Alfabeta 109 Saggi pagina 33 Dee • o dellavocenarrante e ' è al museo Rietberg di Zurigo un ritratto - eseguito da Kuwayama Gyokushfi. (1746-1799)- del famoso poeta giapponese Matsuo Bashò (16441694). Si tratta di un rotolo di carta dipinto a inchiostro, alto 97 cm, largo 30. La figura di Bashò appare chiaramente idealizzata, ma proprio per questo tanto più significativa. Vecchio e barbuto, il poeta siede alla finestra di una capanna; davanti a lui, su un piccolo desco, c'è il calamaio e un foglio ancora bianco; un cappello di paglia pende dalla parete. Bashò non sta ancora scrivendo: con un sorriso di enigmatica calma, di sacra e ironica serenità, guarda verso un'indefinibile lontananza. I. Bashò alla ricerca dell'ispirazione Vicinissimo a lui, un albero nodoso, dai piccoli ciuffi neri e fronzuti, cresce sovrastando di poco il tetto della capanna. Dall'alto, giù verso i rami e la capanna, al posto di un cielo non dipinto, scende invece una pioggia di ideogrammi; è un insieme di caratteri scomposti, alcuni sottilissimi, altri più neri e spessi; occupano tutta la parte superiore del quadro, calano in incerte file verticali sul luogo dove siede Bashò: sono i segni di una poesia scritta da Katsumi Jirifi. (17731803), in cui si narra del viaggio solitario compiuto da Bashò sulle montagne del Giappone settentrionale, alla ricerca dell'ispirazione poetica. Il ritratto ci mostra dunque Bashò durante una tappa del suo cammino in quelle contrade che egli chiamava Genju-an: l'«Eremo della visione». 1 2. Oriente: l'abbandono della Voce Bashò, invece di scrivere, rimane immobile e contempla. Forse in questo modo Gyokushu vuol farci capire che alla fonte della poesia c'è un Vedere o che, nella scrittura, più importante dello scrivere stesso è la visione. In effetti, noi non vediamo ciò che Bashò sta guardando, ma vediamo la poesia apparire, come se fosse l'atto stesso del vedere, (di un intenso, silenzioso vedere) a permettere la nascita, la manifestazione della poesia. Le parole della poesia si danno quindi come un'apparizione da contemplare, nello stesso momento in cui appare, e si offre alla contemplazione, anche l'immagine della Cosa di cui la poesia parla: la figura di • Bashò dipinto nel Genju-an, l'Eremo della Visione, la sorgente da cui nasce la poesia. Eremo: luogo dove non c'è nessuno e dove quindi non si ode alcuna voce: è in un assoluto silenzio del linguaggio parlato che il poeta trova l'ispirazione poetica, cioè le parole della poesia. Eremo della Visione: per farsi poesia, la parola deve dunque perdere la propria voce consueta, darsi non più quale suono articolato, bensì quale visione che appare nel silenzio. Abbandonando la propria vocazione al Dire, la parola si sottrae nel silenzio, ed è proprio in questo assoluto tacere, che la Cosa di cui la poesia parla, può emergere per offrirsi ai nostri occhi. Implicitamente il quadro di Gyokushu sembra volerci far capire che la voce della parola è rumore (della chiacchiera), discorso (mondano) che soffoca la pura manifestazione della poesia e della sua cosa. Negandosi al dire abituale del discorso, nella solitudine totale dell'eremo, la parola si congeda dalla propria voce per riapparire come Visione della cosa. È .questo, forse, il movimento originario in cui si cela l'essenza della scrittura poetica orientale: uno sprofondare della Voce nel Silenzio, affinché la parola faccia vedere la cosa, invece di parlarne. Nella storia del Principe splendente2 (capolavoro di tutta la letteratura giapponese), i personaggi, per manifestare all'interlocutore l'intensità del loro sentimento, lo alludono, lo quasi-tacciono nei discorsi, per trascriverlo invece in una poesia che gli verrà fatta pervenire: è l'eleganza della calligrafia dunque, la perfezione pittorica degli ideogrammi, a manifestare e rendere visibile la purezza di un sentimento, la cui profondità non può essere testimoniata fino in fondo dal suono della parola. 