Alfabeta - anno X - n. 109 - giugno 1988

pagina 34 7. La Differenza nello stile Se la scrittura poetica è la trascrizione di una Voce inudibile, lo stile (la grandezza di uno stile) è tale in quanto vibra al suo interno una differenza: essa consiste nella inafferrabile coincidenza-non-coincidenza fra la lingua scritta (dell' autore) e l'altra lingua con cui la Voce ha parlato: divina lingua senza scrittura, canto inaudito delle Muse, che la lingua dello scrittore ha cercato di tradurre, di copiare. Così la scrittura poetica nasce «all'ombra di un'altra lingua [... ] anteriore a ogni scrittura»6 e la differenza di uno stile .si misura dunque nel confronto con la lingua assente, si trova posta «sotto lo sguardo di quella lingua senza lingua, di quel prima e dopo la lingua che è il canto delle Muse». 7 8. La voce delle Muse di fronte al libro stampato Ma è ancora possibile riandare al canto delle Muse per comprendere il senso attuale dell'ispirazione letteraria? L'invocazione a che le Muse facessero udire il loro canto nasceva in un tempo in cui la poesia scritta dipendeva ancora profondamente dalle forme della poesia orale, da una poesia cioè che si dava immediatamente come voce. Con la nascita del libro, o meglio, con il diffondersi del libro stampato, 8 la parola si lascia innanzitutto vedere, può sussistere anche senza farsi più sentire. Il passaggio della parola poetica dal registro dell'ascolto (nella poesia orale) a quello della visione (nel libro stampato) non segna la fine dell'esperienza della Voce, quale fonte imprescindibile dell'ispirazione? La Voce, forse, si allontana, si fa nascosta, ma non svanisce: diventa voce immateriale della scrittura, suono inudibile del libro. Nei tempi antichi i libri erano fatti per essere letti ad alta voce (anche trovandosi in solitudine); è con la modernità che si diffonde l'esperienza della lettura silenziosa. Ma proprio tale esperienza può rendere ancora più intensa la percezione della Voce quale presenza senza dimensione, inafferrabile, «voce» del libro che si fa sentire senza farsi udire. È la stessa lettura silenziosa che dà origine all'impressione di star tacitamente ascoltando ciò che si sta vedendo (leggendo). Ma c'è di più: se la propensione alla scrittura dipende anche dal bisogno di scrivere quel che non si riesce a dire, allora l'esperienza della scrittura finisce per trovarsi inscindibilmente legata a quella della insufficienza della propria voce. La parola pronunciata, la voce che parla, non basta al vero Dire, a tutto quello che ci si sente chiamati a dire. Quando un autore giunge in questo modo alla scrittura, il venir meno della propria voce si trasforma forse inevitabilmente nel sogno di un'altra voce, voce scritta che sappia silenziosamente dire ciò che non è possibile pronunciare. E in questo senso la scrittura poetica finisce sempre per doversi misurare con la presenza-assenza di un'altra voce; nella parola scritta, proprio in quanto scritta (trasposta da suono in immagine) rimane sempre il fantasma di una voce. 9. Nell'epoca del declino della Voce Occorre tuttavia chiedersi se oggi, proprio oggi, l'ascolto della voce narrante non si sia venuto trasformando in un'esperienza sempre più problematica. È ancora possibile, per un poeta o un narratore, scrivere ponendosi nell'ascolto di una Voce? Il nome della rosa, una delle opere più significative del nostro tempo: come in parte ha raccontato, in parte lasciato capire Umberto Eco, il libro si è venuto costruendo (occorre aggiungerlo: mirabilmente) attraverso la rielaborazione di citazioni tratte da innumerevoli altri libri.9 Il nome della rosa è un grande romanzo senza Voce; o meglio, 'la sua voce è l'eco di tutte le voci dei libri di cui è una più o meno occulta citazione. Ma - a parte il caso eccezionale di Eco - è possibile che la medietà, la non straordinarietà di troppe opere attuali dipenda dal fatto che l'autore non è riuscito a udire e a far risuonare una Voce altra, una voce che non sia cioè né la propria, né quella presa a prestito da opere altrui o del passato? 