse stesse possono sviare gli altri cantori. Esiodo dunque sa che la presenza o l'assenza di verità in un canto dipende dal nome del suo autore (che può essere stato ispirato o invece sviato dalle Muse): essendo stato il primo a raccontare di aver ricevuto dalle Muse il «ramo d'alloro fiorito», Esiodo si rivela il primo autore che ha la consapevolezza di essere tale, è il primo scrittore a mostrare la presunzione di legare l'unicità dell'opera con l'unicità del proprio nome. Da allora, e quindi da sempre, tutta la storia della scrittura poetica occidentale risulta segnata da tale certezza dell'autore, al quale dunque viene attribuita, col consenso di tutti, la paternità dell'opera. Il nome dell'autore diventa un Nome del Padre (come direbbe Lacan) che attesta la veridicità e l'unicità dell'opera. Ma se una simile presunzione dell'autore esiste da sempre, perché interrogarsi proprio oggi sul suo senso? Perché dover legare il problema della presunzione a quello di un'attuale crisi dell'ispirazione letteraria? Perché l'ispirazione entra in crisi (si dilegua la sua intensità e il suo mistero) nel momento stesso in cui un autore ritiene del tutto ovvio e legittimo il fatto di essere padre e quindi possessore della propria opera. Se una simile paternità non fa problema, se non ci si chiede più come sia possibile divenire «padre» di un'opera, si finisce col ritenersi genitore unico (e quindi detentore assoluto) di essa. In questo modo però l'ispirazione non è più un'alterità, un mistero da raggiungere, tanto più intenso quanto più altro, ma si trasforma in una sorta di performance dell'autore stesso. Così, nella presunzione di essere genitore unico dell'opera, vengono a confondersi i confini che separano l'autore dall'opera e che fanno dell'opera medesima un qualcosa di misteriosamente altro anche rispetto al suo autore. L'opera diventa allora una specie di emanazione, prolungamento, esibizione della personalità dell'autore. E risulta quindi legittimo, normale, scrivere opere (brutte) anche senza ispirazione, se questo basta per confermare e rilasciare l'immagine dell'autore e delle sue capacità. Esiodo invece è chiarissimo nel mostrare come quello della paternità dell'opera sia un vero problema, connesso con il mistero dell'ispirazione. Fin da subito infatti Esiodo ci fa sapere di essere diventato padre del proprio canto solo in seguito all'incontro con le Muse, che gli donarono l'ispirazione a cantare: il canto di cui l'autore è padre, gli giunge dalle Muse come un «sacro dono» (ierè dòsis). 13 All'origine del canto c'è dunque un incontro con l'aldilà, un accoppiamento con l'Indicibile che narra al poeta quel che dovrà dire. La Voce discesa dal Silenzio è dunque la madre dell'opera, così come l'autore ne è il padre. L'autore può presumere di possedere la paternità dell'opera solo in quanto di questa stessa opera esiste anche una misteriosa maternità. 11 fascino inafferrabile che vibra in un'opera discende dalla bellezza aliena della madre. L'autore lo sa, e insegue l'ispirazione, aspetta, agogna la Voce, come se questa fosse un'amante straniera e fuggitiva. La presunzione alla paternità dell'opera è, in fondo, l'umiltà di sapere che non si diventa padri se non ci si fa incontro la Donna venuta dall'Infinito. Così, è proprio l'esistenza enigmatica e stupefacente di questa «donna», ciò a cui oggi non si pensa molto; è l'indicibilità di un simile incontro a non fare problema più di tanto. (Mentre è per il lavoro di scrittura - posto su un piano diverso da quello dell'incontro con l'ispirazione - che si può parlare di «gestazione», «travaglio», «parto» dell'opera, come se qui lo scrittore si facesse «madre» di essa. Ciò vale allo stesso modo, probabilmente, sia per un autore uomo che per un autore donna.) Saggi 13. Il canto doppio Ma c'è di più, anzi, moltissimo di più. Il non considerare la presunzione di paternità dell'opera come un problema, porta a dimenticare anche le condizioni in base alle quali un'opera può davvero dirsi unica e irripetibile. Esiodo ci fa capire che ha senso parlare di unicità dell'opera, solo se questa è portatrice di un messaggio di verità. Ma quand'è che un'opera riesce a dire il vero e non «menzogne simili al vero»? È Esiçdo stesso a rivelarlo, subito dopo aver descritto il proprio incontro con le Muse. L'unicità e quindi la veridicità della mia opera sulla Terra, racconta Esiodo, dipendono unicamente dal fatto che io ripeto quello stesso identico canto che le Muse cantano a Zeus e agli"flèi. «Orsù - comincia con lo scrivere Esiodo - dalle