3. Cantami, o Musa «.. , aeide, theà ... », «... moi énnepe, Mousa ... »: canta, o dea ... raccontami, Musa. L'invocazione si trova nel primo verso e dell'Iliade e dell'Odissea: queste dunque sono anche le prime, le primissime parole con cui ha inizio la scrittura poetica occidentale. Le implicazioni nascoste in un simile invito sono enormi. Ancora oggi, forse, non è possibile per noi fare letteratura, se disconosciamo l'invito, se non riflettiamo sul suo senso. Che significa dover dire: «cantami, o Musa», per poter cominciare a scrivere? 1. che il poeta, il narratore non è detentore, signore della propria scrittura, non ne può disporre liberamente (e per il Giampiero Comolli proprio vanto); 2. che la scrittura appartiene alla divinità, cioè risiede presso un massimamente Altro, al quale lo scrittore la deve chiedere come una grazia, un dono; 3. che lo scrittore non sarebbe in grado di scrivere nulla (di poetico) se non si disponesse all'incontro con l'altro, per ricevere il suo aiuto; 4. che l'aiuto dell'Altro non è sporadico e superficiale, ma profondo e continuo: la Musa deve cantare, narrare allo scrittore tutta l'opera da scrivere (se la Musa a un tratto tacesse, lì verrebbe a mancare la poesia dell'opera); 5. che lo scrittore, per poter scrivere, deve prima udire, ascoltare ciò che la Musa gli narra; 6. che lo scrittore non è l'inventore della propria opera, bensì scrive sotto dettatura da parte di un Altro, di un Terzo; 7. che questo Terzo non scrive, ma parla: all'origine della scrittura c'è dunque una Voce che deve essere ascoltata; 8. che questa Voce non è udibile da tutti, ma solo da uno, lo scrittore, il quale diventa perciò tale in quanto testimone non di se stesso, bensì di una Voce divina, voce cioè proveniente da un assoluto Altrove; 9. che, in quanto «divina», questa Voce è incommensuParticolari scelti da Rodin, 1968 rabile, di là dal suono umano: è Silenzio parlante sotto forma di voce; 10: che, in definitiva, all'orig~ne della scrittura poetica occidentale c'è il tentativo di tradurre in scrittura (umana) la Voce (divina e quindi assoluta) di una parola che emerge dal Silenzio - mentre la sorgente della scrittura poetica orientale si troverebbe nel tentativo di trasformare la scrittura in una Visione (assoluta e quindi divina), lasciando sprofondare nel Silenzio la voce (umana) della parola. 4. Voce senza Visione «Ditemi adesso, o Muse, che abitate l'Olimpo - / voi, dee, siete sempre presenti, tutto sapete,/ noi la fama ascoltiamo, ma nulla vedemmo -». 3 Se le Muse tacessero, allo scrittore rimarrebbe solo la «fama» (kléos), cioè la notizia incerta, la diceria vaga, mentre le Muse sanno tutto (ìste te pànta) proprio perché, in quanto presenti (paréste te), hanno potuto vedere. La fama, il kléos degli uomini, è dunque una voce senza sapere, senza verità, proprio perché la Visione ne è assente. La Voce divina, per converso, è portatrice di una vera visione, dal momento che racconta (allo scrittore) ciò che ha visto. In Oriente la Visione si mostra dopo essersi congedata dalla voce, in Occidente è la Voce che sostiene e offre la Visione. 5. Visione senza Voce Il congedo orientale dalla voce per arrivare alla scrittura, non deve essere in alcun modo confuso con l'esperienza delle visioni senza voce, che tanto spesso spingono uno scrittore a diventare tale. All'origine del desiderio di scrivere c'è, facilmente, una predisposizione alla visionarietà, ai cosiddetti sogni ad occhi aperti (di cui parla anche Freud nel famoso saggio sul Poeta e la fantasia): immagini vivide ma mute, frammenti di suono o frasi cariche di un qualche senso misterioso, emozioni intense che sembrano voler portare chissà dove: spesso uno scrittore si sente invaso da queste visioni (in senso lato) che, ancora al di qua delle parole, sembrano essere apparse proprio per chiedergli quella voce, quella lingua scritta che a loro manca. La visione improvvisa e senza voce si presenta dunque come una