10. Crisi della possibilità di un ascolto Se si è fatto difficile, oggi, udire il «canto delle Muse», è perché forse, sono entrate in crisi le condizioni e le dimensioni in base alle quali era possibile un'autentica esperienza dell'ascolto. Infatti: 1. Dal registro acustico al registro visivo. Far discendere la scrittura poetica dall'ascolto di una Voce, significa accondiscendere a che, nella scrittura, il registro visivo sia sostenuto e quindi dipenda dal registro acustico. Mentre oggi l'esperienza di fronte a cui ogni artista si "trova è quella di una dominanza, di una autonomia del registro visivo. Lo schermo, il video, la foto, il cinema si fanno fonte di ispirazione, modello da raggiungere. Scrivere un romanzo un po' come se fosse la sceneggiatura di un film; oppure scrivere un racconto come se si trattasse di descrivere alcuni fotogrammi... Fare della scrittura una funzione, una rappresentanza dell'Immagine: non è forse a questo che guardano molti scrittori? 2. Dalla dimensione unica alla multidimensionalità. Se nell'opera la Visione è portata e sostenuta da una Voce, se la scrittura poetica dipende dalla trascrizione di una Voce, ciò significa che la Voce si dà quale dimensione unica e assoluta, capace di riportare e sostenere in sé ogni altra dimensione. La Voce.basta a se stessa e l'opera quindi, che della Voce è testimone, non ha bisogno di altro che della Saggi •propria presenza per testimoniare tutta la verità. Ma oggi, forse - nell'epoca dei media e di una visione pubblicitaria, spettacolare del mondo - affinché una verità sia accolta come tale, affinché un evento sia riconosciuto degno di considerazione, il messaggio deve ripetersi più volte, ripresentarsi su più dimensioni. E così, l'opera scritta non sembra più sufficiente per assicurare l'importanza del messaggio, testimoniare la verità di cui dovrebbe essere portatrice, se contemporaneamente non si mostra in pubblico anche l'immagine spettacolarizzata del suo autore. Perciò accade spesso che gli scrittori siano chiamati a presentarsi in televisione, sulle classifiche dei giornali, come se dovessero convalidare, dimostrare con la loro presenza, il valore di un'opera che di per sé sola non sembrerebbe in grado di giustificare la propria esistenza. L'autore stesso, si direbbe, avverte una sorta di oscuro dubbio sulla validità, sull'autosufficienza del proprio lavoro, e cerca di negarlo, attraverso un lavoro pubblicitario per ottenere il consenso del pubblico, voce di verità che rinforza la voce insicura dell'opera. Come dice Antonio Porta: «A me pare che la maggior parte degli scrittori, e perfino dei poeti, abbia perso fiducia nell'opera, che richiede ferree capacità di resistenza e infinita applicazione, e punti allora tutta la posta in gioco sulla pubblicità di se stessi. Il narcisismo, l'ipertrofismo dell'io da difetto viene trasformato in merce di scambio.»10 L'immagine dello scrittore che parla di sé, l'immagine del libro premiato o entrato nelle classifiche, diventano le dimensioni supplementari o addirittura fondamentali, che garantiscono il senso dell'opera, rivelando così che la dimensione autonoma dell'opera, l'unicità della sua Voce, appaiono oggi troppo poco se non vengono sostenute dall'esterno. Un'opera, oggi, per diventare tale, deve uscire da sé, lavorare anche (soprattutto?) alla propria dimensione spettacolare, pubblicitaria. Tiré à 4 épingles (Tirato a lucido), 1959 3. Dalla lentezza alla simultaneità. Oggi, grazie ai media, all'informatica, ai processi sociali di «velocificazione», la forma dominante del tempo sembra essere quella della simultaneità e della multidirezionalità. È il computer stesso a proporci l'immagine di una scrittura che in assoluto silenzio procede contemporaneamente avanti e indietro. Immateriale, giunta da un