Muse iniziamo, che a Zeus padre/ inneggiando col canto rallegrano la mente grande in Olimpo;/ dicendo ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu,/[ ... ] esse la divina voce levando/ degli dèi la venerata stirpe per prima celebrano col canto.» Esiodo a questo punto comincia a descrivere la «teogonia», cioè appunto la generazione, la storia della «venerata stirpe» degli dèi, per poi notare esplicitamente quel che era già implicito: «Ciò dunque le muse cantavano» (taut'àra Mousai àeidon ): 1• queste cose che qui vengono scritte sono le stesse che le Muse dicono a Zeus. L'opera scritta si rivela ripetizione di un altro canto che risuona nell'Aldilà. Il canto dell'autore può dunque legittimamente dirsi unico solo in quanto doppio; l'opera è portatrice di un messaggio vero solo perché il suo autore (invece di affidarsi euforicamente al proprio estro) è riuscito a udire e trascrivere, a duplicare un Altro canto, chè già risuonava al di fuori di lui. Che la Voce dell'opera sia in realtà eco di un'altra, inudibile Voce; che una scrittura possa dirsi unica solo quando diventa raddoppiamento, imitazione di una lingua impossibile venuta dall'Infinito... Cosa significa, oggi, scrivere Tonsura del 1919 avendo la consapevolezza di tutto questo? E cosa diventa invece la scrittura quando cade nell'oblio la sensazione che la propria opera apeartenga non a noi, ma al mistero di un Silenzio che parla? E questo, probabilmente, l'enorme problema che deve essere fino in fondo meditato da chiunque, poeta o narratore, voglia rendere pubblica, oggi, la propria scrittura. 14. Il diapason del tempo Nel teatro no giapponese, durante la rappresentazione di uno spettacolo, possono sopraggiungere momenti di incanto sottile e stupefacente, in cui viene a crearsi una sorta di accordo, di risonanza tra il cielo e la terra, tra l'umanità e gli dèi. Tali momenti sono i cosiddetti «diapason del tempo». 15 Come il diapason è un registro in cui un suono si purifica e sale fino alla propria perfezione, allo stesso modo vi possono essere istanti di tempo perfetto, in cui la terra raggiunge una tonalità divina e risuona allo stesso modo in cui risuona il cielo quando i suoi abitanti «si abbandonano alla danza e al canto». Perciò, quando nel teatro no si arriva al diapason del tempo, le modalità di «percezione uditiva celesti si comunicano a questo basso mondo», e noi possiamo quindi sentire gli stessi suoni che sentono gli dèi, e nello stesso modo in cui questi li ascoltano. In effetti, una delle esperienze sconvolgenti che capitano assistendo a uno spettacolo di teatro no, è costituita dall'ascolto di suoni così inquietanti e stranianti, che non sembrano venire da questa terra. Sotto il palcoscenico sono sistemate enormi giare che, fungendo da cassa di risonanza, amplificano il suono dei passi e le voci degli attori; i tamburi emettono rombi fondi, oppure aspri e striduli; ma sono soprattutto le voci umane a risultare deformate in modo pauroso e stupefacente: i suonatori di tamburo emettono qualcosa come un grido non-animalesco-non-umano; la maschera dell'attore soffoca la sua voce tramutandola in un gorgoglio quasi inintelligibile, come meccanico. Si ha l'impressione che i suoni abbiano subito un rallentamento supremo ed ora vibrino secondo un ritmo inaudito, posto al di là del tempo. Il teatro no è una manifestazione della cultura zen, tesa a una svalutazione del linguaggio parlato, in favore di un penpagina 35 siero senza parole, di intuizioni basate su visioni improvvise, mute, assolute. Quando una cultura si distacca in questo modo dal logos e cerca fuori dal verbo la manifestazione della verità, tende per ciò stesso a trattare la voce umana non più (soltanto) come veicolo del discorso, ma anche come portatrice nascosta 'di un suono divino. Allo stesso modo, anche la cultura indiana yoga, volta a una meditazione dell'Assoluto senza l'ausilio dei concetti, si trova portata a elaborare dei «suoni mistici» (come la famosa sillaba om), sorta di parole-non-più-parole, lingua deforme, senza significato, ma che vibrando nella gola umana trasforma la voce in risonanza del cosmo. La voce umana perde la propria umanità, scinde il legame col linguaggio, si deforma per divenire, per tornare ad essere suono soprannaturale. Lasciando risuonare in sé un suono assoluto e inintelligibile, la voce diventa Visione che può essere ascoltata, come un suono che si fa vedere;16 si mostra all'udito e all'orecchio, di là dalle parole. Così ecco che nella scrittura poetica occidentale, basata su una centralità del