chiamata che giunge, che porta lo scrittore all'o1 pera. Ma non è in una simile visionarietà (del resto comune a molti) che va cercata l'origine, la sorgente della scrittura poetica. Uno scrittore infatti non è in grado di descrivere le proprie visioni, fino a quando non ode una voce che gli racconta, che narra proprio a lui, quelle stesse visioni che lui aveva avuto. Per porre mano all'opera, lo scrittore deve prima udire dentro di sé qualcuno che è come se gli leggesse sottovoce le frasi che via via lo scrittore andrà scrivendo. Questa Voce può essere così immateriale, così infinitamente silenziosa, che lo scrittore, magari, non si accorge nemmeno di udirla; e tuttavia la ode. Se manca una simile esperienza dell'ascolto, l'opera non nasce, o riesce falsa, stonata: senza stile. Lo stile è dunque la capacità, da parte dello scrittore, di tradurre, di lavorare per trasporre in scrittura l'ascolto di una voce mai del tutto traducibile, in quanto giunta dall'Infinito. (Diverso è il caso della scrittura saggistica, dove forse si tratta di prestare la propria voce a un oggetto, a un concetto che ne è privo.) Un esempio per tutti: l'origine della Recherche du temps perdu, così come è raccontata nella Recherche stessa dal Narratore: all'inizio dell'opera, l'esperienza della madeleine viene descritta come una visione muta, enigmatica, felice, che, pur chiamando il Narratore alla scrittura, non per questo è in grado di offrirgliela, di permettergliela. L'opera rimarrà assente e vagheggiata fino a quando, molto tempo dopo, in seguito alla matinée dai Guermantes, il Narratore non si disporrà a trovare la voce giusta, quella voce inconfondibile, perfettamente adeguata, che si fa sentire chiarissima fin dalle prime righe della Recherche. Se la Recherche, come ogni altra vera opera, fa udire la propria inimitabile Voce, è perché questa stessa Voce è stata udita, prima, dallo scrittore. 6. «I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto,. Facilmente, nel leggere, si ha l'impressione di stare ascoltando la voce dell'autore. Ma la voce inimitabile che sentiamo risuonare nelle opere di Flaubert, di Cechov, di Svevo, non corrisponde semplicemente alla voce di questi autori. Quando un autore parla, nell'opera, direttamente e soltanto con la propria voce, è perché non è riuscito a udire la Voce, e l'opera, per ciò stesso, ne risulta indebolita. Forse che Kafka, nei diari, nelle lettere, non parla esplicitamente con la propria voce? Sì, ma in questo caso (e in un certo senso sempre) la voce dell'autore si tramuta in una Voce altra: una Voce arriva da Fuori (dall'Altrove) e viene a sovrapporsi, vibra all'unisono, coincide, raddoppiandola, con la voce dell'autore. Se l'autore non arriva a sentire la propria voce quale semplice traccia su cui si viene a iscrivere la Voce dell'Infinito, l'opera rimarrà in un «di qua», come trattenuta da un «nodo». È il non aver saputo trascrivere, «notare» quel che la voce dell'Amore «spira» e «ditta dentro», la ragione del peso, del nodo che «ritenne di qua dal dolce stil novo» la poesia di Bonagiunta da Lucca. Come dice Dante: «I' mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch'è ditta dentro vo significando». I «O frate, issa vegg'io» diss'elli4 «il nodo/ che 'I Notaro e Guittone e me ritenne/ di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! / Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette, / che delle nostre certo non avvenne; / e qual più a riguardare oltre si mette, / non vede più dall'uno all'altro stilo».5 È dunque l'ascolto o il non ascolto della Voce, non altro, la differenza che fa lo stile. È il tenersi stretto «di retro al dittator» cortese, la via che permette a uno stile di liberarsi dalla voce del proprio autore (nodo, peso che trattiene in un al di qua), per andarsene («sen vanno») via, verso quell'aereo Altrove da dove «spira» la voce altra dell'Amore.
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