nessun-dove, vivente in un non-si-saquando, la Voce non ha propriamente dimensioni spaziotemporali (se si offre come dimensione unica e assoluta è perché è senza dimensione). Ma se ci si limita a ritenere vincente la forma moderna della simultaneità, allora l'immagine di una scrittura che man mano procede seguendo il filo di una voce, facilmente si accompagnerà all'impressione di un tempo lineare e unidirezionale che troppo faticosamente scorre avanti. Non è ormai superata la figura dello scrittore che, con la penna e la pagina bianca, avanza pianissimo ascoltando il suono di ogni parola, disponendo una parola dietro l'altra? Per rendere conto del tempo multidirezionale e accelerato in cui viviamo, non occorrerebbe invece una scrittura rapida, «simultanea», computerizzata, perfettamente padroneggiabile attraverso uno schermo? È possibile che oggi si stia procedendo irreversibilmente verso questa scrittura ipervisiva, che appare di colpo allo sguardo, del tutto svincolata dal gesto (primitivo, artigianale) della mano che verga. Può una simile scrittura mantenere ancora un legame con l'ascolto, con la voce? E se l'esperienza dell'ascolto dipettdesse in buona parte proprio dalla lenta manualità, dal ritmo corporeo con cui la penna segue il cammino della scrittura sulla pagina? 4. Dalla durata all'evanescenza. Se le visioni, facilmente, si presentano improvvise, inaspettate, subitanee agli occhi di uno scrittore, per contro la Voce (la voce giusta per narrare la visione) arriva in genere solo lentamente, dopo molto tempo. La Voce va aspettata, occorre lasciare che passi del tempo prima di poterla udire (Proust ha atteso fin quasi ai quarant'anni, Theodor Fontane fino ai sessanta; Thomas Mano è arrivato ai settant'anni, prima che si facesse sentire la Voce con cui narrare la visione del Doctor Faustus avuta in giovinezza). Non solo: per scrivere tutta un!opera, la Voce deve anche tenere, durare a lungo, farsi sentire sempre con lo stesso tono, riuscire a mantenere l'identico ritmo Alfabeta 109 per tutta la stesura dell'opera, cioè eventualmente anche per degli anni. Sono ancora possibili - nell'epoca della velocificazione e della simultaneità, nel tempo dei fenomeni evanescenti - questa attesa e questa durata? È forse per l'impossibilità o l'incapacità di sostenere a lungo l'ascolto della Voce, che oggi si assiste a un «ritorno del racconto», 11 della narrazione sempre più breve? È per un'impazienza epocale, perché non si è più capaci o non si sa nemmeno di dover attendere, che oggi ci si mette facilmente a scriyere prima dell'arrivo della Voce, e quindi lasciando che parli (senza particolari pudori) lapropria voce, al posto dell'altra che non ha fatto in tempo ad arrivare? 5. Dal silenzio al rumore. Perché una Voce si faccia udire, occorre entrare prima in una dimensione di silenzio, aspettare, non soltanto a lungo, ma anche in solitudine, in lontananza. È solo accondiscendendo a «ritirarsi» lontano da ogni rumore, dalle «chiacchiere» del mondo, che è possibile acuire la propria sensibilità, purificare il proprio ascol-' to, fino al punto di udire il canto di una voce silenziosa. Ma è ancora facile, oggi, allontanarsi nel sil~nzio, abbandonarsi a una lunga solitudine, per poter ascoltare e scrivere? Lo scrittore viene facilmente sollecitato a presentarsi, comparire da più parti, produrre l'intervento veloce e breve. Se non ci sifa vedere spesso, sorge il pericolo, il fantasma dell'essere prestissimo dimenticati, in favore dello scrittore protagonista che interviene, presenzia, dice o scrive subito quello che pensa. Si incentiva così la produzione di una scrittura su occasione, su commissione (in funzione del dibattito, della rivista, del convegno a cui conviene partecipare). In questo modo lo scrittore (anche suo malgrado) si trova mutato in un «operatore» che deve produrre scrittura lavorando quasi in pubblico, in una condizione di ritardo, di fretta perenne. Se