logos e quindi sull'ascolto di un Verbo, assistiamo al movimento di un suono divino, silenzioso, assoluto, che arriva a farsi voce parlata e quindi da ascoltare, mentre nelle culture orientali, dove il pensiero si congeda dal logos per raggiungere una Visione assoluta delle cose, assistiamo al movimento inverso, di una voce umana che si distacca da sé, per raggiungere una sonorità divina. Nella recitazione del no, nella vibrazione dell'om, la voce entra in risonanza con un altro suono, ci fa udire non più la voce degli dèi, bensì il Suono del Mondo. Il mondo, il cosmo, hanno un loro suono, e la voce umana, vibrando, non più chiusa sulle parole, ma aperta e vuota come una cassa di risonanza, lo fa sommessamente «rombare» dentro-fuori di noi. Ora, noi forse stiamo vivendo oggi una crisi della cultura centrata sul Logos e sul Verbo, non tanto per un'influenza (ancora minima) delle culture orientali, quanto perché proprio la scienza e la tecnologia ci stanno sempre più mostrando fenomeni naturali, prodotti sociali che non hanno misura comune con la voce, con il linguaggio umano. Le immagini che ci giungono dagli altri pianeti o dai microscopi elettronici, la descrizione del «buco di ozono», il fantasma della «bomba», ma anche lo schermo del computer dove si concretizza in tempo reale una pagina di scrittura assolutamente silenziosa, o lo spettacolo di un mondo che si autorappresenta come Spettacolo, tutti questi fenomeni ipervisivi ed evanescenti si danno come Visioni senza Voce, eventi la cui portata non riesce ad essere sostenuta, spiegata, rappresentata interamente dalle parole, dal logos. Senza voce, questi eventi hanno però un «suono». Quando appaiono, ne avvertiamo. per così dire, il «rombo». Anche semplicemente scrivendo sul computer, si intrasente che la scrittura silente vihra di una sua misteriosa risonanza. Ed è proprio in questa risonanza inafferrabile, forse, che si cela il fascino e il mistero della scrittura ipervisiva. L'epoca del declino della voce narrante è anche l'epoca in cui emerge il suono del mondo. Così, scrivere in questa epoca significa saper ascoltare al tempo stesso il canto della Voce divina che si allontana e la Risonanza del suono del mondo che si avvicina. Leggendo le opere di certi autori come Borges o Jabès o la Duras, si ha forse proprio un'impressione di questo genere: si sente una Voce che si è fatta fredda e ostica, o remota e dolente, o intermittente, a volte troppo astratta, a volte troppo umana - e contemporaneamente ci si accorge che l'opera trema per una sorta di rimbombò anonimo, e che proprio questo è il rimbombo del nostro tempo. Tale dunque è probabilmente lo scenario in cui si trova immersa la scrittura poetica contemporanea: la Voce ha tolto la propria Presenza, ci si offre ancora, ma allontanandosi; la pagina scritta, il più delle volte rimane inerte, inessenziale, voceportavoce del solo autore; ma essa a volte parlando trema, perde la propria vocalità, entra in risonanza con un altro suono che si leva vibrando all'unisono con la parola scritta; la scrittura poetica, oggi, si trova chiamata a farci ascoltare il Suono del Mondo; è questo il compito alla cui altezza, ancora, non siamo giunti. Note (1) H. Binker, E. Fischer, Treasuresfrom the Rietberg Museum, The Asia Society inc., New York, 1980, pp. 169-170. (2) Murasaki, Storia di Genji, il principe splendente, Einaudi, Torino, 1957. (3) lliade, II, 484-486, Einaudi, Torino, 1963, trad. di R. Calzecchi Onesti. (4) Bonagiunta da Lucca. (5) Purgatorio, XXIV, 52-62. (6) A. Prete, li demone dell'analogia - da Leopardi a Valéry: studi di poetica, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 9. (7) Ivi, p. 114. (8) Cfr. W. Ong, Oralità e scrittura - Le tecnologiedellaparola, li Mulino, Bologna, 1986. (9) U. Eco, Postille a «Il nome della rosa», Bompiani, Milano, 1984. (10) A. Porta, La rissa «culturale», «Alfabeta», n. 107, aprile 1988. (11) Cfr. ad esempio la prefazione di O. Cecchi e M. Spinella a 19 Racconti per Rinascita, allegato a «Rinascita», n. 50, 26 dicembre 1987. (12) Esiodo, Teogonia, vv. 1-35, Rizzoli, Milano, 1984, trad. di G. Arrighetti. (13) Ivi, v. 93. (14) Ivi, vv. 35-75. (15) Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro no, a cura di R. Sieffert, Adelphi, Milano, 1966, pp. 159-160. (16) Per quel che riguarda invece le implicazioni fra visione e ascolto nella filosofia occidentale, cfr. Il pensiero guarda ascoltando, in P.A. Rovatti, Il declino della luce, Genova, Marietti , 1988.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==