si deve soverchiare un rumore continuo, per riuscire soltanto a far sentire, a non far dimenticare la propria voce, come si può contemporaneamente tacere, viaggiare verso il silenzio, la solitudine, la remota immobilità, là dove si manifesta il suono dell'altra Voce? 11. Dal dono delle scrittura alla prestazione di scrittura Prender coscienza delle difficoltà che attualmente si pongono all'esperienza di un ascolto della voce narrante, non significa in alcun modo credere che per superarle occorra tornare i~dietro, recuperare o salvare quelle forme di scrittura che si davano nel passato. Le nuove modalità con cui attualmente si produce l'informazione, hanno mutato irreversibilmente le condizioni di lavoro dello scrittore. Fra breve, probabilmente, nessuno scrittore farà a meno del computer, potrà permettersi di non comparire sui media. I condizionamenti del mercato, la telematica, la diffusione di una cultura della pubblicità e dello spettacolo, trasformano inevitabilmente lo scrittore da artista solitario in un nuovo tipo di operatore culturale. Questo, in sé e per sé, non è un male. Ma se uno scrittore si limita a subire la trasformazione, aderisce ad essa accettandone gli allettamenti, finirà quasi senza accorgersene per concepire la propria scrittura quale una prestazione personale e non più quale «dono de~ gli dèi». Che significa dire che la scrittura poetica è un dono divino? Significa sapere che la scrittura si fa fino in fondo poetica, solo se lascia risuonare e tralucere, se accoglie in sé una presenza innaturale, un qualcosa di indefinibile, di fuori misura, che sembra essere disceso nella scrittura proprio per renderla possibile e darle un' «anima». Vedere nella scrittura una prestazione personale, porta invece a credere che la scrittura possa essere descritta come una capacità individuale, e che la scrittura poetica si riduca quindi in ultima istanza a una manifestazione di sé. In questo modo lo scrittore può a buon diritto offrire sul mercato la propria immagine di detentore unico, possessore a tutti gli effetti di una scrittura individuale; ma la scrittura poetica, persa la dimensione misterica e straordinaria, senza più anima divina, finisce per ridursi ad arte minore, continuamente minacciata dalla inessenzialità della propria esistenza. Ora, il fatto di essere entrati in un'epoca di scrittura ipervisiva e di crisi o declino della voce narrante, non esclude in sé e per sé, la possibilità di un ascolto. Mutano le condizioni dell'ascolto, ma questo non significa che un ascolto si sia fatto impossibile. E però: in che senso mutano? Come ci si deve disporre per continuare ad ascoltare? Che tipo di percorso occorre intraprendere, per trovare una scrittura poetica che sia al tempo stesso moderna e misterica, cioè disposta ad accogliere la venuta dell'assolutamente Altro, dell'Infinito? È questo che non sappiamo. Ma non lo sappiamo perché non ce lo chiediamo. Se-appaiono forse più rare, oggi, le opere cresciute nell'ascolto di una Voce, ciò non dipende dal suo inevitabile, storico declinare, quanto piuttosto dalla nostra indisponibi- . lità a contemplare il tramonto della Voce. Anche una voce che si allontana ha il proprio canto, lascia che si levi una risonanza. Ma noi non sentiamo nulla. È come se per un eccesso di condiscendenza verso le nuove possibilità di scrittura, si trascurasse di ascoltare la chiamata della Voce che si va affievolendo; senza accorgersene, viene lasciata cadere nell'oblio la consapevolezza stessa del fatto che per scrivere bene occorre innanzitutto saper ascoltare l'Inascoltabile. Così, per affrontare il problema di una crisi dell'ispirazione letteraria, occorre forse misurarci soprattutto con la nostra ignoranza: scriviamo, oggi, senza sapere cosa sia la Voce e il suo ascolto, non ci rendiamo sufficientemente conto che la Voce fa problema. In questo modo si finisce

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